Dylan vive, Dylan sogna

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Rough and Rowdy Ways (2020)

Il disco precedente: Tempest;
(vedi anche Murder Most Foul).
Il disco successivo: chi lo sa.
 

Cavaliere Nero, Cavaliere Nero, dimmi quando e come,
se è mai stato il momento, fa' che sia adesso.
Lasciami andare, apri la porta,
la mia anima è angosciata, la mia mente è in guerra.
Non abbracciarmi, non lusingarmi, non fare il pagliaccio:
Prenderò una spada e ti taglierò il braccio.

Morire è già di per sé una faccenda penosa: ma immagina di essere una celebrità. Immagina tutti i necrologi e le retrospettive che dovrà leggersi il tuo fantasma prima di riposare, tutte quel fiume di lusinghe inutili e sassolini cavati da scarpe stagionate di cinquant'anni, immagina la rottura di coglioni. Finché sei vivo puoi semplicemente cambiare canale e non leggere il giornale, ma chissà se una volta morto funziona così, chissà se una volta abbandonato questo groviglio mortale ti lasciano il telecomando a portata di mano. Magari no, chi può dirlo con certezza, magari nell'Oltretomba ti tocca pure ascoltare i rilievi di Red Ronnie, t'immagini? Vien quasi voglia di non morire più. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Andate avanti voi, Dylan si ferma un altro po' a Key West, a guardare l'orizzonte. È una posa un po' scontata, indubbiamente: è più o meno quello che gli vediamo fare da Not Dark Yet in poi (un quarto di secolo fa, vertigine!), ma che altro può fare, finché non ripartono i concerti?

 

Il punto più a sud degli Stati Uniti (continentali), su un molo di Key West, in Florida. CC BY-SA 3.0

A un certo punto della vita, Dylan deve aver deciso che morire non gli interessava. Attraversatelo voi il Rubicone, quel fiume che per noi italiani profuma di Trebbiano e Sangiovese e per gli americani è rosso ("ruby") di sangue, il confine tra Roma e Gallie, tra Repubblica e Impero. Ogni volta che si è imbattuto nel Cavaliere Nero, Dylan ha sempre trovato un motivo per dire di no. Sul Glasco Turnpike, in moto a 25 anni; a fine Settanta, quando era ridiventato una rockstar inseguito da groupie, spacciatori e avvocati divorzisti, finché in un qualche corridoio d'albergo non s'imbatté in Gesù. A metà anni Ottanta, quando anche Gesù aveva preso le distanze dalla sua discografia e lui si aggirava sul palco come un pugile suonato e fradicio. A fine Novanta, quando una brutta istoplasmosi rischiò di fare di Time Out of Mind un disco postumo (e che gran disco postumo sarebbe stato). Quante volte Dylan se l'è visto davanti, il Cavaliere; quante volte si sarà sentito dire che era il momento buono, che è dovere delle Leggende morire relativamente presto e lasciare un bel cadavere, che lassù c'era già Jimi, Janis, Elvis, c'era John, insomma ancora un po' e rischi di perdere il posto. Finisci in seconda fila nel limbo delle rockstar, pensaci, hai presente dove ti misero in USA For Africa? Una cosa del genere ma per l'eternità. Non è meglio se muori prima dei tuoi critici più affezionati, quando è ancora in giro qualcuno che sappia scolpirti un monumento decente? E tutte le volte Dylan ha trovato un motivo per rispondere: grazie, no. Ho la mia vita, i miei dischi, i miei concerti, a posto così.

Come se fosse facile, e non una scelta quasi impossibile per un maschio adulto di una certa età e di un certo successo. Voglio dire, è più facile scrivere Blowing in the Wind o smettere di bere a cinquant'anni quando chiunque ti sia abbastanza vicino da farti un rilievo puoi licenziarlo in tronco? Quanta impressione fa riprendere in mano una biografia degli anni '90, come Jokerman, e ritrovare nelle pagine finali l'immagine di un rudere prossimo alla pensione. A un certo punto Dylan si è sbloccato, non abbiamo mai capito il perché e neanche lui è riuscito davvero a spiegarcelo: e sì che ci ha provato. Da fuori l'impressione è che lo abbia salvato la musica: i concerti soprattutto. Lui che si era già stancato di suonare dal vivo nel '66, dal 1987 è partito per fare un po' di date ed è come se non fosse più tornato a casa. Le stagioni si alternavano inesorabili, i presidenti si alternavano ogni quattro o otto anni, dichiaravano guerre e le dichiaravano vinte, e Dylan continuava a suonare. Quando a Stoccolma volevano consegnargli il Nobel, lui aveva delle date prenotate a Las Vegas e andò a Las Vegas, ché l'Accademia di Svezia mica ti paga le penali. Nulla lo avrebbe fermato, terremoti, uragani, epidemie. No, in realtà l'epidemia lo ha fermato, e a quel punto abbiamo cominciato a preoccuparci. Cosa farà Bob Dylan senza i suoi ottanta concerti all'anno? Reggerà la mancanza di stress, i pomeriggi vuoti ad ascoltare dischi che sa a memoria, a cominciare libri di cui si stanca a metà?

Qualche giorno fa qualcuno è riuscito a fargli una foto mentre entra in un bar e insomma, pare che un anno di Covid abbia fatto a Bob Dylan meno danni che a me. Quando ha smesso i concerti, si è rimesso a incidere canzoni, come fosse la cosa più naturale del mondo. Un filo di parole che sembrava tranciato netto otto anni fa, lui l'ha ripreso con apparente naturalezza e si è rimesso a raccontarci le sue serie di sogni, scombinati come i sogni sono sempre. Quelli dei vecchi forse sono un po' più elaborati perché contengono moltitudini: gli anziani devono smaltire più ricordi (i sogni a questo servono), e più cultura. Da un po' abbiamo scoperto che Chronicles I, un libro di memorie, era in realtà un libro di ritagli di altri libri. Ormai non c'è più una sola parola, nelle canzoni di Dylan, che non rimandi certamente a qualche altra canzone o poesia o testo. Quando Dylan nella strofa successiva spiega al Cavaliere Nero che "le dimensioni del tuo uccello non ti porteranno da nessuna parte" ("the size of your cock won't get you nowhere") Alessandro Carrera ci rimane un po' male, gli sembra una caduta di stile; poi però si mette a cercare finché non trova un il riferimento, e questo in parte lo consola: sarà anche una caduta, ma è una citazione da Giovenale, Satira IX, dai, ci può anche stare. Si capisce che in questo modo potremmo perdonare a Dylan qualsiasi testo senza capo né coda – non è in fondo quello che facciamo da sempre? I sogni vanno presi per quel che sono: mentre ci sei dentro credi che abbiano una trama coerente, ma quando ti svegli capisci che la verità si fa vedere solo a sprazzi, qua e là, senza avvisare e senza salutare. Se c'è un buon verso (e ce n'è parecchi), teniamocelo per detto e ringraziamo: che altro vorremmo chiedere al Sognatore, più coerenza strutturale, più trama? Per queste cose c'è Netflix. Magari My Own Version of You all'inizio era un vecchio film in bianco e nero, magari Dylan all'inizio era Frankenstein, se non direttamente il mostro di Frankenstein deciso a fabbricarsi una compagna. E già qualcosa si sta sfilacciando, la "mia versione di te" è diventata una "versione di me", e nel frattempo le parole per associazione ne hanno evocate altre e Dylan non sa più cosa sta raccontando, ma che importa, "mica mi perderò in dettagli insignificanti".

Non è un procedimento consapevole, è semplicemente il modo in cui un anziano pensa e sogna. Se si trova sulla spiaggia di Key West, il punto della Florida più vicino a Cuba, gli viene in mente il presidente McKinley, che Cuba la conquistò agli spagnoli e ai soldati americani (tra cui Theodore Roosvelt) che si imbarcavano da lì; e che McK fu assassinato nell'anno in cui le onde radio arrivarono negli USA; ma a quel punto gli vengono anche in mente Radio Luxembourg e le altre emittenti radio pirata che cambiarono la storia della musica (però in Europa); intanto McKinley è diventato un profeta e un pirata, magari anche per allitterazione; e il suo assassinio non può che condurre Dylan a rimuginare sul ben più traumatico assassinio di Kennedy. È tutta una serie di sogni, il profeta non può uscirne. Key West è un posto dove andare in attesa dell'immortalità.

Dal Vangelo di Giovanni, 21,21-23: Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?».

Insomma Dylan è vivo e continua a scrivere buone canzoni, le solite elegie e i soliti bluesacci, con testi sconnessi ma non più del solito. Ma anche in caso contrario, che motivo avevamo di stare in pensiero per lui? In qualsiasi momento arrivasse il Cavaliere Nero, non sarà già abbondantemente in ritardo? ("I’ve already outlived my life by far", riconosce in Mother of the Muses). Chi può dire di aver vissuto una vita altrettanto avventurosa e ricca di soddisfazioni. quanti altri dischi/capolavori abbiamo il diritto di aspettarci da un ottantenne? Ok, eppure è in giro da così tanto tempo, il vecchio Bob, che ormai sembra ingiusto privarcene. Secondo un'antichissima leggenda – già attestata in Gv 21,21-23 – San Giovanni Evangelista in realtà non è mai morto; è ancora da qualche parte che aspetta di assistere al Secondo Avvento di Gesù nella gloria. Questo potrebbe spiegare come mai in My Own Version of You Dylan lo inserisca in una serie di pianisti celebri, tra Leon Russell e Liberace. I critici americani restano perplessi, ci informano che ai tempi di Giovanni Evangelista il pianoforte ancora non esisteva: grazie critici americani, se non ci foste voi. Ma se l'Apostolo Che Gesù Amava non fosse mai morto, dove potrebbe essersi nascosto per tutti questi secoli? Un tizio che a cent'anni scriveva l'Apocalisse, cosa potrebbe fare a duecento, cinquecento, eccetera? È lecito immaginare che abbia scritto qualche apocalisse in più. Appena ha potuto si è messo a imparare qualche strumento, di sicuro quando hanno inventato il pianoforte aveva già qualche secolo di esperienza con le tastiere occidentali, e anche la chitarra elettrica per lui sarà stata una robetta. Solo la voce l'ha sempre tradito per quel matusalemme che era. E così eccoti qua, Giovanni Apostolo. Come dobbiamo chiamarti? Ebreo errante, Robert Zimmerman, Jimmy Reed?

Abito in una strada che ha il nome di un santo, le donne nelle chiese hanno addosso cipria e fondotinta. Qui pregano ebrei, cattolici e musulmani, ma so riconoscere un protestante da un miglio. Arrivederci Jimmy Reed, Jimmy Reed, proprio te: dammi la cara vecchia religione, è quella di cui ho bisogno...

Un altro esempio di come Dylan può far impazzire gli esegeti americani, che qui insorgono: cosa c'entra Jimmy Reed con la "old time religion", cosa c'entra l'ubriacone autore di Bright Lights, Big City con Gesù? Sono domande che è inutile porre all'inconscio, e in particolare all'inconscio di Dylan dove da sempre "cristianesimo protestante" e "blues" sono corridoi paralleli e comunicanti. Se aggiungi che "religion" nei vecchi brani blues e folk può essere la magia nera (e quindi il blues), capisci come tutto possa significare sempre il contrario di tutto, e il senso vada cercato proprio in quell'opposizione. Dylan ha nostalgia del vecchio blues come della vecchia America protestante: tutto questo multiculturalismo che vede trionfare nel suo quartiere non è che lo scandalizzi, ma a volte lo stanca; ognuno idealizza la sua infanzia e ai suoi tempi le chiese erano ancora segregate e le cartolerie, vi ricordate? vendevano cartoline delle impiccagioni. Era un mondo di contrasti, ma erano contrasti che Dylan ancora riusciva a capire. Senz'altro la vecchia religione dei predicatori e la vecchia musica dei bluesmen non sono la stessa cosa, ma Dylan le rimpiange assieme, nello stesso sogno che è la stessa canzone. Ed è un rimpianto senza velleità apocalittiche, Dylan non le rivuole davvero indietro, sta soltanto intonando un addio, l'ennesimo. Che altro dovrebbe fare.

Questo pezzo è l'appendice di un lungo viaggio che intrapresi sul Post quattro anni fa: ogni settimana raccontavo un disco di Dylan, dal primo all'ultimo che a quel tempo era Tempest (sui dischi di cover confidenziali, chiedo scusa, non ho ancora trovato niente da scrivere). Quando è uscito Rough and Rowdy Ways non sapevo bene cosa dirne, ho preferito aspettare. Non sono molto bravo ad ascoltare i dischi nuovi, ci metto mesi a separare il grano dal loglio, nel frattempo qualcuno avrebbe deciso per me se era un capolavoro o un'opera senile; qualcuno mi avrebbe aiutato a risolvere gli indovinelli. Non è andata così. I critici per lo più lo hanno trovato buono, ma con accenti entusiasti che mi fanno dubitare della loro oggettività, e del resto come si fa a giudicare oggettivamente un disco di Dylan, che ormai è in una categoria a sé? La cosa più saggia è confrontarlo a Tempest, un disco meno compatto ma forse più avventuroso. Rough and Rowdy Ways in linea di massima è una raccolta di canzoni più riuscite, cantati con più raccoglimento da una voce che negli ultimi anni si è assestata – alla fine i dischi di cover sono stati un'ottima palestra – e non oscilla più pericolosamente tra il guaito e la tosse grassa. Dylan canta un po' meglio del solito, ma non è la prima volta che succede e non è la prima volta che ci fa rimpiangere certi brani assurdi che oggi non comporrebbe più, incisi con una voce a brandelli che oggi non ha più. Mancano i guizzi, insomma, gli alti e i bassi che ci tenevano svegli in altri dischi; è del tutto scomparso quello swing sui generis che aveva rianimato la sua carriera da "Love and Theft" in poi, insomma un brano come Duquesne Whistle nel nuovo disco non c'è e un po' lo rimpiango; non è che posso pretendere un'altra Visions of Johanna da un compositore ottantenne, ma un'altra Duquesne sì, non mi sarebbe dispiaciuta.

Dylan non è più lo scavezzacollo settantenne che le prova tutte, e quando gli va male scrive una litania interminabile come Tempest (la canzone), ma quando gli va bene azzecca un numero ipnotico e teatrale come Tin Angel. Sulla soglia degli ottant'anni sembra aver tirato i remi in barca: è ritornato ai vecchi blues in dodici battute ma se li fa cucinare dalla sua band più sporchi del solito, grezzi e chiassosi ("rough and rowdy"), con qualche incertezza ritmica che ci ricorda i suoi esordi elettrici. Tra un bluesaccio e l'altro una ballata: qua e là (soprattutto in Key West) si sente un'eco lontana delle atmosfere scoperte collaborando con Daniel Lanois. L'unico numero eccezionale è il finale, che nella versione CD sta su un disco a parte: l'interminabile elegia per Kennedy, Murder Most Foul, che uscì in anteprima l'anno scorso e di cui qui si è già parlato. E quindi? È un capolavoro questo Rough and Rowdy Way, o siamo tutti semplicemente inteneriti dallo spettacolo di un ex folksinger, ex rockstar, ex simbolo generazionale, che è sopravvissuto a ogni ondata che doveva travolgerlo, al punto che ormai gli perdoniamo qualsiasi caduta di stile, qualsiasi incoerenza e ripetizione, qualsiasi cosa ci canti, purché ci canti ancora?

Non saprei. Cioè è un buon disco, tutto sommato, però... mi lascia insoddisfatto, credo che in seguito lo considereremo un disco di transizione. Puoi sognare di meglio, vecchio Dylan, non fermarti. Ah, e buon compleanno.

Gli altri dischi di Bob Dylan: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire BurlesqueBiograph1986Knocked Out Loaded1987Down in the GrooveDylan and the Dead1988The Traveling Wilburys Vol. 11989Oh Mercy1990Under the Red SkyTraveling Wilburys Vol. 31991The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased)1992Good As I Been to You1993World Gone Wrong, 1994MTV Unplugged1997Time Out of Mind2001“Love and Theft”2006: Modern Times2008Tell Tale Signs2009Together through LifeChristmas in the Heart2012Tempest2020: Murder Most Foul.

 

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Il più efferato eccidio

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Murder Most Foul (singolo di Bob Dylan, pubblicato all'improvviso il 27/3/2020)

Il disco precedente: (Tempest)
Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63,
giorno d’infamia per l’eternità...



Buongiorno a tutti, mi chiamo Leonardo e se leggete il Post da un po' forse mi conoscete per quella menata interminabile che sto facendo sulle canzoni dei Beatles – ecco, prima di quella ce ne fu ancora più interminabile sui dischi di Bob Dylan: l'idea era scrivere un pezzo su tutti i dischi del premio Nobel più pazzo della storia della Letteratura, uno alla settimana, e dopo un anno non era ancora finita. Gettai la spugna in occasione di Tempest, il suo ultimo disco di inediti. Davanti a me avevo ancora i suoi tre dischi di cover di Sinatra (il terzo dei quali, appena uscito, era triplo) e non sapevo davvero come affrontarli. Del resto intuivo già che sarebbe stato uno sforzo vano: anche se avessi avuto la velocità di reazione di Achille, sapevo che Bob la Tartaruga avrebbe continuato ad allontanarsi: qualche mese dopo uscì un cofanetto imprescindibile sul suo periodo gospel, qualcosa tipo otto cd.

In seguito che altro è uscito, dunque: #1, un'antologia doppia dei live '62-66 (i ventenni che lo andavano a fischiare al tempo oggi si svenano per acquistare i cofanetti deluxe); #2, un disco con le versioni alternative di Blood On the Tracks, che oltre ad avere un indubbio valore storico sono anche un ascolto gradevole per chi non dedica a Dylan la sua esistenza; #3, la colonna sonora del film che Scorsese ha dedicato alla sua Rolling Thunder Revue; #4 un'altra collezione di versioni alternative del suo periodo country, con tanti duetti con Johnny Cash... e poi qualche giorno fa, forse ne avete sentito parlare, sulle piattaforme di streaming è comparsa all'improvviso una cantilena di 16 minuti intitolata Murder Most Foul ("il più efferato delitto" in inglese shakespeariano). Ora, per quanto non sia il più semplice degli ascolti, si tratta del primo inedito di Dylan dopo otto anni: una pausa ancora più lunga di quella che si prese quasi per tutti gli anni Novanta, tra Under the SkyTime Out of Mind. Non che nel frattempo se ne sia stato zitto e fermo, il Bardo:  ha inciso cover su cover e continuato il suo cosiddetto "tour infinito", che negli anni buoni lo ha portato a suonare più di cento concerti all'anno. Murder Most Foul è comunque il primo brano dopo una lunga astinenza volontaria e... dobbiamo proprio dirlo? Potrebbe anche essere l'ultimo.



Dylan in maggio compirà 79 anni. Non è un periodo semplice per gli anziani, questo: soprattutto per gli anziani che non sanno restare fermi e Dylan a volte è sembrato quel tipo di anziano. Un suo ex chitarrista si è già preso il coronavirus dopo aver suonato a un concerto: ci suonava anche Jackson Browne e pare l'abbia preso pure lui. Speriamo che Dylan abbia preferito stare in casa, memore magari di quella brutta istoplasmosi che nel '97 rischiò di fare di Time Out of Mind un disco postumo.

E però anche questa scelta di pubblicare una canzone all'improvviso, proprio adesso... è un brano su Kennedy, realizzato "qualche tempo fa", il che potrebbe voler dire in qualsiasi momento degli ultimi otto anni. Ci sono molti dettagli che fanno pensare che Murder sia più vicino a Tempest di quanto la data di uscita non ci faccia credere. Il più appariscente è il shakespearismo, se il titolo di Tempest era (come Dylan negò) un'allusione all'ultima opera di Shakespeare. Ultimamente Dylan pensa spesso a Shakespeare, non tanto come a un autore da cui prendere in prestito soluzioni, quanto a uno dei pochi colleghi col quale si può ancora confrontare – vedi quel brano spassoso e molto illuminante del suo bigliettino di ringraziamento agli accademici di Svezia, in cui confessa candidamente che dopo aver ricevuto la notizia del premio il primo autore che gli era venuto in mente era quello dell'Amleto, con le sue preoccupazioni più e meno banali (“Voglio veramente ambientarlo in Danimarca?” [...] “Dove posso procurarmi un cranio umano?”). L'avvicinamento ideale a Shakespeare spiega in parte un certo gusto per le descrizioni violente, gli eccidi e le stragi, che è un altro aspetto di Tempest che ritroviamo echeggiato in Murder (l'insistenza sul dettaglio di quel cervello a pezzi). E come in Tempest, Dylan non si preoccupa di esercitare un minimo di violenza anche sull'ascoltatore, infliggendogli un brano lunghissimo in cui la gabbia delle strofe si ripete uguale all'infinito. Murder potrebbe persino essere uno scarto di Tempest, per quel che ne sappiamo: e allora perché pubblicarlo proprio adesso?

Amleto (nel senso di Laurence Olivier)

Un manager accorto – quel tipo di persona che Dylan non ascolta da mezzo secolo – gli avrebbe suggerito di aspettare un anniversario, se non il classico 22 novembre almeno il 29 maggio in cui l'ex presidente avrebbe compiuto 97 anni. Avrebbe avuto senz'altro più copertura, oggi che le canzoni si ascoltano in streaming e un link giusto da un organo d'informazione può voler dire milioni di ascolti in più... ma Dylan non ascolta nessuno, appunto (nemmeno sé stesso: continua a fare concerti proibendo a tutti di registrarli: tra tutti i dischi che pubblica, non esiste un'incisione ufficiale degli ultimi vent'anni di esecuzioni dal vivo). Può darsi che sia il modo tutto suo che ha trovato Dylan per dirci che sta bene – vi ricordate nei primi giorni del lockdown, quando un sacco di vip faceva le dirette streaming? Poi immagino abbiano smesso, io ricordo soltanto Jovanotti che suonava la chitarra per chiunque passasse, una cosa anche simpatica in fondo, una specie di panopticon però coi like e i cuoricini, se uno ha voglia di vedere come sta Jovanotti si sintonizza, ah ecco, suona la chitarra, sembra tutto ok, e Dylan invece? Dylan pubblica sedici minuti di peana sulla morte di Kennedy. Ok.

Ok cosa?

Ok boomer.



Cioè davvero mentre il mondo trema e si domanda come fronteggiare la prima vera pandemia mondiale e tutte le altre crisi economiche e ambientali che ne seguiranno – davvero questo epico reduce dei Sessanta è ancora lì a girare intorno al suo eterno chiodo fisso? Esatto, Dylan è ancora lì e non si muove. La sensazione è proprio quella di non potersi muovere, all'interno di un lockdown mentale che fa impallidire il nostro: poverini, siete in casa da un mese? Io sono rinchiuso nella mia testa da quasi 60 anni. Vi guardate le serie su Netflix? Io guardo il filmato di Zapruder 33 volte in una sera ("È orrendo, un inganno, è crudele, è cattivo, la cosa più brutta che si possa vedere..." ed è l'unica che gli manda in onda il cervello). Murder è una cantilena, non lo dico per offenderla, mi sembra la definizione tecnica più precisa. Una filastrocca tirata per le lunghe da un bambino posseduto. E va bene, illustre Dylan, abbiamo capito che è stato un trauma, il vero choc, la Fine di tutte le Speranze, ma anche l'Inizio, o forse l'Inizio di una cosa che era Finita sul nascere? Un'omega travestita da alfa? L'inizio di una linea temporale sostanzialmente sbagliata da cui Bob ha sempre voluto prendere le distanze – la tempolinea in cui ha rinnegato la sua militanza politica, ha incontrato i Beatles e si è improvvisato rockstar, ha fatto i veri soldi, poi si è quasi ammazzato in moto, ha tentato di nascondersi nel country, eccetera eccetera eccetera. Ecco, tutto questo Dylan sembra considerarlo completamente sbagliato, la deriva inevitabile di quel singolo momento ignominioso in cui spaccarono il cranio al presidente che sfilava per Dallas. Il peccato originale. Siamo perduti da quel momento, sembra volerci dire Dylan: e anche se avesse ragione, sentirla ribadire per sedici minuti non fa esattamente bene all'umore. Non potrebbe semplicemente strimpellare qualcosa come un Jovanotti qualsiasi, giusto per farci sapere che sta bene? No, Dylan è prigioniero di un incubo che torna sempre al momento dello choc primigenio. Se i sintomi nevrotici avessero diritto a una canzone, a Murder Most Foul toccherebbe la coazione a ripetere.



Anche l'ascoltatore che ha una certa esperienza delle interminabili litanie di Tempest, ci mette almeno un minuto su sedici a rassegnarsi all'idea che la filastrocca non è l'inizio in sordina di una canzone un po' più strutturata, e che basso chitarra e violoncello continueranno a cincischiare così all'infinito. Murder Most Foul non è solo una canzone che non finisce mai: è anche una canzone che non inizia mai, un'epica interrotta sul proemio, un Amleto senza vendetta, la storia di un Cavaliere che partiva per liberare l'America ma gli sparano alle spalle quando è appena uscito dal ponte levatoio.  Ricorda un poco l'ultima uscita di un altro grande vecchio la cui strada si era appena incrociata con la sua, Martin Scorsese: o perlomeno la mia reazione di fronte a The Irishman non è molto diversa da quella che ho provato ascoltando Murder:  cioè, aspetta, lo stai facendo di nuovo? Ancora mafiosi italoamericani, ancora ammazzamenti barbari, ancora le collusioni tra sindacato e malavita, ancora i teamsters? Ancora Hoffa? Dopo Stallone, dopo Jack Nicholson, ma non ce l'hanno avuto un altro sindacalista gli americani che ci dovete sempre raccontare della misteriosa scomparsa di Hoffa? Ma insomma illustre Scorsese, cosa potrai dirmi che non so già proprio perché me l'hai raccontato tu o qualche tuo sodale? Che altro potrò notare se non che la tua mano si è fatta più statica e pesante, i tuoi attori più legnosi e segnati da rughe contro cui poco può la computergrafica?

Ecco: Dylan, come Scorsese, sembra rassegnato a non poterci raccontare più di quello che ci ha già raccontato – è come l'anziano che proprio nel momento in cui cominciamo ad aver voglia di ascoltare le sue storie, scuote la testa sconsolato: le ha finite, può solo tornare su quelle che ha già raccontato e raccontarle in tono più greve, ogni volta un po' più greve. E sia nel caso di Dylan che nel caso di Scorsese la cosa è vera solo fino a un certo punto, ovvero: Scorsese di film sulla mafia non ne ha girati poi così tanti (eppure sembra l'autorità in materia); prima di The Irishman non aveva in realtà mai raccontato una storia di collusioni tra malavita e sindacato (eppure è come se lo avesse fatto), non aveva mai diretto Al Pacino (che sembra fatto apposta per i suoi film). E anche Dylan, quante canzoni aveva dedicato al caso Kennedy prima di Murder? Forse neanche una. Alcune poesie dattilografate a caldo (la più toccante dedicata a Jacqueline Kennedy), che non si trovano nemmeno nel sito ufficiale, e poi un apparente silenzio di 60 anni. L'idea che Dylan sia da sempre ossessionato dall'assassinio Kennedy è uno strano effetto ottico, un trucco di prospettiva. Proprio come Scorsese, che oltre a tornare su un tema già sviluppato (la mafia), si affida a elementi che già altri hanno reiterato prima di lui, non cita soltanto sé stesso ma anche il Padrino di Coppola e il Sergio Leone di C'era una volta in America; in un modo simile Dylan non sta raccontando l'assassinio Kennedy, ma attingendo dall'enorme mole del racconto collettivo che ne esiste già, piazzando qua e là veri e propri indovinelli per i conoscitori più esperti (nel distico “Slide down the banister, go get your coat/Ferry cross the Mersey and go for the throat" c'è un criptico riferimento a due agenti FBI coinvolti nell'inchiesta, Guy Banister e Dave Ferry).

Chi?

Proprio come Scorsese che non si preoccupa di raccontare un'epopea mafiosa già cristallizzata da altri autori, allo stesso modo Dylan non si preoccupa affatto di ratificare, con Murder Most Foul, una leggenda smentita dagli storici ma in qualche modo più forte dell'evidenza: l'idea che la Beatlemania sia stata la reazione morale del popolo americano – o almeno della gioventù americana – alla morte di Kennedy. È un'idea affascinante che abbiamo sentito raccontare tante volte, forse mai tanto icasticamente quanto nella beatle-biografia di Philip Norman, Shout!
L'America – Brian [Epstein] non lo sapeva ancora – era già sua: si stava avvicinando alla sua conquista, senza accorgersene, mentre, lontano nel Texas, qualcuno puliva e controllava il meccanismo di un fucile ad alta velocità e sceglieva un punto favorevole da cui far fuoco. L'America si arrese a lui quella mattina di Dallas in cui il corteo presidenziale si mise in moto, estremamente fiducioso e aperto alla luce del sole, e un cineamatore, sul bordo del marciapiede, rivolse la sua cinepresa verso la limousine che trasportava un giovane uomo col capo scoperto. Era il 22 novembre, il giorno in cui, in Inghilterra, fu messo in vendita il secondo album dei Beatles...
Questa idea – la Beatlemania come elaborazione del lutto, o forse come mancata elaborazione collettiva del medesimo – è ormai un luogo comune della storia del costume americano; un po' l'equivalente di quando in Italia si racconta che il Sessantotto è finito con Piazza Fontana o gli anni di Piombo col Mundial 1982. Avevo trovato un nome per queste cose – forrestgumpismo, ecco, non era proprio un gran nome, ma Dylan non è mai stato tanto forrestgumpista come in Murder Most Foul, quando dopo due minuti di elegia sembra per un attimo voler ingrandire il campo: "Hush little children you'll understand: the Beatles are comin’, they're gonna hold your hand". A questo punto se non avessimo sentito la stessa leggenda da decine di altre bocche, forse il riferimento ci sfuggirebbe, e invece lo diamo per scontato: hanno ucciso Artù, e ora dal mare arriveranno questi simpatici cavalieri del disimpegno, a incantare e perdere un'intera generazione. E sappiamo anche che Dylan non si sente affatto incolpevole di tutto questo, perché c'era anche lui ad aspettare i Beatles, a offrirgli il primo tiro di joint, convinto che i Beatles conoscessero già le proprietà lenitive della cannabis e che I Want to Hold Your Hand nascondesse riferimenti a tali proprietà. Sappiamo, perché l'abbiamo letto e straletto, che anche se Dylan non ha mai scritto una canzone su Kennedy, ne ha scritte due o tre sulla figuraccia che fece almeno un mese dopo, quando a una cena progressista volevano premiarlo in quanto cantante progressista e lui si mise a dire che si sentiva un po' Oswald e capiva i suoi giovani amici che andavano a Cuba a prendere lezioni di rivoluzione. Sappiamo che quell'episodio non fu (solo) la tipica tirata di un ubriaco che si autopunisce, ma il momento topico di una drammatica svolta di carriera che l'avrebbe portato in pochi mesi da principe del folk militante ritratto su seriosi LP in bianco e nero a rockstar sbruffona con gli occhiali scuri e 45 giri in classifica. Sappiamo tutto questo perché è stato già scritto e riscritto, in una marea di testi che si citano a vicenda, ovvero si tratta di un vero e proprio Canone: il canone dei boomer americani. C'era Kennedy che portava un certo tipo di speranza, ma gli spararono e allora vennero da Liverpool quattro ragazzini con un altro tipo di speranza, e poi fu Woodstock e poi Altamont, Dylan le cita entrambe e chi è previsto sappia non ha bisogno di note a pie' di pagina: è già stato tutto inciso sulla Colonna Traiana dei boomer. In effetti ci sono momenti in cui il citazionismo sembra prendergli la mano, e l'ascoltatore comincia ad avere il sospetto che il vecchio Dylan stia cercando di fare quello che trent'anni fa fece, con più sintesi e sfoggio di virtuosismo, Billy Joel in We Didn't Start the Fire: la storia di una generazione per citazioni, un affresco realizzato con la tecnica del namedropping.



Ci sono in effetti momenti in cui Dylan sembra adottare la stessa tecnica di evocazione di un periodo mediante nomi e frasi fatte, ma in modo meno meccanico e consapevole – a volte sembra condannato a ricorrervi, come il personaggio non troppo secondario della storia che sta raccontando. Lo si sente in alcune citazioni incongrue, che hanno un senso ma allo stesso tempo sembrano maldestre – la più eclatante per me è quella da Tommy degli Who, che se non sbaglio è la prima prova che abbiamo che Dylan abbia mai ascoltato Tommy o qualsiasi altro disco del gruppo di Pete Townshend.
Tommy, mi senti? Sono la Regina dell’Acido,
viaggio in una Lincoln limousine, lunga e nera,
sul sedile posteriore di fianco a mia moglie
e per destinazione l’aldilà.
L'idea che nel percorso verso l'oltretomba il presidente abbia potuto incontrare l'Acida Regina di Tommy sorprende come l'orologio da polso in un peplum romano. Più in là Dylan invita Wolfman Jack, il Dj Lupo Solitario di American Graffiti, a suonare per il funerale: segue una lunga playlist che prende una buona parte del pezzo e identifica un altro canone, quello della musica popolare americana prima della caduta (prima della beatlemania). Tutto abbastanza chiaro salvo che a un certo punto esce fuori... Another One Bites the Dust. A questo punto confesso di avere googlato in lungo e in largo alla ricerca di una canzone americana con lo stesso titolo perché l'idea che in un elenco simile, tra la sigla di Twilight Zone (Ai confini della realtà) e il gospel The Old Rugged Cross, ci fossero i Queen, mi urtava più del proverbiale cavolo a merenda. E invece no, e invece Dylan probabilmente ha in testa proprio i Queen e in particolare quel ritornello decontestualizzato: Eccone un altro che morde la polvere.

Sono dettagli dissonanti, sbavature più o meno consapevoli che in un certo senso ci confortano sul fatto che Dylan è ancora il vecchio Dylan, e non è stato sostituito da un generatore di testi di Dylan. Murder Most Foul ricorda, infine, quella che fino a un mese fa in quanto ultima nella scaletta di Tempest bisognava considerare l'ultima canzone di Bob Dylan, Roll On John. E se da una parte era commovente pensare che Dylan si congedasse dalla scena letteraria con un omaggio all'amico e collega John Lennon, dall'altra lasciava perplessi la confezione dell'omaggio, una specie di trasfigurazione mitica della sua breve vita in cui ogni tanto si infilavano citazioni lennoniane risaputissime e abbastanza fuori contesto ("Come together right now over me" non è proprio la prima cosa che ti verrebbe da cantare a un amico caduto), e poi alla fine senza nessun apparente motivo al mondo un celeberrimo verso di Blake, Tyger, tyger, burning bright... Ecco, in Murder Most Foul c'è la stessa volontà di creare una mitologia partendo da riferimenti che tutti i coetanei di Dylan possono cogliere al volo, con qualche dettaglio dissonante che in un altro autore stonerebbe e basta, ma che in Dylan ci conforta in qualche modo sulla genuinità del prodotto – in fondo è Dylan, ha sempre fatto un po' di casino con nomi e date e luoghi. E quindi insomma alla fine sta bene. Il nostro vecchio Dylan. Sì, da qualche parte nello spaziotempo c'è un Dylan migliore che non ha mai dichiarato di essersi sentito Oswald perché Oswald non ha mai assassinato Kennedy, un Dylan che ha continuato a credere nelle canzoni che cambiano il mondo e magari l'ha pure cambiato e adesso è ministro per l'Agricoltura della Repubblica Socialista Democratica Panamericana. Ma anche il nostro Dylan qualcosa di buono l'ha fatto, dai. Abbiti cura, Stay safe stay observant and may God be with you.



Gli altri dischi di Bob Dylan: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire BurlesqueBiograph1986Knocked Out Loaded1987Down in the GrooveDylan and the Dead1988The Traveling Wilburys Vol. 11989Oh Mercy1990Under the Red SkyTraveling Wilburys Vol. 31991The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased)1992Good As I Been to You1993World Gone Wrong, 1994MTV Unplugged1997Time Out of Mind2001“Love and Theft”2006: Modern Times2008Tell Tale Signs2009Together through LifeChristmas in the Heart2012Tempest2020: Murder Most Foul.
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L'ultimo sanguinario, tempestoso Dylan

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Tempest (2012)
(Il disco precedente: Christmas in the Heart)
Poi c'è una specie di canzone: Murder Most Foul).

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come per spazzarmi via.
Mi fermo un po' a Carbondale, poi riparto,
il Duquesne mi riprenderà con sé.
Mi dai del giocatore, del ruffiano,
Ma non sono né l'uno né l'altro.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come fosse l'ultima partenza.


È stato un lungo viaggio. Anche per chi come noi lo ha fatto tutto in un anno solo, concentrato, una stazione alla settimana. Per più di un anno abbiamo accettato l'idea che un insieme arbitrario di canzoni incise sullo stesso supporto ("disco") possano avere un senso, una qualità superiore (o inferiore, talvolta) alla somma delle parti. Alcune stazioni erano famosissime, altre in disuso; altre sconosciute, artificiali, monumentali, postume. Spesso abbiamo avuto la sensazione di ritornare indietro; talvolta ci siamo messi a fantasticare di ideali scorciatoie, o di stazioni immaginarie che avrebbero avuto più senso di quelle che invece esistono davvero (e che non hanno sempre senso). Tre o quattro volte siamo arrivati in una stazione che sembrava essere concepita come l'ultima - già Blonde on Blonde in qualche modo suggeriva questa sensazione. E poi i dischi con Lanois; alcuni confanetti; e tutti i dischi dal 2000 in poi: hanno tutti quell'aria di capolinea che non ci ha mai impedito di ripartire. Tempest, uscito nel 2012, allude all'ipotesi già dal titolo, che ogni buon ex studente anglofono collega, ancor prima che a un evento atmosferico, all'ultima opera di William Shakespeare. Quella però si chiama The Tempest, con l'articolo: fu Dylan stesso a ricordarlo ai giornalisti, almeno una volta. Segno che si era posto il problema; che non trovava poi così immodesto paragonarsi al più grande bardo inglese, dopo essersi paragonato più di una volta a Picasso - e proprio di Shakespeare avrebbe parlato nel primo biglietto di ringraziamento spedito all'Accademia di Svezia dopo l'annuncio del Nobel: uno Shakespeare impresario di sé stesso, che oltre a scrivere tot righe all'anno deve anche preoccuparsi di fundraising e oggetti di scena (“Dove posso procurarmi un cranio umano?”). Chissà se poi le cose andassero davvero così, se Dylan si sia realmente documentato sulle incombenze dei drammaturghi elisabettiani. Fatto sta che a un certo punto Dylan ha voluto chiamare una stazione "Tempest"; ha voluto che pensassimo che poteva essere l'ultima; quando gliel'hanno chiesto, ha negato; e in effetti ci sono state altre stazioni, ma ora che ci siamo lasciati parecchie miglia alle spalle ci rendiamo conto che forse è andata proprio così: Tempest era l'ultima.

Certo, il treno è andato avanti. E potremmo andare avanti anche noi, almeno per un po'. Ma in un certo senso Dylan è sceso. Il Dylan compositore, perlomeno: ovvero quello che ci interessa di più. Seguono altre tre stazioni di cover di lusso, una interminabile playlist di pezzi confidenziali che potrebbe essere quel tipo di musica che suonano nell'ascensore mentre uno va in paradiso, ecco, forse da Tempest in poi ci troveremo in un limbo del genere, e sai quanto ci divertiremo! Abbiamo tre stazioni per decidere se Dylan abbia preso più da Sinatra o più da Louis Armstrong o per caso niente da entrambi. Ma prima di tutto questo dobbiamo affrontare Tempest con la consapevolezza che è davvero, che ha proprio tutta l'aria di essere l'ultimo disco di inediti che Dylan ha voluto pubblicare. E com'è questo Ultimo Disco di Dylan, com'è? Beh:


Ha una della copertine più brutte mai autorizzate da Dylan ("Qualcuno è stato davvero pagato per questa cosa?" "Sembrano i primi passi su photoshop di uno studente del primo anno"). Ma dal punto di vista musicale, l'unico che c'interessi davvero, com'è?

È... straordinario (per un settantenne, almeno).

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come non ha fischiato mai.
Il blu lampeggia, il rosso avvampa
come sulla porta della mia camera.
E tu sorridi ancora dal cancello
come mi sorridevi un dì?
Senti come fischia il vecchio Duquesne:
come se non dovesse fischiare più.

La straordinaria opera di un settantenne. Temo che a questo punto del viaggio l'età del conducente non possa più essere considerata una curiosità. Per quanto ancora possano essere suggestive le stazioni, è il viaggio che sta diventando un'opera in sé; nessun treno dello stesso genere ha percorso un tratto così lungo e complicato. Forse non abbiamo neanche gli strumenti per descriverlo, il disco rock di un settantenne; ci mancano i punti di riferimento - persino i Rolling Stones (comunque partiti dopo) sono rimasti indietro, su una pista tutta loro che torna sempre alle stesse stazioni. La grandezza del Dylan di Tempest rischia di essere la grandezza di certi atleti che vanno alle olimpiadi senior per la quarta volta e finalmente vincono la medaglia perché i loro avversari storici nel frattempo sono morti. Allo stesso tempo, come si fa a ignorare che Dylan continui a suonare ottanta concerti all'anno all'età in cui voi vi immaginate davanti a un brodino caldo all'ospizio? Che stia ancora scrivendo canzoni mezzo secolo dopo aver pubblicato Blowin' in the Wind?




Stavolta a soffiare è una vecchia locomotiva a vapore, la "Duquesne", metafora semplice e immediata della vita e della morte. È un soffio che gli ricorda chi è stato e chi non potrà mai non essere; è un fischio che annuncia il destino, come quello di When the Ship Comes In; se è della morte che si sta parlando, non è questa gran novità: ne parlava più ossessivamente il Dylan del suo primo disco di 50 anni prima. La novità è magari il modo sornione con cui ne parla: Duquesne è il brano più allegro, più sereno del disco, l'unico vero swing (e l'unica collaborazione con Robert Hunter, a mio avviso la più riuscita). Dylan attraversa la canzone come un vecchio giocatore con qualche brutta avventura alle spalle e un pensiero fisso che gli fa compagnia come una vecchia amante. Il riff della chitarra è un capolavoro di sintesi tipico del suo ultimo stile chitarristico (lui nel frattempo nei concerti era passato alla tastiera, segno che forse le articolazioni gli danno qualche difficoltà). Due note; di nuovo due note ma con una velocità diversa; di nuovo il primo intervallo di due note; e infine un intervallo un po' più esteso. Come la biella della locomotiva, che ha solo due direzioni e manda avanti un treno intero. Qui e in The Long and Narrow Way (che gira intorno a una versione semplificata del riff di Hoochie Coochie Man) il minimalismo chitarristico di Dylan potrebbe essere un modo per adeguare la musica ad articolazioni meno reattive: ma ricorda anche quel certo tipo di sbrigatività con cui affrontava i suoi cavalli di battaglia acustici già dopo qualche anno, accelerandoli e semplificandoli. Il vecchio Dylan contiene sempre il giovane Dylan.

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se facesse a pezzi il cielo.
Sei l'unica cosa viva che mi manda avanti,
sei una bomba a orologeria nel mio cuore.
Riesco a sentire una voce che mi chiama...
Dev'essere la madre di nostro Signore.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se il mio amore fosse a bordo.



Poteva essere molto peggio, questo ultimo disco di Dylan. (Per esempio: poteva essere Together through Life).  Come uscita di scena di un grande autore, è comunque notevole: contiene almeno due brani (DuquesneTin Angel) che salgono immediatamente nell'empireo delle trenta canzoni migliori di tutti i Dylan: il che non si può dire di dischi più robusti come Modern Times Time Out of Mind. Allo stesso tempo contiene anche brani che possono lasciare perplessi (Long and Wasted YearsTempestRoll On John), come non succedeva ormai da parecchi anni; perché Dylan in Tempest si prende dei rischi che non si prendeva da tantissimo tempo, da quanto? Forse dal 1990 di Under the Red Sky. Ricordate che a un certo punto il viaggio si è fatto molto più tranquillo, senza più scossoni improvvisi, con tappe più lunghe e rifornimenti confortevoli, ma come dire, un po' ripetitivi? Ecco, Tempest non è così e sarebbe il suo più grande pregio - se non contenesse Duquesne Tin Angel, che sono pregi più grandi. Proprio quando ci aspettavamo l'Ennesimo Disco Alla Jack Frost, metà blues metà ballate confidenziali, il settantenne Dylan si rimette a pasticciare con altre cose; e i risultati non è che siano sempre limpidi, però...



Però a questo punto meglio così, davvero. Meglio cose torbide come Pay in Blood e persino filastrocche interminabili e inascoltabili come Tempest: meglio tutto questo all'ennesima collezione di rockabilly e blues, perdio, lo so che sono la quintessenza del folklore americano e una componente ineludibile della dylanità, ma sono su questo scompartimento da un anno e non so se sarei riuscito ad ascoltarne tre in più. In Tempest ce n'è il minimo sindacale (sul serio, probabilmente se non ne infila almeno un paio ad album Robert Johnson sale dall'inferno a complicargli i sogni): entrambe variazioni di Hoochie Coochie Man: la già citata Long and Narrow Way ed Early Roman KingsHoochie Coochie era un inno all'arroganza del maschio alpha; le nuove Hoochie Coochie di Dylan sono canzoni più trucide che arroganti, ma è un aspetto che condividono con quasi tutto il disco - è un disco che trabocca di sangue. Quel che più sorprende è che non sia sangue di Dylan. Lui stesso ce lo spiega per cinque lunghi minuti: “pagherò col sangue, ma non col mio”... (continua sul Post).
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Dylan sarà a casa per Natale

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Christmas in the Heart (2009)
(Il disco precedente: Together through Life.
Il disco successivo: Tempest).

Un disco no, ormai c'è Spotify. Un dvd no, abbiamo Netflix. Un profumo te l'ho preso per il compleanno. Questo Natale mi sa che tocca a un libro. Così entro in libreria, nell'unica seria rimasta, e incontro proprio te. Ci salutiamo imbarazzati come se non ci conoscessimo da mezza vita; tu stavi giusto uscendo con due o tre sacchetti che vistosamente ignoro. Ora che non ci sei più e posso scegliere con libertà, do un'occhiata alle ultime uscite e in cinque secondi trovo:

1. Il libro che un po' desidero e che sicuramente mi hai appena comprato.

2. Il libro che desideri tu. Ma lo desideri nel senso che te lo devo comprare, o non hai resistito e te lo sei comprata da sola? Perché magari lo desideri troppo per fidarti di me, magari pensavi che ti avrei preso una sciarpa.

Mi sta mancando l'aria. Intorno a me tutti comprano cose come se fosse il gesto più naturale del mondo: è Natale. A volte fingo di dimenticarmi che soffro il Natale. Finché sei adolescente è ok, poi diventa una posa noiosa. Ma temo che non sia una posa, è proprio il momento sbagliato dell'anno per me, arriva troppo presto. Avrei centinaia di cose da fare ma sbam! Natale. Devo anche recensire Christmas in the Heart, il più assurdo dei dischi di Bob Dylan, o no?

I've done my window shopping
There's not a store I've missed
But what's the use of stopping
When there's no one on your list
You'll know the way I'm feeling
When you love and you lose
I guess I've got the Christmas blues

"Più divertente dei chipmunks, riconosciamoglielo" (Robert Christgau).

Ognuno ha le sue liturgie che non sa più giustificare; tu per esempio ovunque sei nel mondo a Natale cerchi di andare a messa. Non ci sarebbe niente di strano, senonché tu odi le messe natalizie e detesti i preti che si sentono finalmente sotto i riflettori e decidono che davanti a una folla rassegnata a restare in piedi per un'ora pronunceranno l'omelia della vita. Così ti ritrovi in giro nel pomeriggio del 25 - uno dei momenti più bui dell'anno, malgrado tutte le luci. Dai comignoli essuda ancora il vapore del brodo di cottura dello zampone - finalmente trovi una chiesa ancora aperta. Ti butti dentro, è tutto buio e vuoto e la prima cosa che senti è un tizio che cerca di cantare Adeste fideles. Non ha voce e non sa il latino, ma in un qualche modo strano funziona. È un vecchio parrocchiano che ha deciso di venire a digerire il Natale qui, cantando la messa più sfigata di tutte. Come un Babbo Natale ubriaco. 

"Adesti fide-e-leis, leity thriooomphanteis
Venitew veni-i-tew ad Bethle-e-ehm..." 

(La pronuncia di zio Bob non è meno corretta di quella di qualsiasi studente di liceo. È solo diversa dalla nostra, ma forse quella degli antichi era più simile alla sua. Anche loro avrebbero pronunciato qualcosa di più simile a "reghem anghelor'm", piuttosto del nostro "regem angelorum". D'altro canto non ce l'avevano, il Re degli Angeli, quindi di cosa stiamo parlando?)

"Cosa stiamo ascoltando?"
"Il disco di Natale di Bob Dylan".
"Sì, ma perché?"
"Beh. perché... è Natale".
"È stonato".
"No, tecnicamente non è stonato. È solo un po'..."
"È fastidioso".
"Dici? io lo trovo commovente".
"Mi fa male alle orecchie. Perché lo stiamo ascoltando?"
"È per beneficenza".

Who wears boots and a suit of red?
Santa wears boots and a suit of red.
Who wears a long cap on his head?
Santa wears a long cap on his head!



Il più bel video in cui canta Bob Dylan è Must Be Santa. Indossa svariati cappelli buffi e una parrucca assurda e non si è mai calato così bene in una parte. È un vecchio zio che senza troppo dare nell'occhio sta tenendo accesa una festa. Quando c'è bisogno di far partire le danze, lui canta. Quando tutti ballano, se ne sta in poltrona col sigaro. Nel momento esatto in cui hai bisogno di un bicchiere, lui tira fuori due bottiglie pronte. È una festa di famiglia, e quindi è intergenerazionale, incasinata, e devi stare attento perché prima o poi voleranno bottiglie. Nel finale arriva il Babbo vero, che scambia con Babbo Dylan un'occhiata di profonda comprensione. Bah, che mondo. Ormai fanno entrambi lo stesso mestiere.

"Mestiere un po' di merda eh?"
"È quel che so fare".
"Ma senti c'è una cosa che mi sono sempre chiesto. Come hai cominciato?"

"Guarda, ho ricordi molto vaghi. Ero un vescovo che si preoccupava per la dote di alcune ragazze... oppure ero il dio Odino che galoppava su un cavallo a otto zampe... è passato del tempo, capisci. E tu?"

"Anch'io ne so poco. Ero un un poeta beat, forse, oppure un profeta hippie..."
"Tu? Hippie? Ma sei sicuro?"
"No appunto. Ma a un certo punto ero senz'altro un ragazzino senza un soldo che cantava nei caffè. Sai cosa ricordo bene?"
"Il freddo".
"Puoi dirlo".

Ding Ding Ding
(Il brano di gran lunga più riuscito è Winter Wonderland. Uno dei problemi degli artisti che incidono dischi natalizi è che molto spesso devono farli in estate, ed è difficile azzeccare il feeling. Dylan in Winter Wonderland ce l'ha fatta alla grande. Senti come canta "When it snows, ain't it thrilling"? C'è proprio tutta la soddisfazione di un vegliardo alla finestra che vede scendere la neve e torna bambino. Non l'ho mai sentito sorridere tanto come mentre canta "In the meadow we can build a snowman", chissà che pupazzi facevano ai tempi in Minnesota).

"...Un freddo atroce, dio, l'inverno è una cosa orribile. Soprattutto quando arrivi a fine dicembre e pensi, beh, quanto inverno ci resta da soffrire? E invece è appena iniziato".
"È per questo che il nostro lavoro è importante, Bob".

A un certo punto, credo durante la lavorazione di Shot of Love, Dylan arrivò in uno studio e decise che avrebbe inciso White Christmas di Bing Crosby, solamente perché aveva sentito dire che Bing Crosby aveva lavorato lì. Fu il solito buco nell'acqua e a tutt'oggi non si sono ancora trovate le registrazioni, ma è la prima manifestazione di un interesse di Bob Dylan per il Natale.

(La canzone più triste è I'll Be Home for Christmas, un pezzo strappaventricoli di Bing Crosby che nel 1943 speculava sulla malinconia dei soldati che non avrebbero fatto in tempo ad arrivare a casa a Natale: ci sarò, canta Dylan, conta su di me, prepara il vischio e i regali sotto l'albero perché sarà a casa per Natale... almeno nei miei sogni. In 40 minuti del disco è l'unico momento in cui serpeggia il sospetto che sia tutto finto, che il Natale di Dylan sia l'invenzione di un vecchio signore rimasto solo con le sue vecchie canzoni, che nessuno inviterà a una festa).

Dylan in effetti non è mai stato natalizio, neanche nel suo periodo gospel. Il suo inverno è un mondo orribile dove si muore sul marciapiede, e gli ultimi spiccioli ti servono per comprare una pallottola per ogni membro della famiglia. Sai chi è sempre stato natalizio? I Beatles, loro sì. Anche se non hanno mai scritto una vera canzone di Natale - i loro dischi natalizi poco più che curiosità - i Beatles hanno quel quid. Sanno di zenzero, di cannella. Tutti vogliono bene ai Beatles, anche se li odiano. Il tempo passa e loro restano lì, per sempre uguali a sé stessi. Scaldano il cuore, rallegrano i bambini. Tutte cose che Bob Dylan per tantissimo tempo non si è posto il problema di fare. Là fuori il mercato dei dischi crollava, e artisti che fino a qualche anno prima, se gli avessi chiesto: "che ne pensi di un album natalizio?" ti avrebbero riso in faccia - non siamo mica negli anni Cinquanta, nonno! - ma a un certo punto il mercato si è piegato che nemmeno il Titanic, ed eccoli all'improvviso tutti in vetrina col cappuccio e l'albero e il vischio, i pattini, le renne, vi prego comprate il nostro disco di Natale! Ma il caso di Dylan è un po' diverso - se non altro non aveva bisogno di soldi, anzi. Ha dato tutto in beneficenza, al World Food Programme. Molto nobile da parte sua.

D'altro canto, chi è che regala davvero gli album natalizi? Vi hanno mai regalato un album natalizio? (Continua sul Post)
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Insieme attraverso i brutti dischi

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Together through Life (2009)
(Il disco precedente: Tell Tale Sign.
Il disco successivo: Christmas in the Heart).

Immagino che se invecchi abbastanza riesci ad arrivare a un momento in cui rimpiangi qualsiasi cosa. Io perlomeno credo che potrei arrivarci, per dire ultimamente a volte penso a un autogrill. Non provo nostalgia di una ragazza che andavo a trovare - cioè la provavo, ma ormai è una nostalgia che ha perso il suo sapore, come un bubblegum molto rimasticato - non provo più nostalgia per la città in cui abitava. Anche quel tratto di autostrada ormai per me è un tratto qualsiasi. Ma a volte mi fermavo in autogrill e quello ancora un po' mi manca. L'hanno buttato giù per farne uno più grande che invece non mi ricorda nessuno. Stavamo dicendo?

"Che se invecchi abbastanza riesci ad arrivare in quel momento in cui rimpiangi qualsiasi cosa".

Ah già. Bob Dylan per esempio, a un certo punto ha smesso di avere nostalgia per The Freewheelin'. Ma anche per Blonde on Blonde Blood on the Tracks. Dylan a un certo punto deve aver cominciato ad aver nostalgia per quando registrava certi suoi dischi inutili, bruttini, senza capo né coda. È la famosa legge dei vent'anni: negli anni Quaranta era tornato di moda lo swing degli anni Venti (ma Mussolini aveva piuttosto nostalgia di quando i fascisti marciavano sulle capitali). Negli anni Sessanta si credevano tutti partigiani. Negli anni Settanta improvvisamente si ricordano di quanto era smagliante e cromato il rock'n'roll. Negli anni Ottanta avevano tutti nostalgia di quando negli anni Sessanta si credevano tutti partigiani. Nel 2008, Dylan è maturo per provare nostalgia per i dischi più deprimenti che ha fatto; roba come Knocked Out Loaded, o Down in the Groove, roba che mette tristezza solo a pensarci - ma se la lasci decantare per vent'anni, quella tristezza a un certo punto deve assumere un sapore interessante. Ve lo ricordavate di com'era difficile essere dylaniti negli anni Ottanta, quando il nostro registrava quaranta tracce con quaranta musicisti diversi in cinque studi in sei mesi e un attimo prima di buttar via tutto pubblicava i cocci? E noi glieli compravamo, e glieli ascoltavamo, e glieli stroncavamo... Che nostalgia.


Quelle belle giacche di una volta
non torneranno più
Ehi Bob, ma lo sapresti fare ancora un disco triste e buttato lì come Down in the Groove? Nah, io dico di no. Ormai sei diventato una macchina, non te ne accorgi? Hai una band che non sgarra una battuta, hai musicisti che sanno quel che vuoi suonare un attimo prima che tu voglia suonarlo. Ogni tre-quattro anni fai uscire il tuo cd da un'ora, metà blues e metà altro, e non c'è un solo critico che osi criticarti davvero, ormai sei un'istituzione. E dire che una volta erano la specialità della casa, i dischi venuti male. Erano anche un po' la garanzia della genuinità del prodotto: se volevi la ciambella di Dylan, sapevi di non poterti aspettare il buco. Ma quei tempi sono finiti ormai, ormai le ciambelle di Dylan sono fatte con lo stampino, non riusciresti a sbagliare un buco nemmeno se ti ci impegnassi, scommettiamo?

MOTIVI PER CUI TOGETHER THROUGH LIFE, USCITO NEL 2008, FU IL SUO DISCO PIÙ BRUTTO IN 20 ANNI.

1. Ve ne viene in mente un altro? Come passa il tempo, sono già 20 anni che è uscito Oh Mercy. In seguito abbiamo avuto Under the Red Sky (che secondo me è piuttosto bruttino, ma vedo in giro che piace), i due acustici, Time Out of Mind“Love and Theft” Modern Times. Appena sette dischi in vent'anni! In compenso la qualità ha smesso di oscillare sull'ottovolante come le succedeva negli orribili anni Ottanta e nei complicati Settanta. Together non è un disco brutto come Self Portrait Knocked Out, ma rispetto ai tre dischi precedenti ha qualcosa di dissonante, di irrisolto, di affrettato - qualcosa che in fondo ci mancava. Ben tornato, cattivo Bob, cos'hai combinato stavolta? Hai licenziato i tuoi fedeli musicisti? Non risulta, eppure si capisce da subito che c'è qualcosa che non va. Appena parte Beyond There Lies Nothing, con quella tromba un po' stonata (chi la sta suonando?) e poi... la fisarmonica?



2. La fisarmonica. Ogni tanto succede che uno strumento insolito dia un colore particolare a un disco di Dylan - l'organo di Kooper in Blonde on Blonde, il violino di Scarlet Rivera in Desire, il sax di Street-Legal, e quella fantastica batteria elettrica in Empire Burlesque, ve la ricordate? che nostalgia. Ecco. Together Through Life è il disco di Dylan con la fisarmonica in tutti i brani. La suona David Hidalgo, chitarrista-pluristrumentista dei Los Lobos. Non la suona male. Ma la suona in tutti pezzi, ed è una maledetta fisarmonica. Se voglio sentire le fisarmoniche ascolto Raul Casadei. Ok, forse è un problema mio. Probabilmente uno choc infantile. Odio le fisarmoniche.

3. Il mandolinoNon così onnipresente - si sdilinquisce all'inizio di Life is Hard, ma di solito è molto più discreto, però allora dillo che lo fai apposta. Fisarmonica e mandolino, come ai tempi di Joey: non dirmi che rimpiangi anche quelli. This Dream of You, 35 anni dopo Joey, è il secondo tentativo di scrivere una ballata all'italiana, con quell'idea tutta particolare di italianità che possono farsi a Manhattan quando vanno a mangiare le fettuccine Alfredo. Certo che ce ne vuole di nostalgia del disastro, per tornare sulle orme di un delitto come Joey. Di quali altri delitti senti la mancanza, Bob? Qual è la cosa peggiore che rifaresti? Non so, un altro tour coi Grateful Dead? Troppo tardi, Garcia non c'è più. In compenso puoi sempre rimetterti a collaborare con...

4. Robert Hunter"Hunter è un vecchio amico, potremmo probabilmente scrivere un centinaio di canzoni assieme se pensassimo che ne valesse la pena"... è un'affermazione che suona vagamente minacciosa. Hunter era un membro atipico dei Dead: benché scrivesse per loro, non li seguiva dal vivo. Il suo rapporto con Dylan ha qualcosa di inspiegabile. Robert Hunter è l'autore di una delle canzoni che Dylan ha cantato più dal vivo, Silvio. La leggenda ci dice che aveva trovato la pagina col testo nello studio dei Dead. Cosa ci abbia trovato proprio in quella paginetta nessuno lo sa. È un rock senza infamia e senza lode: Hunter ne ha scritti a dozzine, Dylan ne ha scritti centinaia. Nel 2008 si ritrovano insieme e decidono di scriverne un altro po', casomai ce ne fosse venuta la mancanza (non c'era venuta). Hunter è un grande autore? Ha scritto tantissima roba, ma niente che abbia mai veramente superato il suo ambito di competenza (per dire: mi sapreste dire un grande successo dei Grateful Dead?) Io i Dead non li ho mai capiti e non saprei neanche esattamente dire cos'hanno di diverso i testi di Together - forse sono più brevi del solito, ecco, magari Dylan portava la penna e Hunter le forbici. In questo caso bravo Hunter, perché uno dei pregi di Together è che dura un quarto d'ora meno del solito (ma mezz'ora più del necessario).



5. I just want to make love to you. Metà dei brani, che ve lo dico a fare? sono blues o derivati. Blues in 8 misure, blues in 12 misure, rockabilly, rock and roll, non è che non conosca certe differenze, ma sapete una cosa? Mi rifiuto, è come quando un birraio pretende di farti degustare delle lager, ma andiamo. E il retrogusto, e i profumi, e neanche fosse cognac, sant'iddio, è birra, servila fredda e non rompere i coglioni. Che Dylan sia uno dei più grandi bluesman della storia è ormai fuori discussione; se ne poteva discutere al massimo nei primi mesi del '64, quando con Subterranean Homesick Dylan aveva stravolto il genere come un calzino, dimostrando che il blues per lui non era antiquariato, ma qualcosa di vivo e pulsante. Ma ormai sono trent'anni che per Dylan suonare il blues è giocare in difesa. Come quando gli chiedono: perché suoni cento concerti all'anno? E lui risponde che B.B. King ne suona trecento, che discorso è? C'è che nessuno se la prende se B.B suona gli stessi blues da una vita, e nessuno dovrebbe prendersela se Dylan fa la stessa cosa. Negli ultimi vent'anni ne ha buttati fuori talmente tanti che potrebbe persino aver messo lo stesso blues in due dischi diversi, con due titoli diversi, e nessuno se ne sarebbe accorto - nessuno. I blues si somigliano tutti; alcuni si somigliano più di altri; in Together a un certo punto Dylan sembra volerci cantare I Just Want to Make Love to You (ma si chiama My Wife's Home Town). Jolene è un vecchio rudere r'n'r che cerca di commuoverti al bancone così gli paghi da bere anche stasera. In Forgetful Heart fa capolino un riff che sembra il tema di Peter Gunn (e il rullante della batteria sembra un po' svitato); Shake Shake Mama è la cosa più divertente del disco, ma è come quando hai voglia di birra e te ne servono una fredda, va bene? Vuoi farmela pagare il doppio perché è artigianale? Non siamo tutti un po' vecchi per queste stronzate? (continua sul Post)
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Dylan e il capolavoro involontario

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Tell Tale Signs: Rare and Unreleased 1986-2006 (The Bootleg Series, Vol. 8)

(Il disco precedente: Modern Times.
Il disco successivo: Together through Life).

Io comunque su Pasolini ho una teoria: secondo me, mentre girava il Decameron lui...
"Ma che c'entra Pasolini adesso".
Ma niente, mi viene sempre in mente sotto l'Immacolata, perché sai.
"Ti confondi col ponte dei morti".
Ah già.
"Ma senti è un po' che non passo a leggerti, li hai poi finiti i dischi di Dylan?"
No, effettivamente ne ho ancora un po'.
"Ancora? Ma quando hai cominciato? Sembrano anni".
In effetti è esattamente un anno.
"Ma ne ha fatti così tanti?"
Più di una cinquantina, sì. E parecchi persino belli.
"Beh io a un certo punto ho smesso di leggerli, però..."
Non devi mica scusarti.
"...quando li raccoglierai in volume di sicuro io... perché pensi di raccoglierli in volume, vero?"
Eh, dipendesse da me.
"Ma hai mai scritto a un editore?"
Sì, e mi hanno anche risposto, ma...
"Cioè è chiaro che bisogna lavorarci un po' su, togliere le cose che in un libro non funzionano, però..."
Ma alla fine non resta niente.
"In che senso".
È come coi Santi. Uno dice: sto facendo una rubrica dei Santi che ha un suo seguito, insomma funziona, che ne dite? E loro all'inizio wow, in effetti è interessante, però... bisogna lavorarci.
"Ma ti fa così schifo lavorarci?"
Ma no io ci lavorerei anche, però... senti, non mi sto lamentando, ok? È un problema mio. Si vede che non funziono sulla carta.
"Ma cosa dici".
Di solito va così: mi dicono, metti tutto in un pdf e mandacelo. E io: guardate che è tanta roba.
"Tagliane un po'".
Ma certo che ne taglio.
"E alla fine ti restano..."
Quelle due, trecento cartelle.
"Così tanto?"
In un blog non sembra tanto, ma su carta è come se si gonfiasse. Poi ti dicono: bello eh, ma bisogna togliere tutti gli interventi in prima persona, i siparietti autobiografici... in un libro non hanno senso. E sai una cosa?
"Hanno ragione".
Hanno assolutamente ragione, e allora io li tolgo. E tutte le battute stagionali, le trovate estemporanee, le cose che hanno senso soltanto nel giorno in cui le scrivi, tolgo tutto. E a quel punto...
"Non sono più interessati?"
Non sono più interessante.
"Però su Dylan..."
Ma certo, figurati se fuori non c'è la fila di gente che mi vuole pubblicare quattrocento cartelle su Dylan.
"Ma saranno meno, dai".
Specie dopo aver tolto tutte le digressioni personali, le battutine, le cose da blog, tutto quello che lo renderebbe diverso dall'ennesimo libro su Dylan.
"E allora cosa farai?"
E allora cosa farò? Mi inventerò altre cose da scrivere e andrò avanti così.
"Ma non ci pensi che un giorno qui sparirà tutto?"
"Ci penso sempre, ma alla fine non è quasi mai successo".
"Tra un po' finisce la net neutrality e ciao".
"Troverò un sistema".
"Un server si pianterà e puf, non resterà nulla. Solo tanti link che puntano nel vuoto".
Ogni tanto faccio un backup.

Got nothing for you, I had nothing before
Don't even have anything for myself anymore
Sky full of fire, pain pourin' down
Nothing you can sell me, I'll see you around

Resto convinto che Pasolini, mentre girava il Decameron, se la deve esser vista brutta. Ma veniamo a Dylan, sennò pensate che io voglia cincischiare; che il disco di questa settimana non l'abbia neanche ascoltato, e in effetti parliamo di un disco triplo dal prezzo scandaloso (ma su Spotify ci sono solo i primi due, quelli che venivano venduti a una cifra ragionevole). Invece non solo l'ho ascoltato, ma lo riascolterei volentieri anche adesso, toh. Sono sinceramente convinto che sia uno dei dischi migliori di Bob Dylan - sì, tra i cinquanta e più dischi che ho ascoltato quest'anno, Tell Tale Signs sta nei primi quindici, forse anche tra i primi dieci. Credo addirittura che sia il disco migliore della sua ultima fase, ed è un'affermazione abbastanza forte, visto che Tell Tale Signs è perlopiù una collezione di scarti dalla lavorazione di Oh Mercy (1989), World Gone Wrong (1993), Time Out of Mind (1997), Modern Times (2006): com'è possibile che gli scarti siano migliori del prodotto? Con Dylan è possibile, anzi.

I was thinking of a series of dreams
Where nothing comes up to the top
Everything stays down where it's wounded
And comes to a permanent stop



È quasi inevitabile. Avete sentito che l'ultimo Leonardo Da Vinci disponibile sul mercato è finito in Arabia Saudita? Secondo me era una sòla, però io non me ne intendo e anzi ho in materia idee molto estreme, ad esempio nutro qualche dubbio sulla Gioconda del Louvre: e se non fosse l'autentica? Perché non ha le sopracciglia e mancano due colonne che ci sono in alcune copie molto vecchia - ma è comunque una Gioconda fantastica, se dubito di lei figurati quanto posso fidarmi di un Salvatore col volto ieratico (ma asimmetrico!) con dei ricciolini da Botticelli, ritratto di fronte... cioè hai Da Vinci a disposizione e gli chiedi un ritratto di fronte? È come chiedere alla Ferrari se ti fanno un motorino 50 cc, dai, non esiste... (continua sul Post)
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Avanti, a passi sempre un po' più corti

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Modern Times (2006)
(Il disco precedente: "Love and Theft";
il disco successivo: Tell Tale Signs).
Avete notato come passa alla svelta il tempo ultimamente? Roba che ormai ti addormenti in autunno ti risvegli in primavera. Oppure, non so, inviti una ragazza a cena ma passi a prenderla un po' in ritardo e lei nel frattempo si è sposata e ha avuto tre figli uno dei quali vuole fare il liceo scientifico, io che ne penso? Penso che me l'avevano pur detto, che il tempo funzionava così. Pare sia una questione percettiva, abbastanza elementare se ci rifletti.
Quando compi un anno di vita, tutta la vita è in quell'anno; ma poi ne compi un altro e ti sembra un periodo lunghissimo, addirittura la metà della tua vita. E già pensi che ti aspetta un altro anno, ma quando arriva è soltanto un terzo della tua vita (che per carità, è ancora parecchio). Ma insomma, ogni anno che passa, passa più alla svelta: e per quanti anni metti assieme, la somma di tutti gli anni dopo il primo non durerà mai quanto il primo. La funzione insomma è y=x/1+x/2+x/3+x/4+x/5 eccetera, c'è senz'altro un modo più elegante ed esauriente di scriverla ma non ho fatto lo scientifico. La cosa interessante è che quando arrivi a x/65 - l'età di Dylan quando incise Modern Times, in realtà devi ancora arrivare al quinto anno di età percepita. Roba da matti.


Infatti secondo me ho fatto un errore. Eppure il ragionamento spiegherebbe perfettamente il perché a un certo punto oltrepassi una specie di soglia dopo la quale gli anni passano talmente alla svelta che non li riconosci più. C'entra anche il modo in cui ti tratta la vita: fino a vent'anni puoi provare a cambiare spesso i partner, o la città, o la professione, ma a un certo punto fatalmente rimani incastrato in una famiglia e/o una città e/o un ufficio, e da lì in poi certe cose come, che so, fare la spesa, assumono una ritualità ipnotica: se all'Esselunga ogni tanto non cambiano il posto ai prodotti degli scaffali, tu sul serio certe volte non ti ricordi più se quei cetriolini li hai comprati la settimana scorsa o dieci anni fa. Oppure entri in un bar e il cameriere ti serve senza chiederti niente, ma come si permette, poi fai due calcoli e sono già cinque anni che entri e chiedi la stessa cosa, cinque rapidissimi anni, ma in realtà per te ne sono passati appena (1/35+1/36+1/37+1/38+1/39)=0,13, cioè quando dici che ti sembra ieri che inauguravano il locale, dal tuo punto di vista hai ragione (è che il tuo punto di vista sta accelerando man mano che muori).
Il peggio è che lo avevo sempre saputo che sarebbe finita così, ma per qualche motivo ero convinto che l'avrei gestita meglio degli altri. Per esempio: scriverò una pagina tutti i giorni per tutta la mia vita. Quando mi chiederanno, dove hai messo il tuo tempo? Eccolo qua. E non si sgarra, vedrete che ogni anno sarà più o meno di trecento pagine. Che ingenuo, vero? Beh, l'ho fatto sul serio. Meno male che hanno inventato i blog, sennò ormai mi ritroverei in soggiorno una pila di manoscritti che mi accuserebbero: "dove hai messo il tuo tempo?" E, indovinate? Ogni pagina è come se fosse un po' meno importante della precedente. Per esempio: cosa facevo nel febbraio del 2006, mentre Bob Dylan incideva Modern Times (sembra ieri e infatti è successo 11 anni fa)? Voi non vi ricordate di cosa stavate discutendo nel febbraio del 2006. Io sì, io ho l'archivio on line. Io infatti stavo discutendo... delle vignette satiriche di Charlie Hebdo su Maometto.
No, aspetta
Sono passati già undici anni?
Dio mio.
Ma parliamo di Dylan. Ha appena ottenuto una nomination ai Grammy - beh, ne ha già vinti dodici, di cui uno alla carriera. Ultimamente lo candidano nella categoria "Miglior album pop tradizionale", che come ci spiega l'eminente Madeddu non è un campo qualsiasi, ma il teatro di una logorante guerra di posizione tra Tony Bennett e Michael Bublé. Che ci fa Dylan tra questi crooner, questi interpreti confidenziali? Diciamo che la cosa non ci sorprende più. Forse ci avrebbe ancora sorpreso l'altro ieri - ovvero nel 2006, quando uscì Modern Times.


Una cosa dovete riconoscere al signor Dylan: non ha mai voluto incidere lo stesso disco due volte. Diciamo *quasi* mai. Persino quando aveva a disposizione solo una chitarra e un'armonica, ogni disco era il segnale che il tempo stava cambiando. The Freewheelin' non assomigliava a The Times They Are A-changin' che non assomigliava ad Another Side. Solo verso gli anni Ottanta le sue difficoltà in studio lo hanno portato un po' a ripetersi: ma persino Saved non assomigliava a Slow Train Coming; persino Knocked Out Loaded, che è pure fatto con gli avanzi di Empire Burlesque, in qualche miracoloso modo è già un disco diverso. Per quanto la gente continuasse a pensare a lui principalmente come al menestrello delle foto in bianco e nero, o il rocker d'avanguardia in occhiali scuri - tutti ricordi risalenti ai suoi pochi, primi, lunghissimi anni - Dylan ha combattuto l'accelerazione del tempo con tutte le sue forze, continuando a cambiare pelle a ogni disco. Questo forse per lui era più importante che la qualità - posso capirlo. Immagino che trovare un seguito a The Freewheelin' debba essere dura, ma quando invece hai fatto trenta dischi, è così importante se il trentunesimo è un capolavoro o è inascoltabile? Smetterai di essere il grande Bob Dylan, se capita che sia un brutto disco? E se invece è buono, qualcuno oserà metterlo sullo stesso piano di Blonde On Blonde e di quei dischi che hai inciso in fretta e quasi per caso da giovane, quando gli anni non finivano mai e succedeva qualcosa di diverso tutti i giorni?



Modern Times è il 32esimo disco di studio di Bob Dylan, e com'è? È buono. Buono come "Love and Theft" Più o meno. Buono come Highway 61? In teoria si potrebbero mettere sullo stesso piano - se potessimo avere un punto di vista fuori dal tempo, e magari tra uno o due secoli un ascoltatore ce l'avrà. Per adesso è come paragonare una stella di media grandezza al big bang. La cosa più notevole è che almeno per una buona metà Modern Times suona quasi identico al precedente, di cui ricalca la struttura (un brano rockabilly, uno swing, di nuovo un rockabilly, ecc.): il che non è poi sorprendente per un tizio che ha già stampato trentadue dischi (i Rolling Stones hanno cominciato a cristallizzarsi trent'anni prima) ma lo è per Dylan. Soprattutto se pensiamo che tra i due dischi ci sono cinque anni: un'eternità.



È lo stesso tempo che separa il suo disco d'esordio da John Wesley Harding. Quante pelli Dylan aveva già cambiato tra 1962 e 1967? Tra 2002 e 2007, Dylan sembra congelato. E invece si stava dando parecchio da fare: nel 2004 pubblica il primo e per ora unico volume della suona biografia, Chronicles I. Nello stesso periodo assiste (per la verità in modo abbastanza distante) alla lavorazione del documentario di Scorsese, No Direction Home; nel frattempo i negozi di dischi vengono riforniti regolarmente di nuove uscite della sua Bootleg Series. Sono insomma anni in cui Dylan sta lavorando molto sul suo passato: lo corregge, in certi casi lo stravolge, inserisce dettagli che mai ci saremmo aspettati... ad esempio scopriamo con Chronicles che a lui i grandi standard jazz sono sempre piaciuti, e che quando nel 1970 tutti lo aspettavano sulle barricate, lui andava con Sara a sentire un concerto di Sinatra Jr. Ma non è sempre stato così con lui? Quando passò al rock, non si premurò di informarci che aveva sempre sognato di suonare il rock? E il country? Non era la musica che aveva sempre sognato di fare prima di riuscirci con Nashville Skyline? Dylan è sempre fedele al suo passato, che però può modificare quando e come vuole.



Accanto a questa incessante opera di revisionismo storico, c'è una vita quotidiana fatta soprattutto di concerti: più o meno ottanta all'anno, in Europa, Asia e soprattutto America. Forse Dylan ha avuto un'idea migliore della mia: quando ha capito che fare un disco all'anno non avrebbe fermato il tempo, ha deciso di svegliarsi ogni mattina in un albergo diverso. Magari il Tour Infinito è il suo modo di fermare l'istante. Che dire: beato lui. In albergo, tra una data e l'altra, trova anche il tempo di registrare il suo "Theme Time Radio Hour", un programma radiofonico che comincerà nel 2006 e andrà avanti fino al 2009. Un'ora di trasmissione, una dozzina di vecchie canzoni collegate dallo stesso argomento, e tra un pezzo e l'altro la voce di Dylan che si atteggia a vecchio dj notturno - quel caldo timbro sussurrato delle vecchie FM (continua sul Post)
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Dylan ama, Dylan ruba

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"Love and Theft" (2001)


(Il disco precedente: Time Out of Mind
Il disco successivo: Modern Times).


Questi cosiddetti esperti della musica di Bob Dylan... Non credo che ne sappiano nulla, che abbiano la minima idea di chi sono e cosa rappresento. Lo so che credono di avercela, il che è ridicolo, esilarante e triste. Il fatto che gente del genere abbia passato così tanto tempo pensando... a chi? A me? Fatevi una vita, per favore. Nessuno dovrebbe pensare così tanto a qualcun altro. Non state onorando la vostra vita. La state buttando via (Dylan nel 2001 al Times, a proposito di me).

Il nuovo secolo avrebbe dovuto portarci i telefonini coi tasti più piccoli, Berlusconi di nuovo a palazzo Chigi, e un brutto disco di Dylan. I segni nell'aria c'erano tutti: la gente aveva davvero bisogno di più tasti sui telefoni. Tutti non facevano che messaggiarsi, passavano il tempo a premere anche tre volte un tasto per trovare la lettera giusta (nessuno si fidava del t9, ammesso ci fosse già). Quando non venivano investiti agli incroci erano loro stessi a investire qualcuno, era un'emergenza sociale, i giornalisti erano preoccupatissimi. Quanto a Berlusconi, beh, il suo principale contendente era Rutelli. La vittoria del Polo della Libertà era data per inevitabile, e anche Dylan probabilmente stava per uscire con un brutto disco. Anche solo per una questione di statistica. Berlusconi vince un'elezione su due, Dylan ha mai fatto tre dischi belli di fila? Il dylanita alla soglia del 21esimo secolo ormai lo sapeva: ogni capolavoro ha un suo prezzo. Se il prezzo di Oh Mercy era stato Under the Red Sky, cosa potevamo aspettarci dopo Time Out of Mind? I segni dell'imminente catastrofe c'erano tutti. Aggiungi questa circostanza inquietante: non si trovava più nessuno in giro disposto a parlare male di Bob Dylan. Time Out, col suo Grammy per il Miglior Disco, aveva segnato il discrimine da "solito stronzo" a "venerato maestro". Improvvisamente stava simpatico a tutti. Quando Curtis Hanson, il regista di LA Confidential, gli chiede una canzone per il suo nuovo film, Dylan non si fa pregare e offre un brano pregevole, Things Have Changed, in cui gioca col suo personaggio con una disinvoltura inedita per lui (se il ritornello è davvero un disincantato riferimento a The Times They Are-A Changin'):

La gente è matta, i tempi son strani,
io sto fuori dal giro, ho legate le mani:
una volta mi sarei preoccupato,
ma è tutto cambiato.



Con Things Have Changed Bob Dylan vince l'Oscar per la miglior canzone. Se lo meritava? In lizza c'era anche Björk, era l'anno di Dancer in the Dark. Può anche darsi che il 2000 non avesse niente di meglio da offrire, ma fa un certo effetto pensare che i giurati dell'Academy trent'anni prima non avessero notato Knockin' on Heaven's Door - non dico una statuetta, ma almeno una nomination. È che nel 2000 Dylan, senza sforzo apparente, è diventato molto più premiabile. Ormai è un'icona al di sopra delle polemiche: sfoggiarlo in salotto fa fine e non impegna. A questo punto servirebbe proprio un disco brutto - anzi no, qualcosa di peggio. Qualcosa che, nelle mani di Dylan, fosse una garanzia di disastro: un film.



E infatti ecco il film - anche a questo il dylanita è ormai rassegnato: quando le cose cominciano ad andare troppo bene, di solito Dylan fa un passo più lungo della gamba che spesso si traduce in un film (o un aborto di). Ai tempi di Blonde on Blonde stava cercando di montare Eat the Document (non c'è mai riuscito); la Rolling Thunder Revue terminò col botto di Renaldo and Clara; il primo millennio di Dylan termina con Masked And Anonymous, un film scritto da Dylan in collaborazione con Larry Charles, al suo debutto dietro la macchina da presa. Charles era uno degli autori di Seinfeld: in seguito avrebbe firmato i film di Sacha Baron Cohen. Masked non è purtroppo il film divertente che avremmo potuto aspettarci da lui. Si capisce che Dylan ci ha lavorato davvero - ogni personaggio, più che dialogare, sembra intonare un monologo, attaccare una strofa. Qualsiasi tentativo di alleggerire i contenuti è demandato ai membri dell'incredibile cast: Jeff Bridges (Dylan lo minaccia spaccando una bottiglia di Jack Daniels), Penelope Cruz, John Goodman (sempre il migliore), Jessica Lange, Luke Wilson, Val Kilmer (a un certo punto si dimentica la parte ma Charles continua a girare), Chris Penn, Mickey Rourke, Christian Slater, e ne ho senz'altro dimenticati. Tutta gente che recita al minimo sindacale o quasi, per la gloria di stare sul set col grande Bob Dylan. Quindici anni prima sarebbe stato impensabile. Quel che ricordo meglio di Masked è l'ambientazione caotica, un set che sembra ricavato all'ultimo momento nella periferia di una guerra civile. Se non siamo nel Terzo Mondo, stiamo per entrarci. Bob Dylan è Jack Fate, un burbero cantautore che un tempo era un mito (sì, lo stesso personaggio di Hearts of Fire) che si ritrova senza sapere bene perché sul palco di un equivoco concerto di beneficenza ("Se vuoi far venire un cantante, gli devi dare una Causa o un Premio", dice l'impresaria Jessica Lange). La storia è un pretesto per contemplare un mondo devastato e dispensare qualche massima di saggezza; c'è anche il tempo per cantare un paio di canzoni con la sua band, ma la maggior parte della colonna sonora è composta da cover dei suoi brani anche in lingue straniere, tra cui una memorabile My Back Pages in giapponese, mentre il contingente dylanita italiano è rappresentato da ben due brani. Uno è di De Gregori, e non sorprende, l'altro è Come una pietra scalciata degli Articolo 31, e sorprende eccome.



Il Dylan dei primi Duemila, tra Things Have Changed e Masked And Anonymous, sembra ormai vivere in una bolla autoreferenziale: tutti gli vogliono bene purché lui continui a interpretare sé stesso, e per una volta lui sembra non volerli deludere. Con Masked si cristallizza anche l'immagine del "vecchio Dylan", che sul set del video di Things si aggirava ancora un po' smarrito mentre ora sembra disegnato a tavolino da un team di stylist molto attenti a valorizzare il brand: il cappello Stanton e i baffetti sottili devono diventare rapidamente dettagli iconici, come la bombetta e il baffo di Chaplin. È lo stesso Dylan che ci guarda intenso dalla copertina del nuovo disco (ancora un bianco e nero vintage) che compare finalmente nei negozi nel giorno meno adatto al mondo, l'undici settembre 2001. Immaginatevi i crocchi di gente nei multistore che guardano le Twin Towers crollare in diretta sui primi maxischermi piatti. I dylaniti aggirano la folla, sovrappensiero: devono comprare il nuovo cd, e chissà che ciofeca sarà. Stavolta non c'è scampo - ormai son più di dieci anni che non fa un disco davvero brutto, stavolta dev'essere la volta. Per dire, chi è il produttore? Jack Frost? Jack chi?

Jack Frost, nel folklore anglosassone, è una specie di folletto della brina, l'entità invernale che disegna cristalli alle finestre. Dylan ha già cominciato a usare questo pseudonimo negli anni Ottanta, ogni qualvolta si è assunto l'onere di produttore - mai da solo però. Bob Dylan, si sa, non è capace di prodursi da solo. A malapena riesce a riascoltarsi. Bob Dylan, meno tempo passa in sala di registrazione, meglio è. Bob Dylan ha bisogno di qualcuno che lo segua passo passo. Bob Dylan è il peggior critico di sé stesso: un disco prodotto da Dylan/Frost non può che essere una catastrofe. E ora che lo sappiamo, coraggio, ascoltiamo "Love and Theft".

E scopriamo che è uno dei più bei dischi di Bob Dylan.

(Non sto scherzando stavolta).

Tweedle-dee Dum and Tweedle-dee Dee, 
they’re throwing knives into the tree. 
Two big bags of dead man’s bones, 
got their noses to the grindstones...

(Continua sul Post)
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Dylan senza Penelope

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Time Out of Mind (1997)
(Il disco precedente: MTV Unplugged
Il disco successivo: "Love and Theft").

Gli uomini non sanno perché procurano fama a un’opera d’arte. Da quegli imperfettissimi conoscitori che sono, credono di scoprirvi chissà quali bellezze a giustificazione di tanto entusiasmo; ma il vero motivo del loro favore è un imponderabile elemento di simpatia (se non sai chi è googlalo, non vergognarti).

***

"Certe cose nella vita è troppo tardi per impararle" (Highlands).

***

Così entro in un ristorante, e indovina chi mi trovo davanti: la donna della mia vita. Cioè, di una. Delle mie donne. Delle mie vite.

***


Caro lettore, se mi hai seguito fin qui (e complimenti), sai più o meno cosa ci aspetta. Dopo un lunghissimo viaggio in un arcipelago di mostri e batterie elettroniche, il nostro Eroe è finalmente pronto per tornare a casa. In realtà è già lì da due o tre dischi, prudentemente travestito da anziano bluesman. Solo i cani e la nutrice l'hanno riconosciuto: lui si aggira tra le colonne e i jukebox che un tempo erano suoi, a stento tollerato dagli altri ospiti del palazzo, che non sanno di mangiare e bere a sue spese. Ma ora è tempo che si riveli. Il servo Lanois è già stato istruito; le porte del palazzo sono state sprangate, le armi nascoste; ora il nostro Eroe con una scusa si farà consegnare una chitarra, e non ce ne sarà più per nessuno. Bob Dylan, il vero Bob Dylan è tornato. Ci ha messo parecchio ad arrivare - a proposito, quanto? se consideriamo il 1975 di Blood on the Tracks e Desire, beh, ha già superato il record di 20 anni di Ulisse; a volte sembrava quasi arrivato, ma poi una tempesta o un Dio lo risospingevano lontano. Stavolta è qui davvero, e non fa prigionieri.

Anche ai Grammy, una strage. Disco dell'anno. Migliore performance vocale. Migliore album di folk contemporaneo. Non era mai successo - ma nel '97 è quasi un atto dovuto, è un onore più per i Grammy che per Bob Dylan. I critici sono prostrati a terra, supplicano pietà, chiedono perdono per aver dubitato anche solo per un istante del ritorno. Qualcuno nell'ombra singhiozza commosso o disperato, qualcun altro grida senza tradire incertezza: "è il disco migliore che Egli abbia mai composto!" Seh, vabbe', il solito esagerato, chi sarà? Ah, però, Elvis Costello.


This kind of love I’m so sick of it

Caro lettore, non so perché ti ho preso in giro così a lungo. Riflettendoci, in effetti, a me Dylan neanche piace. Forse avrei dovuto accorgermene prima, che ne dici? Da molti mesi lo inseguo in lungo e in largo per vent'anni di dischi, incontrando soltanto gente che mi raccontava quanto fosse fuori forma, quanto si stesse buttando via - tutta un'odissea di rimpianto per le belle cose che avrebbe potuto darci dal '75 in poi, invece di registrare in fretta e a caso. La prova di tutto questo è che quando Dylan si è fermato, quando ha deciso di imparare davvero come si registra un disco, improvvisamente si è rimesso a sfornarne di straordinari. Su poche cose i critici sono d'accordo come sul fatto che Times Out of Mind sia l'inizio di una serie positiva quasi miracolosa, per un tizio che in teoria aveva già fatto tre o quattro Grandi Ritorni ma non era mai ritornato davvero. Stavolta sì. Lo capisci anche solo dai primi versi di Love Sick. Stavolta sa cosa sta facendo. Stavolta non ha bisogno di nessuna scusa, nessun Gesù, nessuna apocalisse, nessun matrimonio da salvare, nessuna campagna politica, nessun fatto di cronaca; stavolta è solo davanti al grande vuoto che si trova davanti, il posto dove sta per ritrovarsi. Stavolta è davvero Bob Dylan. Il grande Bob Dylan, e quindi?

E quindi, beh... è un po' noioso.

Sì, lo so, scusami.

I’m sick of love; I wish I’d never met you
I’m sick of love; I’m trying to forget you


No, no, hai ragione, non c'è nessuna scusa possibile, però... ti ricordi quei dischi strampalati degli anni Ottanta, che ne so, Empire Burlesque? Ogni canzone era un esperimento, un mostro nato male e arrangiato peggio, però... almeno erano tutte diverse tra loro, come le avventure di Ulisse nel mare sconosciuto. Invece adesso beh, è tutto molto più consapevole, molto più definito, nei minimi dettagli. È tutto molto compatto - addirittura ogni canzone gira intorno allo stesso argomento. È decisamente un disco di atmosfera: lo metti su e dopo un po' non sai nemmeno più che canzone stai ascoltando - con qualche studiata eccezione, tendono deliberatamente ad assomigliarsi. Dylan per molti anni non si è minimamente preoccupato dell'atmosfera; quando ogni tanto ne azzeccava una (Lay Lady Lay) era per puro caso. Ma a questo punto della vita, se ti rimetti a lavorare con Daniel Lanois non lo fai per caso.

Dylan gli aveva fatto sentire i demo in una stanza d'albergo a New York  (stavolta Dylan aveva perfino fatto i demo!) Lanois ovviamente li aveva trovati disperati e fantastici; Lanois racconterà al pubblico dei Grammy di aver esclamato "Questo è il disco che voglio fare", ma non è che avesse molta scelta - nel 1997 la sua stella stava declinando più in fretta di quella di Dylan. Persino gli U2 lo avevano temporaneamente accantonato, ora lavoravano con Howie B.  Dall'Europa stava arrivando una valanga di musica sempre più campionata e sintetica, in America ormai l'hip-hop regnava egemone, in una situazione del genere se Bob Dylan ti fa sentire un demo non è che ti metti fare il difficile. Lo stesso Lanois sentiva lo spirito dei tempi, manovrava ormai le manopole come un dj techno; pretendeva di registrare un disco folk come se fosse dub, mixando 64 e più piste, tre sezioni ritmiche, due slide guitar, cercando il modo più artefatto per ottenere un sound apparentemente caldo e umano. Ovviamente litigarono sui musicisti, sulle sale di registrazione, sugli arrangiamenti; ovviamente ogni tanto Dylan scappava in motocicletta e Lanois forse spaccò qualche altra chitarra. Ma entrambi lo sapevano già prima di iniziare.



Il risultato è un'opera di indubbio fascino verso la quale nutro sentimenti contrastanti - come quando restaurano un affresco medievale con colori così vivi che non sembra più medievale. È come osservare un laboratorio in cui padron Dylan grida: voglio essere spontaneo! più spontaneità perdio! mentre il professor Lanois armeggia intorno alle provette, perché si dà il caso che la spontaneità sia una formula molto complicata. Qua e là ovviamente la manopola gli prende la mano, e Love Sick da questo punto di vista non è il biglietto da visita migliore: l'idea di passare nel compressore la voce, di distorcerla come uno strumento... è un'idea coraggiosa, se non proprio avventata, che pone un ultimatum all'ascoltatore: questo è il nuovo Dylan, prendere o lasciare. In realtà altri brani di Time sono registrati molto più alla buona, come al solito, ma la prima impressione è importante, ed è quella che lasciano la voce compressa e l'organo tremolante di Love Sick. Nel laboratorio Lanois ha scoperto la formula del viaggio nel tempo, e se ci sembra falso è perché l'illusione è troppo palpabile per essere reale - il passato non è mai suonato così bene. Gli anni Cinquanta pre-elvisiani non sono più una semplice terra della nostalgia: ormai sono un'età dell'oro, un mito olimpico che forse vive ancora al di sopra delle nuvole. Mentre promuoveva Time Out of Mind, a Dylan più volte è capitato di parlare di Buddy Holly come un devoto parla di un santo; diceva che in quel periodo s'imbatteva dappertutto nelle sue canzoni - in taxi, in ascensore, e che questo era senz'altro un segno, una benedizione. Fino a pochi anni prima sarebbe stato impossibile pensare di santificare un personaggio come Buddy Holly. Poco tempo prima, dopo avere rischiato la vita per un'istoplasmosi, Dylan aveva dichiarato: "Stavolta pensavo che avrei davvero visto Elvis". Qualche anno prima avrebbe detto Gesù, ora il paradiso è un luogo interessante perché c'è Elvis.

Gon’ walk on down that dirt road ’til I’m right beside the sun
Gon’ walk on down until I’m right beside the sun
I’m gonna have to put up a barrier to keep myself away from everyone



Il secondo brano, Dirt Road Blues, è il collaudo della Macchina del Tempo di Lanois: cosa gli manca per sembrare un vero blues del Delta, recuperato in un vecchio disco in soffitta? Forse avrebbe dovuto aggiungere al mix il crepitìo del vinile, come i Massive Attack in Teardrop l'anno dopo. Per alcuni critici era il brano più debole (il secondo in scaletta molto spesso lo è): nel 1997 non potevano sapere che Dirt Road Blues di tutti i pezzi era quello che guardava più lontano, non solo nel passato ma anche nel futuro - che poi per Dylan sono ormai la stessa cosa: il passo successivo a Time Out of Mind sarebbe stata un'immersione ancora più profonda nel blues ancestrale.

I’m strumming on my gay guitar, smoking a cheap cigar
The ghost of our old love has not gone away
Don’t look like it will anytime soon...

Standing in the Doorway mette a fuoco  il tema ossessivo del disco: la solitudine e il rimpianto per una donna che, per quanto possa suonare assurdo a chi conosce la biografia di Dylan, è "the one", l'Unica. Nemmeno ai tempi del Marito Coccolone, Dylan aveva mai scritto un intero disco dedicato a una donna sola - persino in Nashville Skyline Sara era una presenza meno asfissiante. E in nessun disco di Dylan questa donna è così lontana, "a mille miglia"; nessun disco come Time dà la sensazione che le recriminazioni amorose di Dylan stiano cadendo in un vuoto siderale; puoi vendere tutti i dischi che vuoi (un milione solo negli USA), e convincere tutti i negozianti che sei tornato in forma e degno di stare al centro della vetrina. Dentro di te rimani sempre quel pezzente che suona una chitarra da pochi soldi ("Gay guitar", da noi sarebbe una Eko), fumando un toscano puzzolente. Dylan è tornato a casa, ma Penelope se n'è andata da un pezzo.

I’m drifting in and out of dreamless sleep
Throwing all my memories in a ditch so deep
Did so many things I never did intend to do
Well, I’m tryin’ to get closer but I’m still a million miles from you

Million Miles è un blues come ne ha scritti a dozzine, anche nei periodi meno ispirati, salvo che stavolta il professor Lanois ha azzeccato la formula giusta. Adesso è più facile anche tornare indietro, ai periodi più confusi, e capire cosa stava cercando Dylan quando si era intestardito a recuperare per esempio il rockabilly in Down in the Groove. Ci si può anche incazzare, pensando a quanti anni ha perso Dylan perché non riusciva a spiegare il tipo di suono che voleva. Ma non era solo colpa sua: paradossalmente, quel tipo di suono "antico" fino a qualche anno prima sarebbe stato molto più complesso da isolare e registrare. Come certi anziani registi che con l'avvento della tecnologia digitale hanno avuto una seconda fioritura artistica, Dylan, quando verso la fine dei Novanta si è rassegnato a tornare in una sala d'incisione, ha scoperto che era diventato un luogo meno complicato per lui. Il che non significa che non ci furono litigi e fughe, ma qualcosa effettivamente stava tornando a essere più facile. Addirittura, quando si passò al missaggio, Dylan continuò a frequentare lo studio. Reincise varie tracce, guardava i tecnici lavorare, si faceva spiegare le cose. Nessuno poteva immaginarlo, ma stava prendendo forma Jack Frost, l'alter-ego produttore che dal 1998 prenderà il controllo assoluto di ogni registrazione di BD. Un Dylan davvero produttore di sé stesso, che si riascolta in cuffia finché non è contento, fino a pochi anni prima sarebbe stato impensabile. Certo, aveva anche smesso di bere.

When I was in Missouri, they would not let me be
I had to leave there in a hurry, I only saw what they let me see
You broke a heart that loved you
Now you can seal up the book and not write anymore
I’ve been walking that lonesome valley
Trying to get to heaven before they close the door

Si fece persino fotografare da Lanois - la copertina di Time Out of Mind è l'unica in cui Dylan è ritratto in una sala di registrazione (la cantina della versione 1974 di The Basement Tapes è più fiaba che realtà). Il testo di Tryin' to Get to Heaven è forse la miglior sintesi del disco: l'autoritratto di un uomo solo, perennemente in viaggio (Dylan continuava a macinare i suoi cento concerti all'anno), ovunque inseguito da ricordi e rimpianti. Subito dopo arriva 'Till I Fell in Love with You, l'ennesimo blues sotterraneo, arrangiato benissimo ma... era così necessario? Il miglior disco di Bob Dylan, Mr Costello, ma siamo sicuri? (continua sul Post)
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Dylan stacca la spina?

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MTV Unplugged (inciso nel 1994, pubblicato nel 1995).

(Il disco precedente: World Gone Wrong.
Il disco successivo: Time Out of Mind).


I grafici degli anni '90, sul serio, parliamone.
"Non ero molto sicuro sul materiale che avrei dovuto usare. Mi sarebbe piaciuto fare vecchie canzoni folk con strumenti acustici, ma avevo un sacco di pressioni da altre fonti che pensavano a cosa sarebbe andato bene per il pubblico di MTV. La compagnia discografica mi diceva: "Questo non puoi farlo, è troppo oscuro". Una volta mi sarei messo a litigare, ma non c'è più motivo. OK, e allora cosa c'è di non troppo oscuro? Mi hanno detto: Knockin' on Heaven's Door" (Bob Dylan in un'intervista nel 1995, mentre spiega perché MTV Unplugged è il suo ennesimo live e non il capolavoro che avrebbe potuto essere).

Magari negli anni Novanta non c'eravate. Troppo piccoli. Ci spero (qui se non comincio a farmi leggere dai millenials tra un po' è finita). Nel vostro caso, immagino che sia facile affrontare MTV Unplugged con un forte pregiudizio negativo - l'ennesimo tentativo del Dylansauro di adattarsi ai tempi che cambiano, ai nuovi mercati, a un pubblico giovane che pretendeva di ascoltare la musica in televisione, epperò alla resa dei conti pretendeva anche le solite lagne che lo stesso BD si era stancato di suonare 20 anni prima: sul serio, chi aveva davvero bisogno di una nuova versione di All Along the Watchtower? C'era in Before the Flood, c'era in Budokan, nel disco coi Dead, ed eccola anche qui. Già. Unplugged è uno dei dischi che soffre di più del metodo che abbiamo deciso di adottare: non è un cattivo live, ma se lo ascolti durante una full immersion cronologica, ti può ispirare una certa nausea - ancora Like a Rolling Stone, sul serio? E poi che copertina brutta, che camicia assurda, che titolo poco invitante - se negli anni Novanta eravate troppo piccoli, è probabile che la sigla "MTV" vi faccia pensare, più che alla musica, ai manga e a telefilm per bimbominchia. In effetti. Ma non è stato sempre così, lo sapete? Che all'inizio la "M" di MTV stava per "musica"? E che dopo aver conquistato il cuore e l'immaginazione dei ragazzini degli anni Ottanta, nel decennio successivo MTV aveva trasceso le generazioni e i target, diventando semplicemente il luogo dove tutta la musica succedeva? Che senza MTV Britney Spears magari avrebbe avuto una dignitosa carriera post-Disney, ma i Nirvana difficilmente sarebbero usciti da Seattle? E che uno degli strumenti con cui MTV aveva costruito la sua egemonia era proprio una trasmissione in cui i divi di due generazioni si alternavano a suonare i loro successi davanti a un pubblico ristretto, con una strumentazione ridotta? Una situazione ideale per la seconda serata televisiva, un modo per trasformare anche il rock più chiassoso in qualcosa di più intimo, rassicurante.  Si chiamava "Unplugged", in italiano si potrebbe tradurre "A spina staccata", e Dylan non avrebbe potuto non inciderne uno. Sarebbe stato impossibile.

Sarebbe stato anche molto ingiusto - in fondo, cos'è "unplugged" se non un set acustico? E chi ha inventato i set acustici? Chi è stato il primo a portare al pubblico perplesso non soltanto versioni elettriche dei suoi successi folk, ma anche l'opposto: riletture acustiche dei brani che aveva inciso con una band? Già ai tempi del tour del '66, quando saliva sul palco da solo per suonare Visions of Johanna Just Like a Woman, stava suonando quello che negli anni '90 ci eravamo tutti messi a definire un "unplugged". Insomma non era Dylan ad accostarsi a MTV: era MTV che stava cominciando a capire Dylan. E poi c'era il precedente di Eric Clapton.
"Tutti mi parlavano di come Eric Clapton aveva rifatto Layla in stile acustico per Unplugged. Questo mi ha influenzato a fare la stessa cosa con Like a Rolling Stone, ma non sarebbe mai stata suonata così normalmente". 


Due anni prima, Clapton aveva partecipato a MTV Unplugged con un set di un'ora - tra i pezzi suonati, l'ancora inedita Tears in Heaven e una Layla addomesticata: l'urlo d'amore primordiale trasformato in uno swing elegante per ascoltatori di mezza età. Una volta messo su CD, il concerto aveva ottenuto qualche tiepida recensione e venduto VENTISEI MILIONI DI COPIE. È tuttora il live più venduto di tutti i tempi - a questo punto possiamo serenamente concludere che sarà il disco live più venduto della storia dell'uomo. Questo credo che sia sufficiente a spiegare perché quelle due sere di novembre, a New York, la Columbia non permise a Dylan di suonare quel che voleva, un set magari davvero acustico di cover di vecchi brani folk: il risultato sarebbe stato il terzo volume di una trilogia inaugurata con Good As I Been to You e proseguita con World Gone Wrong, con ogni probabilità un disco più interessante, ma nel '95 sarebbe stato un errore quasi criminale.

Unplugged era la trasmissione musicale più seguita al mondo e Dylan non poteva rinunciare all'opportunità che gli offriva. Quella sera gli bastava suonare a volume non troppo alto i suoi migliori successi, sorridere ogni tanto al pubblico selezionato dalla Sony/BMG/Columbia, e vendere anche solo la metà di Clapton, per ottenere il suo più grande successo commerciale. Il suo Unplugged alla fine incassò molto meno, ma comunque più qualsiasi disco inciso dopo i Traveling Wilburys. Però, siamo onesti: non ci mise l'anima. Forse proprio perché il concetto della trasmissione si adattava molto di più a lui che a Clapton o ai Nirvana: per loro si trattava di rimettere in discussione strumentazioni e arrangiamenti, per Dylan era solo un set come tanti. È difficile capire, per esempio, cosa volesse ottenere con questa Like a Rolling Stone, e in che modo pensava che potesse rappresentare quel che era stata per Clapton la Layla swing del '93. Non c'è niente di swing nel modo in cui Dylan rilegge per l'ennesima volta il suo cavallo di battaglia: quel che si può dire è che è molto più rilassato del solito (forse la versione incisa a cui somiglia di più è quella all'isola di Wight), e che proprio in virtù di questa rilassatezza, il brano non finisce mai. Nove interminabili minuti. Persino Desolation Row scorre più velocemente. Poi davvero, magari a questo punto della storia sono stanco io - anche Tombstone Blues  mi sembra di averla sentita cento volte, e invece è la prima versione live ufficiale. Sarà autosuggestione, ma le cose nettamente migliori di Unplugged mi sembrano gli inediti: soprattutto John Brown, che abbiamo ascoltato già al Gaslight e nei Witmark Demos, ma nel 1995 era un brano noto solo ai dylaniti più estremi. Dylan la canta con una foga e una convinzione che non mi sembra di trovare nei pezzi più famosi. Ci potrebbe essere una spiegazione vagamente politica: durante la prima guerra del Golfo (1991) Dylan aveva ripreso in concerto con una nuova convinzione alcuni dei suoi inni pacifisti: soprattutto Masters of War, di cui aveva dato una versione sguaiatissima, più-che-punk, proprio la sera di quel febbraio '91 in cui lo premiavano con il Grammy alla carriera: lo stesso brano che al concerto del trentesimo anniversario era stato rabbiosamente rivendicato dai Pearl Jam (continua sul Post).
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Nessuno canta il blues come Bob D.

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World Gone Wrong (1993)
(Il disco precedente: Good As I Been to You;
il disco successivo: MTV Unplugged)

Succedono cose strane, mai successe prima:

la mia donna mi ha detto che me ne dovrò andare.
Non posso più essere buono con te,
buono come ero prima,
non posso più essere buono, amore, 
tutto perché il mondo è andato a puttane.


Ci sono canzoni che cantiamo e canzoni da cui siamo cantati. Dylan ha scritto tante belle canzoni, e molte è anche riuscito a inciderle in modo soddisfacente. E poi ci sono quelle che non ha scritto lui; quelle che ha inciso alla svelta, quasi per liberarsene (Dylan non ha mai suonato World Gone Wrong dal vivo). All'orecchio inesperto sembrano brani come gli altri, magari un po' più legnosi, vecchi blues oscuri, curiosità da folklorista. Finché un giorno non ti trovi a canticchiare sconsolato: "All the friends I ever had are gone". E ti rendi conto che era dentro di te da prima che l'ascoltassi, e che non se ne andrà mai: forse dovresti fare come Dylan, trovare un nastro libero e inciderla. Magari a quel punto ti lascerà in pace. Strane cose succedono.

Ti ho detto amore, davanti a Dio,
se non ti lascio, dovrò ammazzarti io
Non posso più essere buono...

A voi non è successo? tanto meglio per voi. C'è chi dice che un bianco non può capire il blues; non è mica una cosa che s'impara sui libri. In effetti. E meglio così, sul serio: non vi auguro di ritrovarvi un giorno in qualche corridoio chiuso dove decidono il vostro destino senza chiedervi un parere, o in ginocchio davanti a qualche macchinario che state rimontando nella certezza che comunque non funzionerà mai più: non vi auguro di ritrovarvi tra le labbra quelle parole spontanee, stonate: I can't be good no more. Su quel treno c'è una persona che fa finta di non vedervi. Once like I did before. Suona il telefono, c'è una persona che non potete fingere di non conoscere. I can't be good baby. Non doveva andare così, ma è un fatto: è andato tutto a puttane. Questo è il blues. Perlomeno, quello che ho capito io. Non subito.

All'inizio pensavo che fosse quella cosa che succede se suoni un riff, lo ripeti sulla corda più bassa e poi su quella alta. Una cosa spontanea, ovvia, come l'abc o il do-re-mi. Che avesse a che fare con la tristezza era una cosa che avevo letto in giro, e ovviamente mi fidavo (al tempo credevamo a tutto quel poco che riuscivamo a leggere in giro), ma non è che lo capissi realmente. Anche perché, alla fine, chi è che cantava il blues ai miei tempi? I Blues Brothers? Non erano tristi. E quando alla fine misi le mani sulle registrazioni complete di Robert Johnson - perché ero uno che voleva fare le cose per bene, persino un po' scolastico, no? In quel negozio c'era una montagna di Nevermind dei Nirvana, diciamo pure una piramide di Nevermind dei Nirvana, era quasi impossibile uscire da lì senza avere in tasca un Nevermind dei Nirvana, ma io dovevo farmi una cultura, e quindi uscii con le registrazioni complete di Robert Johnson - e scoprii che in effetti Sweet Home Chicago non era il pezzo allegrone dei Blues Brothers: ma riuscii a capire perché mentre lo cantava Johnson era più triste della morte? Non credo proprio, no. Sapevo gli accordi del blues e sapevo cos'era la tristezza, ma le due cose non le avevo ancora collegate e sarebbe stato meglio così, dopotutto: non ti danno mica una medaglia quando capisci il blues (più probabile che ti stiano per dare cinque anni senza condizionale).

Quello che sto cercando di dire è che quando ti ritrovi nelle ossa World Gone Wrong, non è mai un buon momento. Come minimo hai appena picchiato una persona cara, o qualcosa di ugualmente triste e... squallido. Quello che non ti dicono in nessun libro, è che c'è qualcosa di profondamente squallido nel blues. È il rantolo concesso a chi non ha più santi a cui pregare - ha rubato a tutti gli altari, profanato tutte le vergini e gli resta solo un po' di miseria tra qui e l'inferno. Quello che sto cercando di dire è che forse non è necessario essere di origine africana per capire il blues (oddio, siamo tutti di origine africana se fai qualche passo indietro) ma sicuramente bisogna essere disperati, e con la coscienza cattiva; e anche in quel caso ti serve un maestro: e dove potevi trovarlo, negli anni Novanta, un maestro disperato con la coscienza cattiva? (Continua sul Post).
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Sii buono come Dylan lo è con te

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Good As I Been to You (1992)

(Il disco precedente: The Bootleg Series Vol. 1-3 (Rare and Unreleased)
Il disco successivo: World Gone Wrong).
C'è un uomo di cui sentirete parlare ovunque andiate
la terra sua è nel Texas, il suo nome Diamond Joe.
I suoi soldi li tiene in un vaso tempestato di diamanti,
le procedure della legge non gli hanno mai dato problemi.

1. TI PORTERÒ A CHICAGO


Al centro di un layout che grida "cestone di autogrill",
la prima foto di Dylan cinquantenne - ed è una bella foto, 

a Dylan i 50 anni donano (erano i 40 che proprio 
non riuscivano a trovare il profilo giusto).

Dov'eravamo rimasti? Senza averlo detto a nessuno, all'inizio degli anni '90 Dylan ha definitivamente smesso di scrivere canzoni. Non è un problema. Sta facendo in media un centinaio di date in giro per il mondo; ha appena piazzato in classifica un cofanetto di scarti che non ha venduto come Biograph, ma alla fine farà anch'esso il suo mezzo milione di copie. Insomma gli affari vanno abbastanza bene, senza bisogno di comporre strofe e ritornelli di cui nessuno sente veramente il bisogno. Sennonché...

...la Columbia vuole il suo disco di inediti.
Anche nel 1992.
C'è scritto sul contratto.

E va bene, dice Dylan, facciamo 'sta sceneggiata. Verso l'inizio dell'estate chiama un vecchio amico pluristrumentista, David Bromberg, la cui carriera di cantautore dopo gli anni '70 si è rapidamente arenata, al punto che ha aperto uno studio da liutaio; prenotami uno studio a Chicago, voglio fare un disco di cover. Povero Bromberg. Devono tremarti le gambe, quando Dylan ti dice che vuole fare un disco di cover. Pensa ai precedenti. Esperimenti abortiti come Self Portrait. Pasticci come Knocked Out Loaded. Oggetti deprimenti come Down in the Groove. La cosa più saggia, quando Dylan ti chiede di fare un disco di cover, è scappare. Invece Bromberg prenota l'Acme Recording Studio. Chiama un violinista, un mandolinista e tutta la compagnia pizzicante. Registreranno il primo vero disco di cover di Bob Dylan - non il solito pasticcio rovinato dai ripensamenti. Un disco serio, rigoroso. Un bel disco, probabilmente.

Non lo sappiamo.
Deve ancora uscire.
Povero David Bromberg.

Ho preso cavalli da Diamond Joe,  ho firmato il suo contratto.
Mi diede una mandria di ronzini così vecchi che non stavano in piedi.
E sono quasi morto di fame, mi ha trattato così male. 

Non ho mai tenuto un dollaro dalla paga di Diamond Joe.
(No, in realtà l'ha pagato. Ma la canzone dice così, e in un qualche modo oscuro le canzoni non mentono).



2. IL RITORNO DEL GEMELLO CATTIVO (o era il buono?)

Quando torna a casa sua in California, Dylan ha una sorpresa: qualcuno gli ha forzato la serratura del garage - più che garage è una piccola sala d'incisione, quella dove i Traveling Wilburys appena nati incisero Handle with Care. Non hanno rubato niente, forse un paio di armoniche (o forse le ha perse Dylan: ha sempre fatto casino con le armoniche). In compenso qualcuno ha lasciato qualcosa. Dei nastri. Dylan non ha nemmeno bisogno di ascoltarli per capire chi è stato: il suo gemello è passato di lì. Quello che non è mai diventato famoso, quello che non è mai passato al rock, quello che continua a strimpellare sui marciapiedi del mondo - in teoria ha la sua stessa età, eppure Dylan è felice che non sia morto di qualche forma di vecchiaia anticipata. Si sa che la vita per strada ti consuma. Vabbe', sentiamo questo nastro - mio dio, è quasi un'ora di roba. Un'ora di voce e chitarra, ma come si fa. Nemmeno nel '64 riuscivi a mantenere l'attenzione per così tanto tempo. E poi senti che voce, mamma mia - non sputa più le sue cattiverie come ai tempi di Blood on the Tracks. Adesso gracchia. La sua glottide è una spina, una puntina di giradischi - ma questa canzone la conosco...

Frankie pulled out a pistol, pulled out a forty-four.
Gun went off a rootie-toot-toot and Albert fell on the floor.
He was her man but he done her wrong.

Frankie and Albert, storia di una tizia che uccise il suo uomo fedifrago a fine Ottocento, al tempo in cui la cronaca nera si diffondeva con le ballate - che roba. Così sei tornato alla fase folkloristica, eh, vecchio Ismaele? beh, almeno adesso hai la voce giusta. Ma a chi credi che possano interessare questi brandelli di antichi giornali? Anche la mano è un po' incerta, una volta sapevi suonare meglio. Si vede che hai avuto problemi alle articolazioni, anche tu...

Frankie got down upon her knees, took Albert into her lap.
Started to hug and kiss him, but there was no bringin' him back.
He was her man but he done her wrong.

Va bene, non è malaccio in fondo, sembra... sembra vera. Suonata da un vecchio cantastorie a un crocicchio. Potrei anche piazzarla da qualche parte nel nuovo disco, per spezzare un po' il ritmo. E poi che c'è? Jim Jones che va a marcire nella colonia penale australiana? Inizio Ottocento ormai. Ismael, stai diventando un museo ambulante.

3. STORIA DELLA CULTURA OCCIDENTALE COME SE FOSSE LA DISCOGRAFIA DI BOB DYLAN

Era un giochino che avevamo iniziato da qualche parte - dunque, i primi dischi acustici sarebbero la fase arcaica. Miti, leggende, echi di guerre civili di duemila anni fa. Con Bringing It All Back Home, e la scoperta del rock, entriamo nell'età classica, che ci regala le maggiori soddisfazioni ma dura pochissimo, chi la vive a momenti manco se ne accorge. Col trauma dell'incidente in moto comincia la fase tardoantica, in cui la barbarie progressivamente penetra entro i confini dell'impero - dapprincipio attraverso le registrazioni nelle catacombe di Big Pink, poi con i riti misterici di JWH - ma è con Nashville Skyline che comincia l'Alto Medioevo: dove c'erano testi filosofici e sapienziali ora si fanno feste danzanti in campagna. I secoli bui si protraggono per tutto il 1970 (Self PortraitDylan, se volete New Morning può essere l'alba del Basso Medioevo). Rifioriscono i commerci, si ritorna in tourBlood on the Tracks non può che essere il Rinascimento quattrocentesco (e allora vedi che in Tangled Up in Blue Dylan non aveva sbagliato secolo?), mente Desire è quello maturo e inquieto di inizio Cinquecento, con le sue tensioni mistiche e simbologie egizie. Street Legal è già manierismo, ma nel frattempo sotto le ceneri cova ben altro; con Slow Train Coming ha inizio la rivoluzione puritana. Cadono teste, i bigotti prendono il parlamento, ma Cromwell comincia a diffidare di loro e dopo la sua morte la repubblica ha breve durata. Già da Shot of Love comincia una lenta transizione da un pomposo barocco a un lezioso rococò, con occasionali tentativi neoclassici (ricordiamo che la classicità per Dylan è il rock and roll). Oh Mercy arriva come un fulmine a ciel sereno: è lo Sturm und Drang? il primo romanticismo? Quindi Good As I Been cosa dovrebbe essere? Forse i fratelli Grimm, la seconda generazione dei romantici che comincia a fare ricerche sul campo. Dylan già si era messo sulle loro tracce con le fiabe e le filastrocche di Under the Red Sky. Ora però fa sul serio - o forse è il suo gemello cattivo, meno incline ai compromessi: le canzoni non si scrivono più, è il popolo che le scrive. Il cantante è solo un medium, un tramite. Attraverso le canzoni possiamo sentire il popolo pensare. Captare le sue emozioni, capire cosa lo appassiona e cosa lo indigna. A volte in realtà non captiamo un bel niente: non ci resta che riflettere davanti a un mistero. Dylan per trent'anni ha riempito il mondo di parole: è ora di tacere e lasciarsi riempire dalle parole del popolo (continua sul Post...)

Was in the summer, one early fall, just tryin' to find my little all and all.
Now she's gone, an' I don't worry: Lord, I'm sittin' on top of the world.

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Una serie di sogni (rari e irrealizzati)

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The Bootleg Series Vol. 1-3 (Rare and Unreleased) (pubblicato nel 1991)


(L'album precedente: Traveling Wilburys Vol. 3
L'album successivo: Good As I Been to You).


Disco Uno

1. Hard Times in New York Town. Registrato il 22 dicembre del 1961 da Tommy Glover, Hard Times descrive con qualche guizzo in meno la stessa situazione di Talkin' New York, e non è dunque la registrazione più antica di Rare and Unreleased. Ma anche stavolta è il punto esatto da cui Dylan vuole cominciare la sua storia: un vagabondo senza un soldo che prende forma sui marciapiedi di New York, in un inverno in cui chi non si adatta muore. There’s a-mighty many people all millin’ all around / They’ll kick you when you’re up and knock you when you’re down.

2. Il brano più antico invece è He Was a Friend of Mine. Non solo perché è stato registrato un mese prima, durante le sessioni del primo album, ma perché la canzone a quel punto circolava già da decenni: era stata registrata per la prima volta nel 1939. È il più generico lamento per un amico caduto (i Byrds lo useranno per piangere J. F. Kennedy). Quando lo incide (1961), Dylan non ne aveva ancora perso uno. Quando lo pubblica, trent'anni dopo, la lista dei compagni caduti lungo la strada è impressionante. Chi non si adatta muore, appunto: Dylan sa adattarsi. Nel '91 cominciamo a renderci conto che è questo che lo rende unico: il più grande superstite della storia della musica popolare.

3. "Canterò una canzone non molto lunga, su un uomo che di male non fece mai nulla. Di cosa sia morto nessuno lo sa: lo trovarono morto un mattino in città". A differenza che nei Witmark Demos, stavolta Dylan si ricorda tutte le parole. Man on the Street è uno schizzo hillybilly che non avrebbe affatto sfigurato in Bob Dylan - ma appunto a quei tempi non voleva sembrare troppo hillybilly ("we want folksingers here!" I tre brani scartati dal disco d'esordio parlano di morte - Bob Dylan avrebbe potuto essere un disco perfino più lugubre di quanto non sia.

4. No More Auction Block. (Registrato nell'ottobre 1962 al Gaslight cafe). Quando uscì, nel 1991, il primo triplo volume della Bootleg Series, Dylan era convinto che non avrebbe mai più inciso un disco inedito. Non avrebbe più pubblicato una canzone. Ne aveva scritte fin troppe. Avrebbe continuato a suonare concerti in giro per il mondo, ma la sua carriera di compositore era conclusa. Adesso poteva finalmente ammettere che era nata da un equivoco, una mezza truffa: la sua canzone più fortunata, quella che aveva attirato i riflettori su di lui al momento giusto, non era farina del suo sacco. Dylan aveva preso la melodia di Blowin' in the Wind da un vecchio canto di schiavi (l'"auction block" era il masso su cui venivano esposti gli schiavi durante le vendite). Riproposta trent'anni dopo, sembra una vendetta postuma nei confronti di quel giovane folksinger che sembrava non sbagliare un colpo: credete che sia così migliore di me, chiede il vecchio zio? Guardate che non era quel genio che sembrava, anzi, copiava senza ritegno. Rubava melodie agli schiavi.

5. House Carpenter. Un uomo misterioso torna da un lungo viaggio per proporsi a una ragazza che nel frattempo ha sposato un carpentiere ("house carpenter"). L'Uomo insiste, la donna lascia i tre figli e salpa con lui, ma la nave è diretta all'inferno, l'Uomo è il demonio. The Demon Lover è una ballata scozzese che risale almeno al Seicento - forse in principio il Demone era l'ex primo marito, marinaio. Ho letto che in tedesco "house carpenter" suona "Zimmerman". Nel 1991 Dylan era appena tornato sull'argomento, con The Man in the Long Black Coat. Nel 1993 inciderà un intero disco di antiche ballate. Ci stava prendendo gusto.

6. Talkin' Bear Mountain Picnic Massacre Blues. Registrata il 25/4/1962 durante le sessioni di The Freewhelin'. Dylan le preferì un altro talkin' blues, Third World War. Questo è il primo talkin' che ha composto, ed è già sardonico al punto giusto. Da quanto tempo non ascoltavamo un talkin'? O in generale, una canzone di Dylan che facesse un po' ridere? C'è stato un momento terribile in cui Dylan ha smesso del tutto di fare il buffone - tra Blonde On Blonde e l'incidente, direi. In seguito, anche quando ci ha provato (con Self Portrait?), mancava sempre qualcosa; come se avesse perso i tempi comici.

7. Let Me Die in My Footsteps è una delle prime canzoni composte da Dylan, scartata da The Freewheelin' quando il disco era già in stampa: forse per renderlo un po' meno politico dopo che gli avvocati avevano chiesto la rimozione di John Birch. Secondo me è una delle canzoni più importanti del primo Dylan, all'intersezione dei suoi due grandi argomenti sociali: la bomba atomica e i contadini del Midwest. Qui appunto c'è un contadino del Midwest che non vuole entrare in un rifugio antiatomico - un eroe di poche parole che vuole morire sui suoi piedi. I don’t know if I’m smart but I think I can see / When someone is pullin’ the wool over me. And if this war comes and death’s all around... let me die on this land ’fore I die underground (mi fa piangere). (Se nei 40 anni successivi il Midwest avesse avuto un Bob Dylan in più e un telepredicatore in meno, oggi Trump sarebbe un palazzinaro qualsiasi).

8. Rambling, Gambling Willie è un altro dei pezzi scartati all'ultimo momento da The Freewheelin' (si sente anche nei Witmark Demos). Ma mentre Let Me Die nel 1991 sembrava la preistoria di Dylan, Rambling Gambling offre uno sguardo sul suo futuro: un tizio che gira il mondo a bluffare, suscitando incredulità e ammirazione, macinando soldi per i bambini e le ex che a casa hanno smesso di aspettarlo. Un giorno qualcuno lo farà secco al tavolo, ma nel frattempo dimmi se non è una bella vita. And it’s ride, Willie, ride, roll, Willie, roll; wherever you are a-gamblin’ now, nobody really knows.

9. Talkin' Hava Negeilah Blues. Risale forse al periodo pre-Oswald in cui aveva amici che andavano a Cuba di nascosto e la cosa gli sembrava ancora divertente. L'invocazione blasfema "Havana" si trasforma nell'inno ebraico Hava Nagila, orrendamente storpiato da un hipster che dice di averlo "imparato in Utah". Forse sta prendendo in giro i sionisti, forse gli hipster, forse è ubriaco, forse tutte e tre le cose, ma nel frattempo su wiki ho imparato che Hava Negila è stato composto su un'antica melodia ucraina. Anche la famiglia Zimmerman, non veniva da quelle parti? Dylan ha cancellato la vecchia melodia e l'ha rimpiazzata col talkin' blues. Incredibile che si possa raccontare la storia della propria vita anche quando si canticchiano sillabe a caso.

10. Quit Your Low Down Ways. Già sentita nei Witmark Demos. Roba forte, delta blues senza vergogna. Dylan scende all'inferno e s'informa sul prezzo dell'anima di Robert Johnson. Troppo cara.

11. Worried Blues. Brano tradizionale (non è un vero blues) inciso durante le sessioni di The Freewheelin' (9/7/1962). The Bootleg Series 1-3 è la prima antologia di Dylan a rispettare l'ordine cronologico - così bellamente ignorato in Biograph. Quando uscì, sembrava davvero la conclusione di un percorso. Fine della storia, inizio dell'archeologia.

12. Kingsport Town. Un altro brano di riscaldamento dalle sessioni di The Freewheelin', le pene d'amore di un cowboy braccato dalla legge. Sono canzoni semplici, suonate con cura e attenzione: non ci posso fare niente, le trovo più ascoltabili di qualsiasi cosa Dylan abbia tentato negli anni Ottanta. Anche lui forse riascoltandosi potrebbe essere giunto alla medesima conclusione: ma se mi rimettessi a registrare canzoni altrui con chitarra e armonica?

13. Walkin' Down the Line. Demo per i trascrittori della Witmark - mi piacerebbe poterli vedere, mentre cercano di trascrivere "My money comes and goes and rolls and flows and rolls and flows through the holes in the pockets in my clothes".

14. Walls of Red Wing. La descrizione iperbolica di un riformatorio giovanile, su una melodia clonata dal folklore scozzese. Registrata nell'aprile del 1963, scartata da The Freewheelin', rispuntò fuori durante le session di The Times They Are A-Changin'. Ma a quel punto Dylan non aveva più bisogno di esagerare.

15. Paths of Victory. Le note dicono che è già una prova per The Times..., ma è accompagnata col pianoforte (e l'armonica), sembra più materiale da Witmark. In questo caso stava cercando un inno che si potesse cantare durante una lunga marcia - senza trovarlo, forse.

16. "Questa si chiama Talkin' John Birch Blues. E non c'è niente che non va in questa canzone". È la versione del concerto di ottobre al Carnegie Hall - la più divertente, quella in cui se la prende col postino.

17. Who Killed Davey Moore? Tratta dallo stesso concerto al Carnegie Hall (l'abbiamo ascoltata in una versione più tarda, al Philharmonic Hall). Continua a sembrarmi un pezzo straordinario, che mostra quanto fosse lucido il Dylan impegnato del 1963, prima di decidere di cambiare completamente strada. Pezzi come Hattie Carroll e Davey Moore sono dispositivi impeccabili - Dylan aveva capito come fare retorica senza mostrarne troppa.

18. Only a Hobo. Un altro barbone che non canterà più. Scartato anche dalla scaletta di  The Times They Are A-Changin'.

20. Moonshiner. Una delle cose più oscure e toccanti del Dylan acustico, la confessione spietata di un alcolista ("Moonshine" è il liquore fatto in casa). Il brano - non originale - lo avevamo già ascoltato tra i nastri del Gaslight. A quanto pare era ancora in lizza per entrare nel terzo disco, dove sarebbe sembrata  troppo pessimistica.

20. When the Ship Comes In. La non fondamentale versione al pianoforte, registrata per la Witmark. È il brano che Dylan ha suonato alla marcia su Washington e, più di vent'anni dopo, al Live Aid. In entrambi i casi non si capisce bene cos'avesse in mente. Forse è una di quelle profezie che capisci solo quando si avverano.

21. The Times They Are A-Changin'. Versione al pianoforte per i trascrittori della Witmark (in effetti tirare giù gli accordi di chitarra di Dylan doveva essere uno sbattimento).

22. Last Thoughts on Woody Guthrie. Quando si gioca a "chi ha inventato il rap", qualcuno tira mai fuori questa cosa? Sette minuti di versi a mitraglia, senza interruzioni - non si capisce onestamente come faccia a respirare. Il testo di un inno a Woody Guthrie che Dylan non sarebbe riuscito a cantare (né a imparare a memoria), letto al pubblico del New York City's Town Hall il 12 aprile 1963. La dimostrazione di un talento che sembrava incontenibile: servivano nuovi strumenti, nuovi modi per cantare che sarebbero arrivati molti anni più tardi. Dylan cercò di inserirlo nel disco live che la Columbia voleva pubblicare - poi non ne fece niente e i Last Thoughts diventarono una curiosità per collezionisti. E il rap lo inventò qualcun altro (Continua sul Post...)
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Dylan sfruttatore di sé stesso

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Under the Red Sky (1990)
(Il disco precedente: Oh Mercy
Il disco successivo: Traveling Wilburys Vol. 3)

Sguscia sguscia, come una regina zingara
sguscia sguscia, tutta vestita di verde,
sguscia sguscia, finché la luna è azzurra
sguscia finché la luna ti vede

Lo senti quel battito, tutti gli strumenti all'unisono? È tornato il vecchio-zio-Dylan, dalla sua strana vacanza in Louisiana. È tornato in California e si è già rimesso la giacca di pelle di Down in the Groove. Temeva che Lanois ci stesse addormentando ed è tornato a farci ballare coi suoi rock and roll fuori tempo, fuori senso, fuori tutto. Porta in regalo una valigia di filastrocche meno ispirate di quelle che aveva quand'è partito. Ha una voce più gracchiante e chioccia del solito - vecchio zio Dylan, ci sei mancato. Temevamo quasi che fossero finiti gli anni Ottanta. Temevamo quasi che ti fossi rimesso a fare dei bei dischi - giusto per la tigna di fregare un'altra volta i critici che ti davano spacciato nel 1980, nel 1970, nel 1966. E invece eccoti qui, stonato e scazzato al punto giusto. Caro vecchio zio Dylan, se non ci fossi tu.

 
(La spiccata allergia per i fotografi, in quel periodo, è forse il motivo per cui la copertina di un disco del 1990 è una foto del viaggio in Israele (1983).



Insomma avevo fatto quel disco con Lanois nel 1988. A quel punto stavo già facendo un centinaio di show all'annoAvevo deciso di rimettermi a fare concerti, una cosa che non avevo più pensato davvero di fare dal 1966. Alcuni artisti fanno un sacco di sacrifici per registrare un disco - bruciano una gran quantità di tempo ed energia. Io lo avevo fatto con Lanois, e aveva funzionato abbastanza bene. Ma più o meno nello stesso periodo stavo facendo un disco coi Traveling Wilburys, e poi avevo cominciato quest'altro disco con Don Was, Under the Red Sky. Tutto questo stava succedendo nello stesso periodo. A ripensarci adesso sembra inimmaginabile. Mi capitava di mollare i Wilburys e scendere al Sunset Sound a registrare Under the Red Sky, il tutto allo stesso tempo perché il tal giorno avrei dovuto essere a Praga o da qualche altra parte. Ed entrambi i dischi, li lasciavo lì sospesi e poi più tardi sarei tornato a vedere com'erano venuti. 

Elton John. David Crosby. George Harrison. Steve Ray Vaughan. Bruce Hornsby. Slash, quello dei Guns'n'Roses. Se vi dicessi che c'è un album del 1990 in cui hanno tutti collaborato, prodotto dal grande Don Was, cosa mi rispondereste? Scommettiamo che è uno di quegli inutili dischi di zio Bob in cui suonano tutti una particina che qualsiasi turnista rimediato nei sottoscala della Columbia avrebbe inciso senza che si notasse la differenza? Sei davvero così prevedibile, zio Bob, è il motivo per cui ti si vuole bene. Che altro avevi? Problemi con le partner? Un divorzio in arrivo? Problemi con l'alcool? La voce un po' fiacca? Ma non ci dire. Quando Clinton Heylin licenziò le bozze di Jokerman, il disco era così fresco che aveva preferito non parlarne - più che un nuovo album era un ulteriore sintomo di una situazione preoccupante. Non dava più interviste, non faceva soundcheck, si presentava sul palco col volto quasi del tutto coperto. Anche in sala di registrazione si presentò spesso con "quel cappuccio del cazzo e gli occhiali scuri", come disse Slash, che racconta di averne visto solo il naso. Insomma stava un po' peggio del solito. Però doveva fare un disco lo stesso. Ma perché?

Not one more night, not one more kiss
Not this time baby, no more of this
Takes too much skill, takes too much will
It’s revealing

Non è il Tempo e non è l'Amore. Non è la guerra e non è il passato. La Musa più assidua di Dylan, quella cui dobbiamo il maggior numero di dischi e canzoni, la sua più grande ispiratrice, è sempre lei: la Scadenza Contrattuale. Come non pensare a lei mentre ascoltiamo i nonsense di Under the Red Sky, le filastrocche buttate lì in mezz'ora sugli stessi giri blues che suonava già nel 1964, gli sgorbi di canzoni che avrebbe dovuto finire ma l'amica Scadenza urlava: non c'è tempo! e allora vabbe', è andata così anche stavolta, arrivederci alla prossima. Scadenza Contrattuale, quanti crimini in tuo nome. Quanti dischi non per forza brutti, ma poco convinti, tirati via, mandati fuori per disperazione quando sarebbe bastato aspettare qualche mese, qualche anno. Ma chi è poi che ti ha mandato, Scadenza Contrattuale? Perché tanto infierisci sul povero Bob Dylan? Da quale altro grande vecchio del rock si pretendeva ancora un disco all'anno nel 1990? Che senso aveva spremerlo così? Era la Columbia ad averlo messo alla catena, o non era lui a insistere con una tabella di marcia che avrebbe sfibrato una rockstar con metà dei suoi anni? Al Toad's Place di New Haven una sera suonò per cinque ore. A un tizio che gli chiedeva una canzone a un certo punto disse, ehi, me ne hai chieste già cinque e te le ho suonate. Il Grande Bob Dylan. Il Mito Distante e Scostante. Si stava tirando il collo da solo, e per cosa, per chi? I figli, d'accordo (secondo Carolyn Dennis, ne ha "otto o nove"). Un sacco di avvocati, le pedine di una ventennale battaglia col suo vecchio manager Grossman. Tutto questo basta a spiegare perché nel 1990 Dylan, sulla soglia della cinquantina, registrava due dischi mentre stava ancora promuovendo il precedente?



Era il 1990. Un artista di una major, nel 1990 pubblicava in media un disco ogni 18 mesi. Meno di così non avrebbe avuto senso - se il disco funzionava si estraevano tre, quattro singoli, e ognuno doveva godere della giusta esposizione radiofonica e su MTV. I più famosi diradavano ancora di più le uscite. Tra Nothing Like the Sun The Soul Cages Sting fece passare quattro anni. Dopo Tunnel of Love (1987) Springsteen attese un anno in più - e poi ne fece uscire due, ma nel frattempo Dylan ne aveva incisi tre in studio e uno dal vivo. Nello stesso periodo si stava deteriorando il rapporto tra Prince e la sua casa madre, la Warner, che non solo lo aveva svezzato sin da piccolo (come la Columbia con Dylan), ma si era impadronito del suo nome registrandolo come un marchio. Prince continuava a registrare come un matto: avrebbe voluto e potuto uscire con uno o più dischi all'anno, mentre la Warner preferiva rallentare per non inflazionare il mercato.


È un dandy alla mano, circondato da polemiche. Ha fatto il giro del mondo, e rieccolo qua. Qualcosa nel plenilunio ancora lo tormenta - Dandy-Alla-Mano, zucchero e canditi. Se ogni osso del suo corpo fosse rotto, non lo ammetterebbe.

L'urgenza di registrare di Prince, però, era imputabile a un'ispirazione debordante - una necessità di liberarsi della troppa musica che aveva in testa, che aveva nelle mani. Dylan, tutte queste idee, queste canzoni, non le aveva. E però in un qualche modo il suo disco all'anno, fino al '90, doveva farlo uscire. Dopo aver cucinato gli avanzi in Knocked Out Loaded, per Down in the Groove si era ridotto a servire agli invitati pietanze altrui, acquistate in fretta in qualche equivoca rosticceria sotto casa. Per Oh Mercy si era presentato in Louisiana quasi a mani vuote; e se in un qualche modo il duro lavoro con Lanois aveva dato qualche frutto, resta il mistero: perché affannarsi così? Sei un mito vivente, hai ancora gente che ti adora e ti compra i biglietti ovunque tu suoni: perché devi affliggerli con tutti questi dischi inutili? Quando capirai che di tutti i suicidi artistici, il tuo è il più lento e doloroso?

Tutte queste cose succedevano nello stesso periodo di tempo, e fu allora che capii che davvero ne avevo abbastanza. La mia parte razionale non sapeva più cosa farci. Avrei mantenuto il mio proponimento e non avrei più fatto dischi. Non sentivo il bisogno di annunciarlo, ma avevo comunque raggiunto questa conclusione. Non m'interessava più incidere. Preferivo suonare on the road. Registrare era una cosa troppo cerebrale. Inoltre, sentivo che non stavo scrivendo le canzoni che avrei voluto scrivere. Non ricevevo l'aiuto che mi serviva per registrare bene, non mi piaceva il suono dei dischi... non mi ricordo bene. Era solo... una cosa conduce all'altra, capisci? Mi resi conto che non ne potevo più. 

Non deve essere stata per forza la Columbia, a insistere per avere un disco all'anno: ma nemmeno fece niente per evitare che il suo più prestigioso artista si buttasse via così. Sarebbe bastato dirgli, ehi Bob, come va? Abbiamo sentito qualcosa delle tue ultime sessioni con Don Was e... forse è meglio prendersi un po' di riposo, che ne dici? Sì, certo, Don Was ci sarà costato un po'. È un grande professionista. Però... sai, tu ti stai già esponendo parecchio coi Wilburys che vanno fortissimo (anche se incidete per la Warner) e forse per quest'anno è sufficiente. Magari prendiamoci un annetto sabbatico, facciamo cassa con qualche inedito, e gettiamo i semi per un Grande Ritorno vecchio stile, che ne dici? Qualcosa che magari si riesca a piazzare non dico nella Top10, ma nella top30. Under the Red Sky negli USA si fermò a #38. È a oggi uno dei suoi dischi meno venduti. La cosa deve aver sorpreso soltanto Dylan, che da Don Was si aspettava un rilancio commerciale.

La storia la scrivono i vincitori, e così noi oggi consideriamo Under the Red Sky un incidente, un intermezzo dimenticabile tra i dischi della terza maturità di Dylan, i due registrati con Lanois e i due acustici. Ma quando uscì, Under the Sky diceva una sola cosa: che il metodo Lanois aveva fallito. Era Oh Mercy l'eccezione: Dylan era tornato in California e aveva ricominciato a registrare come negli anni Ottanta, alternando session intensive a lunghe pause, a volte rese necessarie da un fitto calendario di concerti. Dietro le manopole aveva di nuovo convocato un grande produttore molto aggiornato sui suoni che andavano in classifica nel momento: nel 1979 era Jerry Wexler, nel 1986 Arthur Baker, nel 1990 ecco Don Was. Quest'ultimo forse era un po' più lungimirante di Baker, un po' meno compromesso con le tendenze più effimere del decennio precedente (quella cazzo di batteria ecc.), forse semplicemente più abituato a infiocchettare qualsiasi merda gli dessero da registrare - fatto sta che Under the Sky risulta un ascolto meno fastidioso di Empire Burlesque, ma se possibile più deprimente. È tutto molto ben suonato e quasi del tutto inutile. Don Was se non altro dimostra di avere un'idea chiara di come dovrebbe suonare un disco di Dylan: un'idea che si è cristallizzata più o meno tra Like a Rolling Stone Blonde On Blonde e prevede che il pianoforte svirgoli in libertà mentre le chitarre squillano accordi in maggiore. In alcuni brani viene per l'occasione riconvocato persino l'artefice di quel vecchio suono, Al Kooper: costretto una volta ancora a riprodurre in laboratorio quello che un tempo era stato un espediente spontaneo. Suonerebbe artificiale anche se Dylan avesse qualcosa da dire, ma non è quasi mai il caso. "One by one, they followed the sun / One by one, until there were none / Two by two, to their lovers they flew / Two by two, into the foggy dew". C'è anche l'ipotesi che fossero le filastrocche che Dylan cantava alla sua bimba di quattro anni, accreditata come "Gabby Goo Goo" nelle note di copertina. Sì, ma ti ricordi quando i bambini gli ispiravano Man Gave Name to all the Animals? Quelli erano tempi.

Il risultato più notevole del combo Dylan/Kooper/Was è Handy Dandy, che nasce in coda a un'improvvisazione di Like a Rolling Stone. Lo racconta lo stesso Was: a un certo punto stava suonando il basso con gli altri due e quelli si mettono a suonare Like a Rolling Stone: che emozione. Finché la progressione del ritornello non si trasforma in qualcosa di più simile a Louie Louie, Dylan si mette a improvvisare versi su un musicista balordo, ed è più o meno buona la prima.

Handy Dandy, ha un mazzo di fiori e un sacco pieno di dolori. Finisce il suo drink, si alza e dice: "Ok, ragazzi, ci si vede domani". 



Forse a un certo punto Dylan aveva pensato semplicemente di fare un disco tranquillo, un po' estemporaneo, tra amici, insomma un disco alla Wilburys. Unbelievable è un rock allegro che inizia con lo stesso fraseggio di chitarra che usava George Harrison in Honey Don't - e magari la sta suonando davvero Harrison, quindi che male c'è? Certi brani alla fine sono talmente nella media che ti domandi se non potrebbero stare in qualsiasi altro disco di Dylan. Cat's in the Well alla fine è Outlaw Blues, rifatta venticinque anni dopo con strumentazioni migliori e un testo più scemo. Però dal vivo l'ha suonata trecento volte, Outlaw Blues una volta sola. Una cosa sconcertante di Under the Red Sky è che contiene alcuni brani a cui non daresti il minimo credito, e che invece sono diventati cavalli di battaglia delle sue successive esecuzioni dal vivo. Il brano omonimo è una canzoncina macabra come potrebbe inventarsela un bambino di sei anni dopo che gli hai raccontato Hansel e Gretel.

There was a little boy and there was a little girl
And they lived in an alley under the red sky...

[E adesso cosa canto? Bah, ripeto i primi due versi un po' più accelerati:]

There was a little boy and there was a little girl, and they lived in an alley under the red skyyyy...

Sembra uno scherzo scemo, il modo di perpetuare due tradizioni: (1) inserire il brano più debole al secondo posto della scaletta; (2) usare il titolo del brano più debole come titolo dell'intero album (come in John Wesley Harding. Alla Columbia si erano lamentati perché Oh Mercy non aveva una title track, beh, eccovi accontentati). Poi uno va a vedere se per caso abbia mai cantato Under the Red Sky dal vivo e misericordia! 148 esecuzioni in poco più di vent'anni. Magari nel frattempo è migliorata, è diventata una canzone interessante. Lo spero per Dylan e per i suoi ascoltatori. TV Talkin' Song non è purtroppo il talkin' blues che sembra promettere dal titolo (per quanto la melodia sia ridotta al minimo), ma è l'unico brano in cui Dylan non si accontenta di dispensare filastrocche o fesserie da anziano al parco. Anzi, sembra il brano in cui Dylan per la prima volta si pone il problema: come posso fare a lamentarmi della modernità senza sembrare un anziano al parco? L'espediente è immaginare che tutte le cose brutte che vorrebbe dire sulla TV, Dylan non le stia affermando in prima persona. Sta solo riferendo quello che ha sentito dire da un predicatore a Hyde Park (pare sia successo davvero, Dave Stewart testimone).

"The news of the day is on all the time
All the latest gossip, all the latest rhyme
Your mind is your temple, keep it beautiful and free
Don’t let an egg get laid in it by something you can’t see”
“Pray for peace!” he said. You could feel it in the crowd
My thoughts began to wander. His voice was ringing loud
"It will destroy your family, your happy home is gone
No one can protect you from it once you turn it on”

Ok, sembrano proprio le fesserie di un anziano al parco. Fate la prova: rileggetele a qualcuno che non conosce il titolo della canzone; chiedetegli di cosa sta parlando. Di Facebook? Internet? La radio? La stampa periodica? Ogni generazione ha il suo satana mediatico. "Un giorno dovrete fare come Elvis e sparare a quella cosa". A questo punto però la folla comincia a premere sullo speaker, c'è baccano, Dylan nota una troupe televisiva e se la batte. Quella sera stessa, rivede la scena in tv. Canzoni che finiscono con Dylan che spegne il televisore: Black Diamond BayTweeter and the Monkey ManTV Talkin' Song (Continua sul Post)
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Pietà per Dylan

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Oh Mercy (1989)
(Il disco precedente: The Traveling Wilburys Vol. 1
Il disco successivo: Under the Red Sky).

Broken lines, broken strings. Broken threads, broken springs.
Broken idols, broken heads. People sleeping in broken beds.

Ain’t no use jiving, ain’t no use joking:
Everything is broken.

Scusate, sono un po' in ritardo coi dischi di Dylan, però non avete idea di cosa mi è successo questa settimana. Tanto per cominciare c'è puzza - dovrei telefonare l'amministratrice ma a proposito mi si è rotto il telefono - il modem di casa mi sta morendo, niente linea fissa. È da tre mesi che lo voglio cambiare ma Telecom Italia (sì dico proprio a te amica TIM) non riesce a farmi un contratto. Chiamarli al telefono è inutile, dovrei uscire ma si è rotto il ventilatore dell'auto, o va al massimo o non va, e mi è anche venuta un po' di bronchite. L'elettrauto doveva cambiarmi la resistenza, ma non riescono a collegarsi con la casa madre, non gli funziona la rete. Forse volevano passare a TIM anche loro. Anche a scuola c'è puzza, per un cantiere dicono, che però è bloccato perché hanno rotto qualcosa. Non riesco a configurare in rete la fotocopiatrice del plesso. In seconda un nativo digitale si è appeso al cavo di alimentazione di una LIM (le LIM si rompono continuamente). I genitori che fanno le collette per le LIM, anche loro si rompono spesso. Mentre penso a tutto questo mi chiama una signora dall'Albania e mi chiede se per caso non vorrei passare a TIM. Mi lasci perdere signorina, le dico, tra me e TIM ormai c'è una storia troppo complicata, ne stia fuori, le conviene: ma lei insiste, occupando l'unica linea telefonica che mi funziona (così i colleghi che hanno rotto qualcosa non mi possono chiamare). Per comprare un modem nuovo potrei usare il Bonus Docente, ma anche lì si dev'essere rotto qualcosa, non mi riconosce la password. Neanche il codice di emergenza. Rotto anche quello. Il Bonus Docente poi devo stare attento a usarlo, mi serve anche per la Nuova Piattaforma Formativa del Ministero, che è appena nata e si è già, ovviamente, rotta. La signorina insiste che lei risolverà qualsiasi problema tra me e TIM, dall'Albania, lei non è come tutte le altre che ci hanno provato da giugno in poi. Entra un ragazzo e chiede se lo stereo funziona, ne ha bisogno la collega d'inglese. Lo stereo sì, ma il cavo di alimentazione l'altro giorno ha fatto saltare una valvola in mezzo corridoio. Sotto il corridoio c'è una stanza, io lo so che c'è, piena di cose che si sono rotte o sono state dichiarate tali. Bisognerebbe caricarle su un furgone e portarle in discarica, ma suppongo sia rotto anche il furgone. Oppure prendersi un paio di ragazzi e cercare di capire cosa è rotto davvero e cosa potremmo ancora recuperare - sarebbe molto bello ma anche i ragazzi rischiano di rompersi, bisogna far firmare un'autorizzazione ai genitori, con cosa la stampo? La stampante è rotta. Dovrei configurare la fotocopiatrice. Oh, pietà.

Broken cutters, broken saws. Broken buckles, broken laws
Broken bodies, broken bones. Broken voices on broken phones.
Take a deep breath, feel like you’re chokin':
Everything is broken


Si è rotto anche il cuore di Tom Petty, troppo presto a mio parere. Forse non sembrerebbe così assurdo se Dylan non fosse ancora in circolazione - pubblica dischi, ritira premi - la vera notizia non è un rocker sessantenne che muore, ma Dylan che continua a sopravvivere. Lista di rockstar vive nate prima del 1942: Bob Dylan, Charlie Watts, Ringo Starr, David Crosby, altri in mente non mi vengono. Dylan ha iniziato a seppellire colleghi quando aveva vent'anni, e non ha mai smesso. Ha debiti infiniti con gente che non verrà più a riscuoterli, e Chronicles a volte dà l'impressione di essere proprio questo: il libro dei debiti morti e coi vivi. Tom Petty era uno dei due artisti più giovani a comparire in bilancio: a metà anni Ottanta i suoi Heartbreakers lo avevano raccolto con il cucchiaino e rimesso in sesto. "Tom stava dando il meglio di sé e io stavo dando il peggio". Con gli Heartbreakers ritrovò la voglia di suonare dal vivo, ed è curioso che non esista un disco live che documenti l'evoluzione dei loro concerti tra il 1986 e il 1987 - un'ottantina di date. Per dire, coi Grateful Dead ne suonò soltanto sei, e di quel tour abbiamo il disco (purtroppo). Magari è solo un problema di diritti. In realtà anche Petty, quando incrociò Dylan, era un po' appannato e bisognoso di visibilità. E le cose cominciarono a girare per entrambi soltanto quando presero un po' il largo: anche grazie a Dylan, Petty incontrò Jeff Lynne, mentre Dylan un giorno si ritrovò nello studio di Daniel Lanois.

What good am I then to others and me
If I had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been



Quando ero giovane mi si rompeva tutto perché mi piacevano le cose usate (è un modo elegante di dire che ero taccagno). Il mio primo giradischi, mi ricordo, era amplificato con due vecchie casse per automobili - io vivevo sopra un'auto-officina e avevamo un cortile pieno di quelle cose un po' rotte un po' no. Queste casse a volte vibrando finivano per cascare sul giradischi segnando orribilmente i vinili. A un certo punto mi ruppi e comprai un impianto stereo, col lettore CD. Era già il 1989 e io non avevo davvero l'intenzione di mettermi a comprare CD (costavano il doppio delle cassette, maledette major, gli mp3 ve li siete cercati) ma intendevo copiare tutti quelli dei miei amici. In questo modo comunque cominciarono a entrare nella mia camera molti CD, e cominciai ad ascoltare la musica in un modo diverso. Prima alzavo il volume e amen, sperando che verso l'alto il canale sinistro e quello destro avrebbero trovato un loro equilibrio, e che i bassi non facessero cascare qualche libro da una mensola. Ma verso la fine degli anni Ottanta, magari fu una coincidenza, cominciai ad ascoltarli a un volume molto basso, mentre studiavo o leggevo o pensavo o facevo finta di. Il cd all'inizio aveva qualcosa di magico: potevi abbassare il volume finché non si sentiva nulla: col vinile la puntina continuava a gracchiare qualcosa, col nastro c'era qualche altro rumore (le testine?), il cd invece scompariva del tutto - solo se accostavi l'orecchio udivi qualcosa di simile a un piccolo sputacchio. A quel punto gli eroi del rock, quelli che mi avevano urlato nelle orecchie per gli ultimi cinque anni, potevano improvvisamente esprimersi sottovoce, come amici venuti a trovarmi. Sarà stata una coincidenza, ma proprio in quell'anno due vecchi fracassoni uscirono con dischi confidenziali: Lou Reed pubblicò New York, Bob Dylan Oh Mercy. Non avevano mai cantato così piano. Ma forse prima non avevo la rotellina del volume. Sul serio, fino al 1989 non osavo toccare troppo certe rotelline, mi si rompeva tutto, oh, per carità.

Most of the time I’m clear focused all around;
Most of the time I can keep both feet on the ground.
I can follow the path, I can read the signs
Stay right with it when the road unwinds
I can handle whatever I stumble upon
I don’t even notice she’s gone
Most of the time

Un altro posto dove tutto sembrerebbe rotto è la biblioteca di Babele, quella di Borges. Dentro ci sono tutti i libri che si possono scrivere - il che significa che per un volume con un briciolo di senso ce ne sono miliardi composti di stringhe di lettere senza significato. Gli abitanti della biblioteca si aggirano per il loro universo ripetendosi, come noi, che è tutto rotto, ogni libro è rotto, e non c'è rimedio. In uno degli scaffali c'è un libro che contiene un racconto molto singolare. Comincia esattamente come il quarto capitolo di Chronicles I: c'è Dylan preoccupato perché si è rotto una mano, non sa se ne recupererà la sensibilità, e questa disgrazia domestica gli è successa proprio nel momento in cui ha solo voglia di suonare. Non vuole più scrivere canzoni - dice che ne ha scritte già abbastanza e nel 1988 sembrava un argomento sensato. Gli si è rotta l'ispirazione. Non vuole nemmeno più incidere, ormai le sale d'incisione sono diventate luoghi dove si trova a disagio e non riesce a combinare niente di buono. Gli si è rotta la concentrazione. Vuole soltanto cantare e suonare dal vivo, ma gli servono le mani e si è rotto anche quelle. Oh merda.

Far away where the soft winds blow, far away from it all
There is a place you go where teardrops fall.



È il momento in cui in una leggenda appare un santo o una madonna; in questo caso entra Bono con una cassa di Guinness. Dylan lo frequenta da qualche tempo: ci ha cantato assieme in Sun City, hanno duettato in Rattle and Hum, c'è stima reciproca - forse perché Bono è l'unico artista al mondo che sostiene di amare Shot of Love. A questo punto della storia Bono è la Voce del Rock, e non solo. Ha combattuto l'apartheid, ha pianto con le madri di Plaza de Mayo e coi minatori inglesi in sciopero. Ma che importanza ha visitare i carcerati e sfamare gli affamati, se Bob Dylan nel frattempo continua a fare dischi di merda? Così, dopo aver ben chiuso le 99 pecorelle nel recinto, Bono parte per Malibu con una missione: salvare Bob Dylan, condurlo da Daniel Lanois. Il produttore che lo salverà. Oh, grazia.

Seen a shooting star tonight and I thought of you
You were trying to break into another world
A world I never knew
I always kind of wondered if you ever made it through
Seen a shooting star tonight and I thought of you


Daniel Lanois è canadese (sua sorella suonava nei Martha and the Muffins), ma da un po' di tempo lavora nelle paludi della Louisiana: il che significa che Dylan, imbeccato da Bono, tornerà a Sud per l'ennesima volta. Dieci anni dopo aver lavorato con Jerry Wexler; venti esatti dopo Nashville Skyline: è come se ogni dieci anni Dylan sentisse il richiamo delle paludi. Ma quello che cerca davvero a sud non sono le atmosfere decadenti o la retorica del sottosviluppo: a Sud di solito Dylan ci va per trovare dei musicisti professionali (ricordiamo anche Leon Russel ai tempi di Watching the River Flow) e dei produttori al passo coi tempi. In effetti il racconto che sto leggendo non è così credibile; nell'88 Lanois non era un nome sconosciuto che Bono ti passa dopo una bevuta: tra gli ultimi dischi a cui aveva lavorato c'era So di Peter Gabriel e The Joshua Tree. Tutt'un'altra idea di anni Ottanta, rispetto per esempio ad Arthur Baker: il ritorno degli strumenti acustici, dei suoni caldi - ma riprodotti con una tecnologia all'avanguardia e quindi insolitamente vicini all'orecchio dell'ascoltatore: cos'ha in comune il Peter Gabriel di Don't Give Up e il Bono di With or Without You? Sembra che siano usciti dallo stereo e stiano cantando direttamente in camera tua. Non sono uno spettacolo lontano e artefatto, sono tuoi compagni di stanza e sono disperati, vogliono strapparti il cuore. È come se in mezzo a tutte le strumentazioni escogitate dagli ingegneri del suono negli anni Ottanta, tutti gli artifici e i bip e i clang, Gabriel e Lanois avessero finalmente trovato il tasto EMOZIONE, e avessero deciso di spingere solo quello (Lanois aveva anche un debole per il tasto TREMOLIO). Oh, pietà.

Ring them bells, ye heathen from the city that dreams
Ring them bells from the sanctuaries
’Cross the valleys and streams
For they’re deep and they’re wide
And the world’s on its side
And time is running backwards
And so is the bride

Lanois aveva reso la voce di Bono l'assoluta protagonista di Joshua Tree. Era abbastanza inevitabile che lui e Dylan si incontrassero, presto o tardi. Forse successe troppo presto, ma per Dylan aveva tutta l'aria dell'ultimo tentativo. Arrivò in Lousiana con qualche testo scritto, nemmeno una musica. Per quel che ne sappiamo, Dylan aveva scritto testi senza musica solo ai tempi di John Wesley Harding. Ora però, forse a causa della mano convalescente, si ritrovava nella situazione di chi ha parole e non ha note. Il risultato è una maggiore attenzione al ritmo e al suono delle sillabe; certi testi di Oh Mercy sembrano nati come filastrocche, scioglilingua. Non è la prima volta che Dylan si affida agli aspetti più formali del linguaggio: gli era già capitato ad esempio con All I Want to Do (e già allora l'espediente serviva a smarcarsi: tutti volevano che lui scrivesse inni generazionali, lui si metteva a scrivere filastrocche). Il suo gioco preferito, l'anafora, ritorna prepotente in Everything is Broken, ma a ben vedere è la trama di tutto il disco. I titoli di Oh Mercy sono le arie su cui Dylan costruisce variazioni nelle sue strofe, giocando con le rime e sapendo che alla fine deve tornare a scandire "Man in the long black coat", "Disease of conceit", "What good am I?" o "Most of the Time". Certe parole le ripete così tanto che finiscono per perdere il significato. È il caso di "disease of conceit", che Dylan ha deciso di ripetere al termine di ogni verso della canzone omonima.

There’s a whole lot of people suffering tonight
from the disease of conceit.
Whole lot of people struggling tonight
from the disease of conceit...

All'inizio sei propenso a considerarla un "disagio dell'orgoglio", di cui siamo sicuramente tutti afflitti, una delle malattie della contemporaneità bla bla. Ma lui ci insiste così tanto, e così meccanicamente, che ti viene il sospetto che stia raccontando una storia su una specie di pandemia misteriosa.

There’s a whole lot of hearts breaking tonight
From the disease of conceit
Whole lot of hearts shaking tonight
From the disease of conceit
Steps into your room, eats your soul
over your senses, you have no control.
Ain’t nothing too discreet - about the disease of conceit. 

Pare che si tratti di una cosa per cui non c'è cura - i dottori hanno fatto un sacco di ricerche, ma per ora niente da fare. Dice proprio così. Ci sta prendendo in giro? È difficile capire, la musica è molto austera, senza sbavature. Lou Reed era entusiasta, e si capisce: ha lo stesso minimalismo cocciuto di certe canzoni di Songs for Drella. Anche la "politica" di Political World sembra non essere proprio "politica" in senso stretto - a meno di non considerare Dylan nel 1989 quel tipo di vecchietto che si mette a borbottare sulla panchina "la politica è una cosa sporca", e in effetti un po' già ci assomiglia. In ogni caso si tratta di testi che hanno perso tutta la magniloquenza con cui Dylan era entrato negli anni '80: sono secchi, umili, apparentemente intimi, eppure Dylan non riesce a specchiarcisi. "Io non c'ero",  dice di Political World. Non l'ha scritta per esprimersi. Neanche perché gli premesse dire qualcosa. L'ha scritta - di getto - perché, finalmente, una sera ne è stato capace: oh, grazia. Sono incastri di parole, puzzle nemmeno troppo difficili. Sono tutto quello che portava in valigia a Daniel Lanois un convalescente sulla soglia della cinquantina, esaurito e disilluso. Daniel Lanois invece voleva lavorare col grande Bob Dylan. Non l'aveva capito che si era rotto tutto, e da un bel pezzo? Non aveva un po' di pietà?



Di tanto in tanto, mentre registravamo Series of Dream, mi diceva: "Abbiamo bisogno di canzoni come Masters of WarGirl from the North Country With God on Our Side". Cominciò a tormentarmi, un giorno sì e uno no, che avevamo bisogno di cose di quel tipo. Io annuivo. Lo sapevo anch'io, ma mi veniva voglia di ringhiare. Non avevo niente di paragonabile a quelle canzoni.

Nel lungo percorso che stiamo percorrendo, Oh Mercy è senz'altro una pietra miliare. Pochi dischi segnano la strada di Dylan in modo così netto, dividendola in un prima e in un dopo. Prima di Oh Mercy c'era una traiettoria discendente il cui esito sembrava chiaro e vicino. Era un'impressione condivisa da ascoltatori, critici e dallo stesso Bob Dylan. Dopo Oh Mercy, e una lunga fase di incubazione che prende quasi tutto il decennio successivo, c'è quel miracolo che riscatta tutta la storia - ovvero a un certo punto Dylan, invece di lasciarsi spegnere, come stava succedendo negli anni Ottanta e come in fondo era naturale che succedesse, si è bloccato. Ha smesso di consumarsi. Come se avesse trovato una nuova fonte di energia. E l'ha trovata davvero. Si è rimesso a suonare dal vivo, e non ha mai suonato così tanto. Si è rimesso a fare dischi e ha scoperto, a sessant'anni, che è persino capace di produrli - lui che in studio ormai nemmeno riusciva a entrare. Si è rimesso a scrivere canzoni e ne ha scritte di ottime. Ha scelto la vita, per la seconda volta. La prima volta, nel 1966 aveva rifiutato di sfracellarsi su una moto (com'era naturale che succedesse). Tra Ottanta e Novanta dev'essere successo qualche altro strano non-incidente, ma è difficile capire esattamente dove, quando, cosa. Lui stesso non ne è sicuro, anche se il quarto capitolo di Chronicles sembra scritto da una persona che vorrebbe capire, vorrebbe ricordarsi. È vero, ci sono stati episodi che sembrano miracoli - quella passeggiata notturna a San Rafael, quel concerto in Svizzera, ma quel che è accaduto in seguito non sembra per nulla miracoloso. Dylan va in Lousiana, decide che Lanois gli va a genio e comincia a lavorare con lui, con poche idee e un'insolita arrendevolezza. A questo punto la versione ufficiale è che Lanois riesca a riparare il grande Bob Dylan e a cavargli di gola un capolavoro - per molti dylaniti Oh Mercy lo è. Oh, finalmente! (continua sul Post)
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La tavernetta degli specchi

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The Traveling Wilburys, Vol. 1 (1988)
(Il disco precedente: Dylan and the Dead.
Il prossimo è Oh Mercy, oh, finalmente).

Ma Orbison andava al di là di tutti i generi, folk, country, rock and roll o qualunque altra cosa. Mescolava tutti gli stili, compresi quelli che non erano ancora stati inventati. In un verso cantava veramente da cattivo, in quello dopo se ne usciva con un falsetto alla Frankie Valli. Con Roy non si sapeva mai se stavi ascoltando del mariachi o un'opera lirica. Teneva sulle spine. La sua era un'offerta di grasso e di sangue. Sembrava che cantasse dalla cima del monte Olimpo ed era meglio starlo a sentire perché diceva sul serio. [...] Adesso cantava con un'estensione di tre o quattro ottave, roba da farti spingere la macchina giù per la scarpata e non pensarci più. Cantava come un professionista del crimine. 



La storia è nota, ma si racconta lo stesso volentieri. Nella primavera del 1988, George Harrison è improvvisamente tornato alla ribalta. Il suo nuovo disco, Cloud Nine, prodotto da Jeff Lynne (chi?), è andato al numero uno negli USA, soprattutto grazie alla cover di Got My Mind Set On You, un pezzo che cura la nostalgia per i Beatles mediante robuste iniezioni di cose persino precedenti ai Beatles. Nel primo videoclip, Harrison e Lynne suonano tra gli ingranaggi di un videojukebox a manovella: i loro anni Cinquanta ormai sono un'idea depurata di ogni nostalgia, un giocattolo per bambini che non sanno chi è Elvis ma a quel ritmo muoveranno i piedi comunque. Numero 1 negli USA. La Warner è entusiasta e vuole estrarre un altro 12 pollici, ma serve un riempitivo per il lato B. Harrison è in California e sa che anche Lynne è nei paraggi, così lo chiama: dobbiamo incidere un pezzo al volo, tu adesso cosa stai facendo? Lynne ormai è tutto preso dal rock'n'roll, sta producendo il nuovo disco di Roy Orbison, eccentrica leggenda vivente anche se non vende un disco da anni. Roy Orbison! Wow! invita anche lui. Potremmo registrare a Malibu da Bob Dylan, lui ha quello studio in garage che di sicuro non sta usando nessuno. Il problema è che non ho chitarre con me, l'ho lasciata a casa di Tom Petty l'altra sera, beh, ma invito pure lui. Due giorni dopo i Traveling Wilburys sono appena nati e hanno appena registrato il loro più grande successo, Handle With Care, che oggi è una curiosità ma lanciò il 33 giri oltre i tre dischi di platino. Dylan tre dischi di platino non li vedeva dal 1971.

You can sit around and wait for the phone to ring (End of the Line)
Waiting for someone to tell you everything (End of the Line)
Sit around and wonder what tomorrow will bring (End of the Line)
Maybe a diamond ring?

Questo però lo avremmo scoperto in seguito. All'inizio c'era soltanto un video, in cui George Harrison intonava una di quelle canzoni alla George Harrison: semplici, meditate, disarmanti. La stessa vena serena e irresistibile di Here Comes the Sun, While My Guitar, Sweet Lord. Va avanti per otto versi, e se tutta la canzone fosse soltanto la ripetizione di quegli otto versi, avrebbe già un suo senso. Ma subito dopo entra Roy Orbison, che nel 1988 senz'altro non conoscevo. Il video mi forniva degli indizi: un profugo dagli anni Cinquanta, un sosia di Elvis sopravvissuto al suo personaggio? Gli basta aprire la bocca per trasformare una melodia tardobeatlesiana in qualcosa di completamente diverso, ha una voce cromata come una Triumph, si sente nell'aria un vago sentore di giacca di pelle, hamburger e frullato alla fragola. Sono passati trenta secondi ed è già una canzone molto strana, un patchwork come ne incidevano i Beatles verso la fine, giusto vent'anni prima - ma ecco che entrano Dylan e Petty, insieme. Petty segue la sua guida, il suo mentore, e Dylan... cosa vuoi che faccia Dylan? Dylan stecca.



Everybody's
got somebody
to leeeeeeeeeeeean on

Unghie sulla lavagna, la specialità della casa. Sono tra amici, si divertono, che può fare Dylan in queste situazioni se non trovare l'unica nota dissonante? Petty invece no: lo segue eppure non stecca, come fa? Anni di allenamento, probabilmente.

All'inizio pensavo di non farlo, un pezzo sui Traveling Wilburys. In fondo fu un'avventura estemporanea, una festicciola protratta per dieci giorni (ma quanti buoni dischi Dylan li ha registrati anche in meno tempo?) Magari avrei aggiunto da qualche parte un postcriptum: ah, nel 1988 ha anche inciso qualche canzone tra amici e ci ha guadagnato più che in cinque anni di dischi e concerti. Poi mi sono ricordato che c'era un sacco di cose da raccontare. Di certi album non sai veramente cosa dire, ma non è il caso di quelli dei Traveling Wilburys. Sono dischi interessanti. Avanzi di canzoni montati assieme in fretta, per la gioia del musicologo dilettante. Handle With Care è l'esempio migliore: gran parte del divertimento consiste nella facilità in cui puoi scomporre il prodotto in fattori primi. Qui c'è l'eccipiente Beatles, qui c'è la base rockabilly, qui c'è la guarnizione: Dylan che stecca. È come smontare un lego. È facile. Ma ti fa sentire un ingegnere.

Di solito cominciava su un registro basso, appena udibile. Per un po' ci rimaneva, poi cominciava con i suoi stupefacenti istrionismi. La sua voce avrebbe dato la scossa a un cadavere. Si finiva con il mormorare a se stessi: "Non ci posso credere". Le sue erano canzoni dentro canzoni. Passavano dalla tonalità maggiore alla minore senza nessuna logica. Orbison era terribilmente serio, non c'era niente di adolescenziale in quello che faceva. Alla radio non c'era nessuno come lui. Io ascoltavo e aspettavo un'altra canzone, ma a paragone di Roy il resto dei programmi veniva dritto dalle terre della noia, roba flaccida, senza spina dorsale, fatta per chi non aveva un cervello. 



Tra i tributi più sorprendenti che Dylan offre in Chronicles, c'è senz'altro quello a Roy Orbison. Sul serio, chi l'avrebbe detto che il giovane Dylan lo apprezzasse così tanto? Non potrebbe essere uno di quei ricordi che si aggiustano a posteriori? Apparentemente in Orbison c'era tutto quello che Dylan non aveva e non aveva mai dato l'impressione di voler cercare: tanto per cominciare la voce impostata ed estesa su quattro ottave. Un'attitudine melodrammatica che negli anni Cinquanta aveva contagiato i rockers, ma proprio il successo di Beatles (e di Dylan) avrebbe estromesso dalle classifiche. E una vena barocca nella costruzione delle canzoni, piccole sinfonie in cui strofe e ritornelli si intrecciavano in strutture molto più complesse del necessario. Tutto questo aveva reso Orbison un personaggio unico ai suoi tempi, ma anche un ingrediente ideale per il metodo di lavoro dei Wilburys: improvvisare dei riff e montarli assieme. Si potrebbe dire dei brani più collettivi dei Willburys quel che Dylan dice delle canzoni di Orbison: canzoni dentro canzoni, dalla tonalità maggiore alla minore senza nessuna logica - oppure una logica c'è, come in Handle With Care, ma Dylan non la capisce e la smonta senza neanche accorgersene (Dylan, ricordiamo, è il compositore che incise sei dischi prima di scoprire il middle-eight, e che in John Wesley Harding aveva abolito i ritornelli). Malgrado l'ammirazione (reciproca?), Dylan e Orbison non duettano mai. Sembrano veramente inconciliabili, l'acqua e l'olio. Nei brani in cui canta Orbison, Dylan quasi scompare. Nel brano più dylaniano del mazzo, Tweeter and the Monkey Man, Orbison scompare davvero, abbastanza misteriosamente (magari era in bagno mentre registravano, va' a sapere). Sono loro i due veri monumenti da maneggiare con cura: Harrison - che ha venduto più di entrambi messi insieme - è più duttile, la sua voce è iconica, ma non è un fossile vivente. Quella di Orbison lo era, e anche quella di Dylan, nel 1988, sembrava a un passo dal diventarlo.

Ama il tuo corpo sexy, la tua mente sporcacciona.
Ama quando lo stringi e lo afferri dal didietro.
Uuuuuh, baby, che bella cosa sei!
Voglio proprio presentarti a questa gang di amici miei...

Traveling Wilburys Vol. 1 è una serata con gli amici. Ci sono canzoni che hanno un senso soltanto mentre le canti in coro e dev'essere un coro maschile - un pezzo autocommiserante come Congratulations, se Dylan l'avesse inciso in Down in the Groove o Knock Out Loaded, magari con moglie e suocera in sottofondo, non si sarebbe potuto sopportare. Ma qui siamo al banco del bar, Dylan può lagnarsi quanto vuole, i fratelli W ascoltano, cantano il ritornello e versano da bere. Se invece è in vena di scherzare, finalmente ha dei compari che lo capiscono - se è vero che Dirty World nacque da una sua idea di "fare una cosa alla Prince". Ovviamente non saltò fuori una canzone di Prince, ma quelle poche strofe sguaiate sono assolutamente dylaniane: la disinvoltura inspiegabile con cui passa dalla terza alla prima persona singolare, e quella litote ("non c'è assolutamente niente di te che non gli piaccia") che è proprio il modo con cui si esprime con sé stesso - molti anni dopo, a un giornalista che gli chiedeva di Alicia Keys, avrebbe usato praticamente le stesse parole.

Maybe somewhere down the road aways (end of the line)
You'll think of me, wonder where I am these days (end of the line)
Maybe somewhere down the road when somebody plays (end of the line)
Purple haze?

"Wilburys" deriverebbe da un'espressione spesso usata
da Harrison e Lynne durante le sessioni:
We'll bury it in the mix, "questo lo seppelliremo nel missaggio".
La tavernetta dei Wilburys è un labirinto di specchi. Sembrano davvero tutti fratelli, come raccontavano - magari di madri diverse, ma in qualche strano modo si assomigliano più di quanto dovrebbero assomigliarsi i vecchi amici. C'è una lingua comune - un rock and roll ancestrale che era poi l'unica lingua che ormai Dylan riuscisse a parlare in Down in the Groove. Ci sono fazioni consolidate e imprevedibili alleanze trasversali. Da una parte il ramo inglese, il vecchio saggio George e il fratellino Lynne, cresciuto alla sua ombra: le intuizioni del maggiore le ha trasformate in trucchi di laboratorio. Dall'altra il ramo americano: il vecchio e bizzoso Bob, padrone di casa (però gli ospiti sono arrivati in una settimana in cui era di buon umore, scherzava con tutti e lasciava che gli smontassero le canzoni). Il fratellino Tom gli assomiglia, nella voce e nella fisionomia. Ma è cresciuto in anni diversi e forse ci si è ambientato meglio: a questo punto della storia vende più dischi del maggiore e ha una voce più sicura. Però si porta ancora in tour il fratellone, ormai è un portafortuna. Tra inglesi e americani ondeggia Roy, la scheggia impazzita. Non si sa bene da dove viene e soprattutto dov'è stato per tutti gli anni da Oh, Pretty Woman (1964) in poi. Davo per scontato che ci fossero state brutte storie di alcool o peggio - in fondo un tizio che perde la moglie in un incidente in moto, e mentre è in tour all'estero viene informato che la sua casa è bruciata con due figli dentro avrebbe avuto qualche motivo per lasciarsi andare. Ma semplicemente non è successo, Roy Orbison non si è mai ritirato dalle scene. Erano le scene che gli si erano progressivamente ritirate sotto i piedi: dai palazzetti ai teatri di provincia alle sagre di paese. Eppure non aveva mai smesso di cantare e incidere. A un certo punto aveva dovuto registrare da capo i suoi vecchi successi perché l'etichetta che possedeva i master era in bancarotta e minacciava di distruggerli. Ogni tanto qualche superstar riscopriva una sua canzone e il conto in banca ne traeva un subitaneo giovamento - qualche anno prima i Van Halen avevano rifatto Pretty Woman, caccia via. E nel 1980 aveva fatto un tour trionfale in Bulgaria. Ma dal cono d'ombra c'era uscito grazie al cinema: David Lynch aveva abbinato In Dreams, senza il suo permesso, allo psicopatico interpretato da Dennis Hopper in Velluto Blu - come trovare una lametta in un hamburger. Era un modo un po' macabro di tornare alla ribalta, ma bisognava sfruttarlo, magari trovando un produttore che lo svecchiasse un po'. Jeff Lynne? Beh, se aveva funzionato con George Harrison...

Well it's all right, even if you're old and gray
Well it's all right, you still got something to say
Well it's all right, remember to live and let live
Well it's all right, the best you can do is forgive

I Wilburys, ripetiamo, sono Bob Dylan (Lucky Wilbury), George Harrison (Nelson Wilbury), Roy Orbison (Lefty Wilbury), Tom Petty (Charlie T. Wilbury) e Jeff Lynne (Otis). I primi due li conoscono tutti; Orbison è quello di Pretty Woman; di Tom Petty qualche canzone in radio passa ancora, ma Jeff Lynne insomma chi è? Non vale googlare (continua sul Post...)
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Dal vivo col Morto

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Dylan and the Dead (1989, ma registrato nel 1987!)
(Il disco precedente: Down in the Groove
Poi c'è una cosa che non è esattamente un disco di Bob Dylan).

Erano anni che il pubblico veniva regolarmente rifornito di mie registrazioni su disco, ma le mie esibizioni dal vivo non riuscivano mai a catturare lo spirito intimo delle canzoni. Non riuscivo a dar loro il giro giusto. Un certo senso di intimità, insieme a molte altre cose, era sparito. Per gli ascoltatori doveva essere stato come arrancare tra i campi abbandonati ed erba morta. [...] Sempre prolifico ma mai preciso, troppe distrazioni avevano trasformato il mio sentiero musicale in una giungla di viticci. Avevo seguito regole ben consolidate, e non avevano funzionato. Le finestre erano rimaste inchiodate per anni, coprendosi di ragnatele, e io ne avevo piena coscienza.  (Chronicles I).
Mentre stavamo lavorando a Dylan and the Dead, avemmo un'esperienza davvero strana. Andammo a casa sua a Malibu... dove lui aveva sette od otto di questi enormi cani, credo fossero mastini o roba del genere. Appena arrivati, i cani circondarono le mostre auto, e lui venne a prenderci e ci portò in questa enorme casa che sembrava un castello - sai, un grande caminetto, pareti in legno, un soffitto altissimo... Su un tavolo c'era uno stereo a cassette portatile, di quelli da trentanove dollari, nel quale ficcò la cassetta del disco, la fece andare e quindi disse: "Non pensate che la voce sia mixata un po' troppo alta in quel brano? Così ce ne restammo lì ad ascoltare quello che sarebbe diventato uno dei nostri dischi che suonava su quell'aggeggio da due soldi, e lui proseguì dicendo che, a suo parere, ci volevano un po' più di bassi". (Jerry Garcia, leader dei Grateful Dead, citato in Jokerman da Clinton Heylin (che non sopporta né lui né i Dead).
Tra tanti forse è il più ricco di citazioni dei musicisti, quelle che alla fine ci interessano davvero.
Tra tanti forse è il più ricco di citazioni dei musicisti, quelle che alla fine ci interessano davvero.
(È da un anno ormai che ascolto Dylan in macchina. Solo i bassi di Dylan and the Dead mi hanno fatto vibrare il cruscotto).
Non si esce vivi dagli anni Ottanta. Dopo aver mangiato la polvere, dopo esser sceso nella buca, c'è un'ultima tappa che Dylan deve percorrere, e noi con lui. Come Ulisse prima di noi, come Dante Alighieri, scenderemo nel mondo sotterraneo, incontreremo... la Morte!
Ah ah ah, capito la battuta? I "Grateful Dead" sono... la Morte!
"Il morto".
"Eh?"
"Dead vuol non vuol dire Morte, al massimo vuol dire il morto".
"Vabbe', dai, quasi".
Cercavo di trovare una soluzione ma sembrava che nessuna formula fosse disponibile. Forse, se avessi capito cosa stava per succedere, avrei aggiustato le cose finché ero in tempo, ma non mi ero accorto di niente. L'epoca in cui ogni mio concerto era occasione di grandi sommovimenti aveva subìto una brusca frenata, e ormai si era quasi fermata. Troppe volte mi ero dato da solo la zappa sui piedi. È bello sapere che sei una leggenda, e la gente è disposta a pagare per vederla, ma per la maggior parte della gente una volta è abbastanza. Bisogna saper onorare gli impegni, non sprecare il proprio tempo e quello degli altri. Non ero sparito dalla scena ma la strada si era ristretta, si era quasi interrotta e invece avrebbe dovuto essere ben larga. Non me ne ero ancora andato, stavo solo gironzolando giù all'ingresso. Dentro di me c'era una persona che io dovevo ritrovare. (Chronicles, I).
No, sul serio, pensavate che non saremmo scesi più in basso di Down in the Groove? Anch'io per un attimo - poi ho dato un'occhiata al calendario e ommioddio, c'è il live coi Grateful Dead. Ma è proprio il caso? Non si può far finta di niente? No eh? beh, almeno stavolta il titolo si scrive da solo.Verrà la Morte e... farà un disco di Dylan! Dylan suona a Morto! Ti va di suonare con Dylan? Manco morto! Forse non tutti sanno che i Grateful Dead scelsero quel loro nome così caratteristico, che attira tutti questi simpatici giochi di parole, aprendo due volte a caso un dizionario: il che dimostra che la scaramanzia non è proprio una caratteristica culturale degli americani (del resto è gente che da duecento anni tiene 13 strisce nella bandiera, respect. Gli europei la bandiera a 13 stelle non la vollero).
I Grateful Dead ai tempi del misfatto.
I Grateful Dead ai tempi del misfatto.
Insomma questi aprirono il dizionario a caso, uscì "morto" e dissero "ok, perché no?" E venticinque anni più tardi incontrarono un Dylan nel momento più difficile della sua carriera, gli propose di fare una mezza di concerti assieme e di nuovo dissero "ok, perché no?" Anche se da lì in poi le versioni non combaciano. Per Garcia - che aveva anche lui i suoi problemi di salute - si trattò di una cosa abbastanza estemporanea: Dylan era in giro dall'anno prima con gli Heartbreakers di Tom Petty; avevano anche fatto qualche data insieme ai Dead, che avevano già da anni pezzi di Dylan in scaletta. Era la cosa più naturale del mondo che ogni tanto Dylan uscisse coi Dead per i bis. L'estate successiva, prima di partire con gli Heartbreakers per le città del vasto mondo (Tel Aviv, Gerusalemme, Modena), Dylan fece una mezza dozzina di date in America con i soli Grateful in luglio, una specie di estensione dei bis del True Confession Tour. I biglietti si vendettero facilmente - i Dead erano una certezza, da questo punto di vista; le recensioni non furono cattive; l'unico problema è che come al solito Dylan non riusciva a fissarsi su una scaletta breve, e così a Garcia e alla sua squadra di onesti operai del rock da stadio impose di provare un centinaio di canzoni. Tanta fatica, per ritrovarsi poi a jammare senza fantasia sulle solite All Along the Watchtower e Knockin' on Heaven's Door ("like so many times before", canta nel ritornello un Dylan ormai esasperato). Fu una storia abbastanza breve e non così insoddisfacente, né per Dylan, né per i Grateful Dead, né per il pubblico. Il disco invece uscì solo nel 1989 ed è terribile.
Non riuscivo a superare gli ostacoli, tutto era a pezzi. Le mie stesse canzoni mi erano divenute estranee. Non avevo la capacità di toccare i loro nervi scoperti, non riuscivo a scendere sotto la loro superficie. Il mio momento era passato. Nel mio intimo, il mio canto mi risuonava vuoto e io non vedevo l'ora di ritirarmi e piegare le tende. 
Esistono dischi inutili (Dylan ne ha fatti) ed esistono dischi dannosi. Dylan and the Dead fu un danno inestimabile per la sua carriera. Pubblicato quando ormai quelle sei date erano un lontano e non irrinunciabile ricordo, non si può certo dire che contribuì a ripristinare la credibilità dell'autore. Ma soprattutto finì per andare comunque in classifica e togliere spazio alla promozione del vero disco che Dylan avrebbe fatto uscire da lì a poco, Oh Mercy: il disco che doveva rappresentare il rilancio e che vendette molto meno di quanto previsto. Il disastro lasciò il segno al punto che dopo Dylan and the Dead la Columbia non avrebbe più commercializzato live di Dylan - fatta eccezione per l'Unplugged della serie MTV e qualche oggetto di repertorio per collezionisti. Quasi si fosse davvero ritirato, come pensava seriamente di fare dopo il tour con gli Heartbreakers. Mentre sappiamo che è successo il contrario: già l'anno successivo, con una band ridotta all'osso, avrebbe fatto ottanta date: e da lì in poi non ha più smesso. Ma se dal 1988 in poi si è trasformato in un vero e proprio artista itinerante, senza più accusare quell'insofferenza cronica che lo aveva accompagnato sin dalle prime fasi della carriera, in un qualche modo lo deve ai Grateful Dead e a quel piccolo tour che fecero nel luglio 1986. Se fu il punto più basso della sua carriera, fu il momento in cui finalmente toccò il fondale e riuscì a trovare la forza per risalire. È più o meno quel che racconta in Chronicles, dopo aver tratteggiato in un paio di pagine di schiettezza disarmante l'autoritratto di un divo alla frutta, in crisi di mezza età. "Molte volte, prima di uno spettacolo, a un passo dal palco, mi sorprendevo a pensare che non stavo tenendo fede alla promessa che avevo fatto a me stesso. Che promessa fosse non lo ricordavo con precisione, ma sapevo che stava da qualche parte nel passato". Credo che valga anche per la gente comune: quel momento a metà dei quaranta in cui ci guardiamo allo specchio e non ci domandiamo più: "sto tenendo fede alla mia promessa?", ma piuttosto: "che promessa era?" (continua sul Post)
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Cominciando a scavare (negli anni Ottanta)

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Down in the Groove (1988, ma registrato l'anno prima)
(Il disco precedente: Knocked Out Loaded
Il disco successivo: Dylan and the Dead).

L'altra sera mi hanno mandato a prendere due cose al mcdonald e niente, mentre ero in coda ne ho approfittato per riascoltarmi uno dei dischi di Bob Dylan che frequento di meno, più per pregiudizio che per altro: Down in the Groove. Dopo un po' mi sono accorto di una cosa effettivamente incredibile: Dylan stava cantando Rank Strangers to Me, ovvero l'ultimo brano - per dire quanto può essere lenta la fila al McDrive di Carpi, è una vergogna, andate da Scazza. Mezz'ora di coda e poi ti chiedono di ripetere l'ordine - e una volta su due si scordano il dessert nell'happy meal - prima dell'alternanza scuola-lavoro queste cose non succedevano. In compenso, per la prima volta nella mia vita, ho ascoltato davvero il tanto bistrattato Down in the Groove. E ho scoperto, indovinate un po'? Che è un capolavoro?
groove: 1. scanalatura, incavo, solco, canale, traccia; (Mineralogia) galleria, pozzo.
2. (senso figurato) routine, tran-tran.
3. La parte centrale dell'area di strike nel baseball, dove è più facile colpire il lancio.
4. ritmo particolarmente marcato e piacevole (Dal Wikizionario).
Proprio così.


E la copertina, mi raccomando, sfuocata e sgranata.
Proprio quando tutti ormai lo consideravano finito, bollito, al tappeto, la reliquia pittoresca di un passato nemmeno così tanto interessante, Bob Dylan, il grande Bob Dylan, si risvegliò dal suo torpore, si fece un giro tra vecchi punk ormai abbastanza stagionati per suonare rockabilly, e incise il suo Capolavoro Sconosciuto degli Anni Ottanta. Quello di cui nessuno vi ha mai parlato. Il disco in cui misero le mani Sex Pistols, Clash, Eric Clapton, Sly e Robbie, Grateful Dead, una piccola enciclopedia del rock di ogni tempo, del rock senza tempo. No, nessuno vi ha mai detto che queste dieci brevi canzoni sono il vero Nuovo Testamento di Dylan, quello che ti fa rileggere tutti i testi precedenti in un modo diverso. Nessuno ha mai ammesso che il rock'n'roll finisce esattamente nel momento in cui Dylan consegna ai posteri le sue versioni di Let's Stick Together Sally Sue Brown, integrandole con le altrettanto definitive SilvioUgliest Girl in the World e  Had a Dream About You Baby. Ma se nessuno vi ha mai rivelato che le ballate più struggenti di Dylan sono proprio in questo misconosciuto album, che la sua Shenandoah è la migliore di tutte le Shenandoah possibili, che Rank Stranger to Me è un finale struggente ma è Death is Not the End la vera grande ultima canzone di Bob Dylan; se nessuno vi ha mai detto tutte queste cose un motivo c'è.

Ed è che sono un mucchio di fregnacce.

Down in the Groove non è il capolavoro sconosciuto di Dylan. Scusate. Ci ho provato. È che qualche estate fa, per gioco, avevo provato a stroncare tutti i dischi dei Beatles, e mi ero divertito molto. Più il disco era famoso e celebrato, più funzionava la stroncatura. Siccome lo stesso gioco con Dylan non avrebbe senso (tutti stroncano i dischi di Dylan - non sei un vero dylanita se non ne hai demoliti almeno un paio) mi sono chiesto se in questo caso la sfida non sarebbe stata il contrario: riuscire a scrivere di ogni ciofeca come se si trattasse di un capolavoro. Ma a quanto pare è molto più difficile - insomma, uno cosa può dire di Let's Stick Together fatta da Dylan? È l'arcinota Let's Stick Together, è suonata in modo professionale e... trascinante? Abbastanza trascinante? Nel nugolo delle versioni di Let's Stick Together si segnala perché è appunto cantata da Bob Dylan, con la sua voce molto peculiare e non troppo fuori forma. Niente di terribile. Se avessi le palette di Ballando con le Stelle alzerei un sei, magari un sette di incoraggiamento. Se nel 1988 l'avessi ascoltata per radio, magari in coda a Fisherman's Blues dei Waterboys o Talkin'bout a Revolution di Tracy Chapman, non avrei cambiato frequenza sbadigliando? Se ne avessi intravisto l'oscura e dimessa copertina in una vetrina di un negozio di dischi - e forse la vidi davvero - tra Lovesexy Justice for All It Takes a Nation of Millions e quel disco dei Pet Shop Boys col monoscopio ultracolorato, lo avrei preso in mano? Perché? Per far colpo su chi? Nemmeno sul nonno.


Questo a dire il vero potrebbe essere il grande merito di Down in the Groove: è il disco con cui Dylan, dopo qualche tentativo più o meno fruttuoso di aggiornarsi ai gusti del tempo (e a un metodo di lavoro in sala di incisione che era agli antipodi della sua sensibilità), si allontana definitivamente in direzione del passato. Oggi sembra l'equazione più scontata del mondo, Dylan=Passato. Già le ultime pagine dell'intervista nel booklet di Biograph sembravano lo sfogo di un vecchietto ai giardini: una volta le cose erano diverse, si registrava alla svelta e con più feeling, oggi è tutto prefabbricato ecc ecc ecc. (il Dylan che dichiarava queste cose, ricordiamo, aveva 30 in meno di quello di adesso). E però dopo la fase gospel Dylan ci aveva pure provato, a vivere negli anni Ottanta. Si era comprato quelle buffe giacche e aveva lavorato coi produttori sulla cresta dell'onda. Aveva persino tentato qualche timido approccio alla scena postpunk. Tutto questo, all'altezza di Down the Groove, sembra già dimenticato, almeno dopo la seconda traccia - uno dei brani più assurdi e imbarazzati mai registrati da Dylan, When Did You Leave Heaven, un vecchio blues che Dylan disseziona spietato e sventato come un bambino che fa a pezzi una lucertola: toglie la melodia, toglie il tempo, e lascia che musicisti e tecnici del suono raccattino i resti e provino a metterli assieme. When You Leave Heaven è l'ultimo rigurgito della fase Empire Burlesque: un episodio abbastanza casuale, perché a rammendare il tutto vengono scomodate una specie di synth e soprattutto QUELLA CAZZO DI BATTERIA ELETTRONICA che suona più assurda del solito, visto che Dylan non aveva quel tempo in mente mentre stava cantando (probabilmente non aveva in mente nessun tempo). (Sul serio, uno che fa posto a una canzone del genere su un suo disco ha evidentemente ancora grosse difficoltà a riascoltarsi). Se almeno il testo fosse profondo - ma no, è una serie di frasi d'aggancio che oggi ti costerebbero l'amicizia anche di una 50enne su facebook. "Perché hai lasciato il paradiso? Dove hai messo le ali?" e così via. Ma avete capito dove siamo? Stiamo parlando del brano più brutto di uno dei dischi più brutti di Dylan. Non viene voglia di ascoltarlo, anche solo per capire quanto in basso può scendere il nostro eroe?

Never forget.
Never forget
Il resto del disco non è così orribile - sì, Down in the Groove è deludente anche come disco brutto. In fondo quello che ci aveva tenuto sveglio mentre ascoltavamo i dischi gospel e poi quelli pop era l'incredulità - tutte le maschere che Dylan aveva tentato, così poco credibili che strappavano una risata o almeno un sorrisetto di commiserazione. Down the Groove rinuncia a tutti i travestimenti, tranne uno: il Chiodo. Diciamo che se i dischi brutti di Dylan fossero una famiglia, Down in the Groove sarebbe il ragazzino imbecille in giacca di pelle, nell'angolo della foto, che giocherella col coltello a serramanico finché non si affetta un polpastrello. Rammentate quanto sembrava già indifendibile Dylan, in giacca di pelle, nel video di Tight Connection to My Heart? In Down in the Groove non possiamo non immaginarlo nella stessa giacca, mentre roccheggia e rolleggia e non importa chi stia suonando con lui, davvero: che siano i Grateful Dead, che sia Steve Jones (ex chitarra dei Sex Pistols), Paul Simonon (ex basso dei Clash), Eric Clapton: non ha una grande importanza e non fa una vera differenza. Suonano tutti più o meno uguale, una specie di lingua franca del rock: ad esempio all'inizio di Ugliest Girl puoi sentire qualcuno che scimiotta Honky Tonk Women forse senza neanche accorgersene. Altrove la chitarra ha già quel riverbero tremolato vintage che di lì a pochi mesi Chris Isaak avrebbe reso insopportabile, e sul quale avrebbe puntato molto Daniel Lanois (continua sul Post)
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Giù al tappeto negli anni Ottanta

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Knocked Out Loaded (1986)
(Il disco precedente: Biograph.
Il disco successivo: Down in the Groove).
Il film andò male ai botteghini,
secondo gli esperti anche a causa
dei baffi di Gregory Peck.
"I tuoi baffi ci sono costati milioni",
gli avrebbe detto un produttore.
C'è un western che ho visto una volta, su un pistolero che attraversava il deserto. L'uomo era Gregory Peck, però coi baffi. Era il più bravo di tutti ma si era rotto i coglioni - a una certa età succede. Non ne poteva più delle sparatorie, non trovava più niente di eccitante nei duelli al sole, e soprattutto non poteva più soffrire il modo in cui ti fissano i più giovani - quel modo che hanno di sgranare gli occhi dalla sorpresa, poi subito di stringerli per metterti a fuoco, per assicurarsi che sei proprio lo stesso tizio ritratto sulla taglia - e intanto senza accorgersene hanno già la mano sulla fondina. Che supplizio, che rottura, i ragazzini che vogliono farti fuori per farsi un nome. Chissà se sono mai stato uno di loro.
Mi è venuta in mente questa cosa mentre ridavo un'occhiata a uno dei documenti più penosi che un dylanita possa reperire su Youtube - qualcuno avrà già indovinato. Mettiamola così: qual è l'evento più glorioso nella storia del rock degli anni Ottanta, quello che segna uno spartiacque che è ancora visibile da qui, oggi? Senza dubbio il Live Aid, proprio nel bel mezzo del decennio: estate 1985. È la fine ufficiale del cinismo punk e post-punk; l'apparizione abbastanza improvvisa di una nuova sensibilità più filantropica che politica. I nuovi eroi da palcoscenico non vogliono soltanto vendere dischi ed essere adorati dal pubblico pagante: vogliono essere buoni. Salvare il mondo. Proprio lo sporco mondo che fino a qualche anno fa andava bruciato, improvvisamente nel 1985 diventa cosa sacra e degna di essere salvata. Bob Geldof è il profeta, Bono il Messia, Freddy Mercury il ladrone pentito eccetera eccetera. Ma chi è che fino all'ultimo momento cercò di rovinare la festa? Senza cattiveria, ma con l'intuitiva ostinazione di chi sembra essere nato per mettere a disagio la gente alle cerimonie? Un aiutino: in fondo alla scaletta, nel set di Philadelphia, c'era il grande Bob Dylan.
Anche se forse non se ne rendeva conto. Non era il solo: il ive Aid esplose in maniera abbastanza imprevista. Fino a pochi giorni prima ne parlavano soltanto gli addetti ai lavori e il giorno dopo sui quotidiani era diventato lo show del secolo. Dylan arrivò sul set senza una band, con una vaghissima idea di cosa fosse stato organizzato e perché, in uno dei periodi più confusi della sua carriera; ma invece di fare la cosa più semplice (portarsi una chitarra, un'armonica, suonare la fottuta Blowing in the Wind e buonanotte - magari con Peter, Paul e Mary che si erano riuniti per l'occasione) decise di accollarsi Keith Richards e Ron Wood, in un momento in cui i Rolling Stones sembravano separati in casa: Mick Jagger aveva appena duettato con Tina Turner sullo stesso palco. L'approccio è quello di tre amici che dopo l'ammazzacaffè si fanno prestare le chitarre e strimpellano la prima cosa che gli viene in mente. Il problema è che i tre amici sono Bob-Coscienza-della-Sua-Generazione e i due chitarristi della band più famosa del mondo: a presentarli c'è Jack Nicholson e a guardarli strimpellare il mondo intero. Insomma forse presero la cosa un po' sottogamba. A causa del peso dei loro nomi erano stati inseriti in scaletta verso la fine: non solo il pubblico era esausto, ma dietro le quinte c'era già chi brindava e festeggiava (oppure il coro di USA For Africa che stava facendo le prove: ognuno la racconta diversa e ritiene che gli ubriachi fossero gli altri). Wood e Richards sono abituati a capirsi al volo, ma dovrebbero prima capire cosa vuol fare Dylan, che sta in mezzo, non riesce a sentirsi in spia e rompe addirittura una corda - al che Wood gli presta la sua chitarra e in attesa del rimpiazzo resta sul palco a gesticolare come un ragazzino. Dietro c'è un gran baccano. Blowing in the Wind stavolta è veramente fottuta, chitarre scordate, uno strazio.
 
Gregory Peck, negli anni di KO Loaded, faceva Lincoln nella serie TV "Il buio e il grigio" (e com'è ovvio ricordava terribilmente il capitano Achab).

Dicevo che in quel film Gregory Peck fa il pistolero che non ne può più - attraversa il deserto perché dall'altra parte c'è una donna che amava, addirittura un figlio che non ha mai visto. Tutto quello che vorrebbe è sistemarsi in qualche fattoria. Ma i ragazzini, i ragazzini non lo lasciano in pace. Lo sfidano, si fanno ammazzare, e a quel punto naturalmente salta fuori qualche altro ragazzino che deve vendicare l'amico, il fratello, il cognato: non finisce mai.
La breve apparizione di Dylan al Live Aid si potrebbe anche liquidare così: credeva di essere a una festicciola, si fidava di amici in realtà confusi quasi quanto lui, nessuno gli aveva spiegato che era la vedette finale di un Grande Evento Storico. Insomma un equivoco spiacevole. E però la scaletta suggerisce che non fosse del tutto inconsapevole. Come al solito la cambiò fino all'ultimo momento. Ron Wood racconta che mentre saliva sul palcoscenico lo mandò nel panico proponendo all'improvviso di intonare All I Really Want to Do: una filastrocca che forse i due Stones si erano dimenticati, ma che per Dylan vent'anni prima aveva rappresentato il primo dei tanti disimpegni: quello dal movimento politico. Al Live Aid alla fine Dylan non cantò "voglio solo essere vostro amico", ma la storia di Hollis Brown, il contadino del Midwest che stermina la famiglia e si suicida per la fame. Una scelta non banale e apparentemente appropriata a una sera in cui si raccoglievano fondi per l'Etiopia, senonché al termine Dylan buttò lì che magari un paio di milioni dell'incasso si sarebbero potuti stornare "per pagare l'ipoteca su alcune fattorie che i contadini di qui devono alle banche". Tirava aria di crisi anche nel Midwest rurale: il pubblico della mondovisione magari non ci aveva fatto caso, Dylan sì. Qualche mese dopo Neil Young organizzò addirittura un Farm Aid, che molti considerano direttamente ispirato dalle parole di Dylan: quest'ultimo in quell'occasione si preparò per bene con gli Heartbreakers e fece uno show di ottimo livello. Invece, nella sera in cui si teneva a battesimo il Rock Buono, Dylan arrivò ubriaco come una vecchia rockstar (con una scorta di vecchie rockstar altrettanto ubriache); non urlò "America First!" ma ci andò vicino, e prima di massacrare Blowin' in the Wind inflisse ai due Stones e al pubblico un altro brano del passato remoto, When the Ship Comes In - vi ricordate in quale altra occasione, a dispetto di ogni ragionevolezza, aveva cercato di rovinare una festa con la stessa canzone? La marcia di Washington, esatto. E ora non c'era più Joan Baez a metterci una pezza, ma Ron Wood a fare air guitar. Magari è solo una coincidenza. Ma dopo Washington l'aveva cantata dal vivo soltanto altre due volte; non la tentava da vent'anni e dopo il Live Aid l'avrebbe accantonata per sempre. È un pezzo antipatizzante, che dice che la Salvezza arriva all'improvviso e non fa prigionieri: non è un pranzo di gala né un concertone benefico. Chi ne è degno sarà salvato, gli altri affogheranno. Amen.
E così Gregory Peck attraversava il deserto e arrivava in questa città di compensato - sai quelle cittadine western montate negli studios - e ovviamente la sua vecchia fiamma non voleva parlargli, e il figlio non sapeva chi fosse: e qualcuno aveva un conto in sospeso, o voleva soltanto farsi un nome. Ma forse sarebbe meglio che cominciassi a parlare di Knocked Out Loaded, il disco che Dylan pubblicò un anno dopo il Live Aid, ma che aveva già iniziato a registrare un anno prima, sempre un po' qua e un po' là senza un'idea chiara. Ai tempi pensavo che "knocked out loaded" significasse "carico di knocked out", come un pugile pronto a mandare al tappeto l'avversario: insomma un bel titolo combattivo, ecco un disco che se non state attenti vi prende a pugni! Invece significa l'esatto contrario: allude a un KO ricevuto, si può tradurre "suonato", "al tappeto". Forse non avevo mai fatto caso che verso la fine Dylan canta proprio "I was knocked out and loaded in the naked night". È che forse non ci ero mai arrivato, verso la fine. E dire che è un disco abbastanza breve. È il suo miglior pregio. Stiamo del resto parlando di un disco costruito attorno agli scarti di Empire Burlesque, le canzoni che non era riuscito a terminare in tempo per la scadenza del 1985, integrate con altri esperimenti per lo più infruttuosi del 1986. Siamo insomma al raschio del barile: qualcosa di buono ancora vien su, ma che fatica.
E infatti Gregory Peck, quando alla fine riesce a parlare alla sua ex, cala la maschera e le dice che ha finito con le pistole e i duelli e tutto quanto, e che vuole soltanto sistemarsi. Lei ovviamente è un po' scettica; magari non è la prima volta che lo sente dire: poi nemmeno nei vecchi western in bianco e nero funzionava così, che se dopo dieci anni il pistolero fa un fischio, l'ex ragazza madre è già pronta a perdonargli tutto. Lui se ne rende perfettamente conto, e chiede un anno di tempo. Se tra un anno tornassi, e avessi rigato dritto tutto il tempo, tu me la daresti una possibilità? Capisco che non puoi darmela adesso, e nemmeno promettermela, ma prometti almeno che ci penserai? Messa in questi termini è una proposta che si può dignitosamente accettare - specie se te la propone un pur baffuto Gregory Peck...
 
Un altro relativo pregio di KO Loaded è la disarmante sincerità. Infidels e Empire erano due dischi carichi di ambizioni, in parte giustificate in parte no. C'erano tentativi di suonare professionale, di suonare sofisticato, di suonare moderno. KO suona soltanto... suonato. È il disco di un tizio che di mestiere vende dischi e fa concerti, e prima di cominciare la stagione dei concerti deve fare uscire un disco: che sia ispirato o no. Voi andate tutti i giorni al lavoro ispirati? Dylan nel 1985/86 quasi mai. Il che non significa che non ci andasse: se uno mette in fila tutte le collaborazioni e le incisioni del periodo scopre che non stava fermo un attimo. Gli USA For Africa, il Live Aid, il Farm Aid, gli Artists United Against Apartheid fondati da "Little" Steven Van Zandt e prodotti da Arthur Baker (Dylan per la verità canta soltanto due versi, ma è stato carino da parte sua partecipare. C'era Miles Davis, i Run DMC, e nel disco c'era anche il primo vero pezzo blues degli U2, Silver and Gold, ma cantato da Bono con due amici d'eccezione tirati a lucido: Keith Richards e Ron Wood!) E poi sessioni con Dave Stewart degli Eurythmics, sessioni con gli Heartbreakers, con Al Kooper e T-Bone Burnett, sessioni con chiunque. A Cameron Crowe che lo intervistava per il libretto di Biograph aveva rivelato, con un certo sprezzo del pericolo, che stava accarezzando l'idea di pubblicare un disco di cover. È un'idea che lo aveva già portato al disastro nel 1970, ma forse chissà, col tempo aveva imparato a concentrarsi anche nel compito di interprete da studio, no?
No (continua sul Post).
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Biografami questo

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Biograph (1985: cofanetto con materiale registrato dal 1962 al 1981).

(Il disco precedente: Empire Burlesque.
Il disco successivo: Knocked Out Loaded).

Nel mezzo della notte ti sveglia una cattiva notizia. Qualcuno (al telefono?) ti sta dicendo che Percy, il tuo amico Percy, è in grossi guai. Novantanove anni di carcere! Anche se è notte fonda, scrivi al giudice che sarai al tribunale appena possibile. Il giorno dopo eccoti alla sbarra: cos'è successo? Un incidente, sulla statale, quattro morti, lui era al volante. Omicidio stradale. Va bene, ma novantanove anni? Percy, lo conosco meglio di me stesso, non farebbe male a una mosca! Ma ci sono i testimoni. Posso almeno ricorrere in appello? Troppo tardi. Se ne vada per favore, la seduta è tolta.


Di tante canzoni che ha scritto Dylan, la cosa più simile a un incubo l'ha registrata nel 1964. Si chiama Percy's Song e non è così strano che non l'abbia inclusa in The Times They Are A-changin'. Non solo per la durata - sette interminabili minuti. Che ci avrebbe fatto uno schizzo kafkiano in un album di canzoni d'amore e di protesta? Ma gli incubi invecchiano meglio dei proclami e dei madrigali - in effetti gli incubi non invecchiano, al limite si nascondono nelle fessure; e quando Dylan da qualche parte in un cassetto la ritrovò, Percy's Song era angosciosa e irrisolta come il primo giorno. Forse ai tempi di The Times gli sembrava la sua canzone più antica, più vicina al mistero delle antiche ballate irlandesi da cui mutua la melodia. Nel 1985, quando uscì su Biograph, era una mera curiosità che serviva a rendere più speziato il più grosso Greatest Hits mai pubblicato. A quel punto Percy era già uscita dai cassetti grazie ai Fairport Convention, che ne avevano stemperato l'angoscia con la melodia. Oggi Percy è una delle canzoni più rappresentative del catalogo dylaniano. Potrebbe averla registrata nel 1964, come nel 1994, come ieri. Gli incubi non invecchiano.

- Lay Lady Lay (1969) - Baby, Let Me Follow You Down (1962) - If Not for You (1970) - I'll Be Your Baby Tonight (1968) - I'll Keep It with Mine (1964)Il primo lato del primo disco potrebbe essere una storia d'amore. Lay Lady Lay è un modo molto cinematografico di cominciare, già sul materasso... poi con Baby Let Me Follow comincia il flashback. 

D.W. Griffith quando lavorava alla Biograph.
In inglese, Biograph non vuol dire biografia - sì, anch'io c'ero cascato, e invece no. Per il dizionario Webster on line "biograph" è soltanto un verbo: "biografare". Io biografo, tu biografi, il tale è biografato. Ma all'inizio del Novecento c'era anche il sostantivo, ed era una specie di sinonimo per "cinematografo". L'American Mutoscope and Biograph Company, fondata nel 1895, realizzò più di 3000 corti e 15 lungometraggi, prima di fondersi con la concorrente Edison. È la compagnia nella quale si fece le ossa D.W. Griffith.

Se potessimo mettere il primo disco di Biograph sul piatto, ritroveremmo il Dylan del 1969, che mentre cerca di rendere credibile una svolta country, azzecca un'atmosfera inedita con un brano fatto di slide guitar, bongo e campanaccio. Da lì a poco siamo nel 1962, sui verdi pascoli dell'università di Harvard, Dylan si sta facendo insegnare da Eric Von Schmidt un nuovo giro di accordi. Siamo nel 1970, è passato a salutarlo George Harrison per confermargli che i Beatles si sono davvero sciolti per sempre e per lavorare insieme a una canzone. Siamo nel 1968, la polizia irrompe nelle università e spara agli studenti che non vogliono partire per il Vietnam, ma Dylan vuole soltanto cantare languido I'll Be Your Baby Tonight. Siamo nel 1964, Dylan incontra Nico e le regala I'll Keep It with Mine. Siamo in qualsiasi posto, in qualsiasi momento.
- Mixed-Up Confusion (1962) - Tombstone Blues (1965) - The Groom's Still Waiting at the Altar (1981) - Most Likely You Go Your Way (Live, 1974) - Like a Rolling Stone (1965) - Jet Pilot (1965). È decisamente un lato blues.

NicoChelseaGirlMixed-Up Confusion è in assoluto il primo singolo pubblicato da Dylan, nel dicembre del 1962, e a sorpresa è un rock'n'roll. Una specie. Un esperimento. Non funzionò e dopo poco la Columbia lo ritirò dal commercio - o forse non si diede la pena di commerciarlo troppo. Lo stesso Dylan ha ricordi molto vaghi di tutta la faccenda: un mattino gli telefonano di venire alla Columbia a incidere un singolo con una band. Lui non ha un pezzo pronto e lo scrive sul taxi. Il suo primo disco acustico aveva venduto qualche migliaio di copie, la Columbia non sapeva ancora esattamente cosa fare di lui. Si saranno detti: proviamo il rockabilly (per accorgersi, magari a master già incisi, che in effetti il tizio aveva difficoltà ad andare a tempo con la band). Jet Pilot nel 1985 aveva vent'anni esatti e doveva proprio sembrare un frammento estratto da un cassetto per tappare un buco. Una singola strofa di uno di quei rock-blues torrenziali che nel 1965 gli venivano facili come respirare: l'istantanea di un donnone che fa impazzire tutti i ragazzi del quartiere, tutti piloti da jet che la puntano come un cacciabombardiere - ma se potessero avvicinarsi un po' alla carlinga si accorgerebbero che "non è una donna, è un uomo"! Oggi è rilevante in quanto primo rock in assoluto su un travestito (in anticipo su Lola dei Kinks, che però ebbero il fegato di pubblicarla): veramente troppo poco per assegnare a Dylan una qualche sensibilità queer.

- The Times They Are a-Changin' (1964) - Blowin' in the Wind (1963) - Masters of War (1963) - The Lonesome Death of Hattie Carroll (1964) - Percy's Song (1964). (Se almeno Biograph fosse un caos cronologico totale, uno si metterebbe il cuore in pace: avrà mescolato le canzoni come carte, ok. E invece ci sono intere sequenze che un senso ce l'hanno, ad esempio la seconda facciata del primo disco è tutta di grandi cavalli di battaglia acustici del '63-'64. Come quando la funzione shuffle di uno smartphone sembra volerti dire qualcosa).

chronicles ICi sono vari modi di scrivere una biografia. Il più noioso è senz'altro partire dall'inizio, come David Copperfield: "Vengo al mondo", e proseguire nell'unica direzione consentita. Esistono numerose biografie di Dylan in commercio: cominciano tutte con lui che viene al mondo a Duluth, Minnesota. Anche questa cosa che sto scrivendo alla fine sembrerà una biografia, almeno dal disco più antico a quello appena uscito. E poi esiste l'autobiografia che Dylan ha iniziato a scrivere e che non completerà mai (tutte le autobiografie sono incomplete, se uno ci riflette). Si chiama Chronicles I e comincia con lui che arriva negli studi della Witmark nel 1961. Indugia un po' nei localini del Village finché a un certo punto volti la pagina ed è una rockstar in crisi d'identità, nel 1970: orripilato dalla scena del festival di Woodstock e spaventato dagli hippie che gli entrano in casa. Volti un'altra pagina e sei nel 1986, Dylan si è fatto male a una mano e considera la possibilità di non suonare mai più dal vivo, di non scrivere mai più una canzone. Un'altra pagina ed è di nuovo nei localini del Village. Che senso ha? Nessuno, Dylan semplicemente non è David Copperfield. Ha buttato giù le prime cose che gli venivano in mente finché non ha messo assieme abbastanza pagine. Proprio come quando incide i dischi, già. E non ha messo i capitoli in ordine: non lo ha mai fatto, nemmeno nei suoi Greatest Hits, uno più caotico dell'altro. Perché per Bob Dylan evidentemente il tempo non esiste.

- Lay Down Your Weary Tune (1963) - Subterranean Homesick Blues (1964) - I Don't Believe You (1966) - Visions of Johanna (Live, 1966) - Every Grain of Sand (1981). (Per esempio: secondo me questa facciata non ha nessun senso. Oppure: L'Eden primigenio, la caduta negli inferi sotterranei, e la redenzione! Ma immagino che se pescassi cinque canzoni di Dylan a caso potrei individuare una storia anche più credibile).

Certe canzoni riescono a stupirti anche al millesimo ascolto (continua sul Post).
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Sintetico negli anni Ottanta

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Empire Burlesque (1985)

(Il disco precedente: Real Live
Il disco successivo: Biograph)

ABBASSATE-QUELLA-CAZZO-DI-BATTERIA-ELETTRONICA.

***

Where the charity is supposed to cover up a multitude of sins... Nel gennaio del 1985, mentre stava già disordinatamente mettendo da parte incisioni per il nuovo album, Dylan atterrò nella base segreta californiana in cui gli USA for Africa stavano lavorando al singolo benefico We Are the World. Il video in cui cerca di incidere la sua parte è un documento toccante. Dylan è circondato da musicisti immensi – a spiegargli lo spartito c'è Lionel Richie (coautore del brano con Michael Jackson); ad accompagnarlo al piano c'è appena appena Stevie Wonder. Mentre cerca di non steccare troppo sull'attacco, come può Dylan non pensare: che ci faccio qui? Chi voglio prendere in giro? La tonalità è troppo alta per me, io non posso cantare a questi livelli, io sono solo Bob Dylan. Quincy Jones lo incoraggia: vai, questa era ottima. “Se lo dici tu”... QJ probabilmente aveva messo a fuoco il problema: Dylan avrebbe potuto anche cantare meglio di così, ma non sarebbe sembrato più Dylan. Dylan più che un cantante è un funambolo: la gente non vuole sentirlo cantare bene, la gente vuole vederlo oscillare sulle corde non solo vocali; la gente vuole e non vuole vederlo precipitare.



***

La prima cosa che pensi quando tiri fuori Empire Burlesque è: che razza di giacca, che razza di anni.
La prima cosa che senti quando premi play: un coretto. Sono tornati i coretti. Usciremo mai da questi anni Ottanta?
Dopodiché parte quel CAZZO DI BATTERIA ELETTRONICA.

***

Sono il Dritto di Miami, Mister Bob.
I saw thousands who could have overcome the darkness... Dopo la fine del mondo (sarebbbe più preciso dire durante la fine del mondo), una parte della coscienza dell'umanità ha trovato rifugio in un mini-universo artificiale contenuto nella memoria virtuale di un supercomputer, dove il tempo scorre molto più rapidamente (milioni di anni virtuali ogni secondo terrestre). Gli umani-bot che vivono in questo universo sono copie virtuali di persone che erano vive nel momento in cui la notte è venuta cadendo sulla Terra. Per non impazzire al pensiero, nei milioni di anni virtuali che restano a loro disposizione hanno deciso di fingere di essere umani reali, nel mondo reale. In particolare hanno scelto di rivivere il secolo 1950-2050, un periodo storico molto drammatico e interessante ma senza troppe guerre mondiali, e soprattutto facile da ricostruire, grazie alla quantità di materiale anche audiovisivo nelle banche dati – anche se qualcosa si era perso nei backup, per esempio un intero disco del celebre Bob Dylan, un disco per fortuna non imperdibile, inciso proprio a metà degli anni Ottanta.

Gli studiosi-bot lo hanno ricostruito in base a una serie di congetture, nello stesso modo in cui si ricostruisce un tempio greco a partire da un capitello: hanno preso qualche scarto dai due dischi precedenti e dai due successivi e lo hanno rimontato tenendo conto del sound che andava in quel momento storico (quella CAZZO DI BATTERIA ELETTRONICA). Hanno anche creato una copertina, ottenuta sovrapponendo a un'immagine di Dylan nel 1985 un outfit che poteva andare di moda in quel periodo – la giacca l'hanno presa da un telefilm. Il risultato è stato molto criticato dagli altri studiosi-bot. “Bob Dylan non è una funzione matematica”, sostengono. “Non è che puoi fissare sulla retta x lo Zeitgeist, sulla retta y la sua vita personale, e pensare di incontrarlo all'incrocio delle coordinate”: un'obiezione tutto sommato sensata, anche se è buffo che provenga da dei bot.



Altri hanno obiettato che sì, probabilmente il vero Empire Burlesque era molto diverso – ma non necessariamente migliore; che immaginare come avrebbe potuto suonare un disco di Dylan a metà anni Ottanta è un esercizio utile a capire la nostra idea di Dylan e degli anni Ottanta, ma che più di tanto non cambia la traiettoria complessiva: se fosse stato un disco davvero importante avrebbe lasciato più segni di sé. Invece doveva essere uno di quei dischi che nessuno ascoltava più di tre volte – tranne i dylaniti all'ultimo stadio, alla ricerca disperata di qualche motivo per sostenere che non fosse un brutto disco, dai, che fosse sottovalutato. Ma anche solo per sottovalutarlo bisognava ascoltarlo.

***

Never gonna be the same again. Riconosciamoglielo: tra tanti difetti, Dylan non ha mai avuto quello della prevedibilità. Anche Empire Burlesque (quello vero?) a suo modo è una sorpresa. Già dalla copertina, con quella grafica. E poi gli arrangiamenti, con QUELLA CAZZO DI BATTERIA ELETTRONICA. Eppure in un qualche modo Empire non è imprevedibile come dovrebbe essere. Sembra davvero simile al risultato di un esperimento mentale: che disco avrebbe potuto realizzare BD se nel 1985 avesse ceduto di schianto alle tendenze del momento? Vediamo. Per quanto riguarda i testi, suggerirei di ripartire da Infidels togliendo quello sciovinismo che ai fan non era andato giù (a questo punto della sua carriera Dylan non può permettersi di perdere quello zoccolo duro di fan che gli è rimasto); ridurre di un 60% le reminiscenze bibliche, riempire i buchi con qualche battuta da film di Bogart, dopotutto l'immaginario di Dylan è quello di vostro padre se vostro padre aveva 40 anni negli anni '80... aumentare un po' il tasso di Apocalisse, e spolverare di zucchero sentimentale, ché alle porte c'è un secondo matrimonio. Il sound? Raccogliere un po' del r'n'b messo da parte ai tempi di Shot of Love, aggiungere qualche spruzzo di Sly e Robbie che erano ancora nei dintorni, anche Mick Taylor perché no (Knopfler no perché sai che hanno litigato), non lesinare coi synth e puntellare il tutto con QUELLA CAZZO DI BATTERIA ELETTRONICA che il quasi-produttore, Arthur Baker, prende in prestito dai New Order.



(Per quanto possa sembrare irresponsabile l'idea di affidare il suono di un disco di Bob Dylan al produttore dei New Order, beh, sono i tipici esperimenti che si facevano in quel periodo. I Talking Heads che vanno a cercare Brian Eno, i Ramones che si accollano Phil Spector, David Bowie con Nile Rodgers, era un periodo in cui rimescolare le carte era quasi obbligatorio e molto spesso funzionava. Indovinate qual è l'unico grande artista con cui non ha davvero funzionato).


***

I'm gonna get my coat, I feel the breath of a storm. Persino la giacca, quella giacca ha un senso. Immagina Bob Dylan, quarantenne negli anni Ottanta, che decide di aggiornarsi al gusto dei tempi: che giacca si sarebbe messo indosso, almeno per il tempo di un videoclip e di una posa? Qualcosa che avrebbe potuto indossare il protagonista di un serial che Bob Dylan avrebbe potuto seguire in tv nel 1985 – capisci che non può essere che Miami Vice. Nel 1985 tutti i duri della musica volevano recitare in Miami. Frank Zappa fa un cameo. Little Richard! Miles Davis! Dylan probabilmente era troppo timido per fare una telefonata, figurati se Michael Mann non gli avrebbe trovato un ruolo da boss taciturno. O da pappa scorbutico. O da ispettore della narco – marcissimo ovviamente.




***

Primo timido tentativo di coreografia.
If you want somebody you can trust, trust yourself. C'è già capitato di notare come i dischi migliori di Dylan siano stati prodotti in due tempi. Il primo, apparentemente infruttuoso, è quello della sperimentazione: una fase in cui Dylan prova tante cose con tanti musicisti diversi e poi magari butta via tutto. Poi c'è il secondo tempo, quello in cui mette a fuoco quello che vuole fare, magari licenzia i musicisti e ne assume degli altri, scrive un paio di capolavori e incide il tutto in pochi giorni o poche ore. Questo secondo tempo, Dylan non riesce sempre a trovarlo. Ma Empire forse è il primo caso in cui ci rinuncia proprio. L'inizio di una fase (già preannunciata da Shot of Love) in cui i dischi di Dylan non saranno più oggetti dotati di un'identità, ma raccolte più o meno eterogenee di materiale inciso qua e là durante l'anno. L'elenco di session e di musicisti convocati dà il mal di mare. Ci sono un paio di Rolling Stones (in momenti diversi), un paio di elementi della E Street Band che accompagnavano i dischi migliori di Bruce Springsteen, mentre con Dylan non riusciranno a venire a capo di When the Night Comes Falling. Ci sono Sly e Robbie, un po' dei Lone Justice, c'è il caro vecchio Al Kooper ma suona solo la chitarra in un pezzo c'è pure Dave Stewart degli Eurythmics che passava di lì e non ha suonato niente: in compenso ha girato il video di When the Night Comes Falling e si è imbucato sul set come chitarrista – perché no, dopotutto? Non potrebbe averlo prodotto lui, Empire Burlesque: non ha la stessa piaciona oscillazione tra syinth e chitarre distorte dei dischi più venduti degli Eurythmics? Prendi Missionary Man: ci sono tutti gli ingredienti di Empire. Il rocchenroll, la corista scatenata, la CAZZO DI BATTERIA SINTETICA, perfino l'armonica. Salvo che è tutto miscelato a meraviglia, mentre Empire come dire, Empire sembra l'intruglio che ti versa un vecchio zio barman a cui sei affezionato, ma sai che ti servirà una serata intera a mandarlo giù.






I'll go along with the charade until I can think my way out. Ho scoperto che sul retro del singolo americano Tight Connection to My Heart c'è addirittura un brano di Street-Legal... (continua sul Post, con altri simpatici video e gif animate).
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Nella vecchia fattoria di Maggie

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Real Live (1984)
(Il disco precedente: Infidels
Il disco successivo: Empire Burlesque).
Non sono io.No, no, no, non sono io, babe.
Non sono io quello che cerchi, babe
 (migliaia di persone al Wembley di Londra, 27 luglio 1984).

The Plugz (in seguito alcuni divennero i Cruzados).
The Plugz (in seguito alcuni divennero i Cruzados).
Di tutte le svolte improvvise e contraddittorie che hanno segnato la carriera di Dylan, ce n'è una che avviene in poco meno di un minuto, un minuto ridicolo, tragico e imbarazzante. Comincia con una nota dissonante, il che è molto dylaniano. Il nostro eroe sta suonando con i Plugz, un gruppo postpunk ispanocaliforniano, voglio ripeterlo: è un gruppo postpunk ispanocaliforniano col quale sta provando intensivamente da alcune settimane. Che fine hanno fatto i turnisti superprofessonali di Infidels? Accantonati. E i cori gospel? Sono passati appena tre anni, sembra una vita. I Plugz stanno stravolgendo un paio di brani del disco uscito pochi mesi prima che Dylan in teoria dovrebbe promuovere - in pratica sembra volerlo fare a pezzi. È il momento dell'assolo di armonica; Dylan si stacca di dosso la chitarra senza che il sound complessivo ne risenta, afferra un'armonica, l'accosta al microfono nel pugno, comincia a soffiare, ma l'effetto è quello di un clacson di un autobus che nemmeno il postpunk può assorbire incolume. Che sta succedendo? Gli avevano preparato l'armonica sbagliata. Chissà quante volte gli era capitato - del resto secondo voi Dylan si preoccupa di spiegare quale armonica vuole a portata di mano, o in che chiave ha intenzione di suonare la prossima canzone? Il problema è che stavolta sta succedendo in diretta tv nazionale, al David Letterman Show. E per quanto sia solo un piccolo imprevisto della diretta, che quasi nulla toglie alla freschezza dell'esibizione; per quanto lo stesso Letterman alla fine arrivi a stringere la mano a Dylan e a proporgli di tornare da lui "ogni giovedì sera", strappando al mostro sacro una risata, la verità è che abbiamo appena assistito a una delle svolte più nette e tristi della storia di Bob Dylan. Il pendolo stavolta è oscillato in un istante, il brevissimo flirt di Bob col post-punk finisce qui.



E dire che sarebbe bastato così poco - l'armonica giusta al posto giusto? Fino a pochi minuti prima sembrava felice: una telecamera lo aveva sorpreso mentre alzava addirittura un pugno chiuso con entusiasmo da combattente. Stava massacrando Jokerman con la stessa furia con cui nel '74 insieme alla Band aveva affondato Lay Lady Lay, ma il risultato era molto più convincente. Dylan sembrava staccarsi dalle secche dei Dire Straits per avvicinarsi ai promontori dei Talking Heads, dove forse non avrebbe potuto approdare, eppure... Quei ragazzi ispanocaliforniani avrebbero potuto essere suoi figli - in effetti, se non fosse stato per i dischi punk e new wave che ascoltava il suo figlio maggiore, non li avrebbe mai reclutati - ma avevano la grinta giusta per abbattere il Dylansauro e assistere al parto di un mostro nuovo. E invece.
E invece l'armonica era quella sbagliata, Dylan si ritrovò in un attimo sperduto sul set mentre i Plugz continuavano a darci dentro, impassibili, come i professionisti che ancora non erano, ma che quel giorno sarebbero potuti diventare. Qui si potrebbe anche inserire una digressione sul concetto di professionismo, su quanto permei la cultura nordamericana e abbia relativamente smorzato la carica nichilista del primo punk britannico; è un concetto contro il quale Dylan ha combattuto da una vita, scrivendo e cantando canzoni piene di trappole per i virtuosi, canzoni incantabili e insuonabili; eppure anche Dylan non è mai riuscito a liberarsi del tutto dall'imperativo morale del professionismo, dall'ansia della prestazione, dalla vergogna del fiasco. Forse mentre distruggeva Jokerman a pugno chiuso dal vivo ci stava riuscendo; ma l'armonica stonata era troppo anche per lui. Ufficialmente lo show andò bene. Letterman si congratulò, e su Youtube ci sono ancora fan che lasciano un pollice alto e definiscono quel mezzo minuto di panico da armonica una straordinaria epifania televisiva. Ma Dylan, lo abbiamo visto, non è un gran fan di sé stesso. Fa anzi un po' fatica a riascoltarsi, odia la diretta televisiva e ai Plugz, dopo le strette di mano e i saluti, disse soltanto: vi chiamo lunedì. Lo stanno ancora aspettando.
Non lavorerò più per la fattoria di Maggie (Bob Dylan, 1965; ma anche 1976; ma anche 1978; ma anche 1984).

Carlos Santana
Una rarissima foto di Carlos Santana bello (l'unica che ho trovato nell'archivio del Post).
Tre mesi dopo era in tour in Europa, un doppio show con Santana, roba da riempire gli stadi da calcio (in alcune date arrivò anche Joan Baez, ma litigarono e non si sono più rivisti, credo, da allora). Ad accompagnarlo una band di professionisti, tra cui spicca Mick Taylor (l'ex rolling stone è l'unica conferma della super-formazione di Infidels) e Ian McLagan, già (ex Small Faces e Faces). Tutti coetanei affidabili in giro dagli anni Sessanta, nessun ragazzino. Ma nemmeno coriste. In compenso c'è il coro del pubblico - tante grazie, è un live - sì, ma siamo in quella fase post-BobMarleyana in cui i live devono documentare anche l'interazione della star col pubblico, che è sempre più vasto, (non si sentono più voci e fischi, ma un boato indistinto) eppure sembra sempre più disciplinato: è un pubblico-massa ma è anche un pubblico-strumento con una partitura da seguire. Dylan non è che si metta a sollecitarlo a colpi di "Yooo-ooooh", come Marley (o Sting), né lo asseconda come Baglioni, ma gli permette per la prima volta di cantare un ritornello da solo, e di tutti i ritornelli possibili sceglie It Ain't Me. Così su Real Live abbiamo la possibilità di sentire ventimila inglesi che cantano all'unisono: Non sono io, babe. No, no, no, non sono io babe, quello che stai cercando. Quanti in quel momento avranno fatto caso all'ironia?

Sull'erba dello stadio della nazionale inglese c'era gente che lo seguiva ormai da vent'anni: quattro lustri passati a sentirlo cantare che non avrebbe più lavorato per la Fattoria di Maggie. All'inizio magari Maggie erano gli hipster del folk metropolitano che pretendevano che Dylan non giocasse con le chitarre elettriche, o l'industria musicale che pretendeva da lui due dischi all'anno, o il movimento dei diritti civili che voleva arruolarlo come tamburino. In seguito avevano cantato I ain't gonna work for Maggie's Farm i ragazzi americani che non volevano andare in Vietnam e quelli britannici che protestavano contro il governo di Margareth, "Maggie" Thatcher. L'avevano incisa persino gli Specials. L'avrebbero suonata dal vivo anche gli U2. E Dylan nell'estate 1984 poteva forse esimersi? Così in Real Live lo sentiamo cantare, per la duecentoventesima volta dal vivo, che non ha intenzione di lavorare più per quella fattoria (220 non è un numero a caso). No More! Anche in questo caso, l'ironia sembra inconsapevole, o al limite svagata come può essere svagato l'attore che recita per la 220sima volta la stessa barzelletta - sarebbe strano se la trovasse ancora divertente.
real live
Real Live è uno di quei dischi che ti domandi se Dylan si ricorda di averli pubblicati. Uno degli articoli del suo catalogo di cui è più facile dimenticarsi, così com'è difficile dimenticarsi di quel tour (che pure fu il primo in cui calò in Italia). In quell'estate del 1984 Dylan non cantava né troppo male né particolarmente bene; gli arrangiamenti non erano né postpunk come quelli sperimentati al Letterman Show, né gospel, né barocchi come ai tempi del World Tour, né fracassoni come quelli della Revue. È un robusto rock da stadio, impreziosito da una gloriosa ospitata di Carlos Santana in Tombstone Blues. È uno di quei dischi live che all'inizio passa quasi inosservato, ma poi invecchia in modo dignitoso. Come nel caso di At Budokan Hard Rain, c'è una specie di difficoltà iniziale da superare, che facilmente poteva irrigidire i primi recensori: nei primi brani Dylan deve ancora scaldarsi, e non lo aiuta il fatto di dover cantare per la duecentesima volta che Abramo deve uccidere suo figlio sull'Highway 61, e che non ha intenzione di ripresentarsi a quella maledetta fattoria. (E sta succedendo qualcosa e non sai cos'è, figurati: dopo vent'anni ancora stai lì a domandarti cosa succede, Mr Jones?) Uno ovviamente può anche retoricamente chiedersi: ma ha senso pubblicare un live del genere, il quarto in dieci anni?
Un senso c'è sempre, almeno dal punto di vista commerciale... (continua sul Post)
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Infedele negli anni Ottanta

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Infidels (1983)
(Il disco precedente: Shot of Love
Il disco successivo: Real Live).

Mark Kopfler è questo signore.
Mark Knopfler è questo signore. Nel 1980 volevamo tutti suonare come lui, e lui voleva cantare come Dylan.
Ma vi immaginate se Mark Knopfler, al colmo del suo successo coi Dire Straits, avesse fatto un disco con Mick Taylor, l'unico chitarrista a uscire vivo dai Rolling Stones? E che oltre al fido Alan Clark alle tastiere, alla batteria e al basso avessero chiamato rispettivamente Sly Dunbar e Robbie Shakespeare, la sezione ritmica più blasonata della Giamaica e non solo, due tra i più grandi innovatori della musica leggera dell'ultimo mezzo secolo? Non sareste curiosi di sentirlo, un disco del genere? Ma forse lo avete già ascoltato, perché un disco del genere esiste, e in più è un disco di Bob Dylan. Si chiama Infidels e uscì nel 1983.
Ero incerto se cominciare il pezzo con Mark Knopfler. Già ai tempi di Slow Train mi stavo ponendo il problema: ma i lettori giovani, i famosi millennials ai quali bisognerebbe cominciare a rivolgersi, lo sanno chi è Mark Knopfler? Possono immaginare che nel 1983 vendesse più dischi di Dylan, e che per la mia generazione fosse più famoso di lui? Nel senso che io, ancora per qualche anno, non avrei avuto la minima idea di chi fosse Dylan: ma Tunnel of LoveRomeo and Juliet, le sentivo alla radio. E So Far AwayMoney for Nothing? Ancora ai tempi di Brothers in Arms io non lo sapevo, chi fosse Bob Dylan. Mentre pensavo a queste cose alla mia finestra è giunto distinto il suono della tastiera di Alan Clark che attaccava Walk of Live, nella birreria sotto casa mia una cover band dei Dire Straits stava facendo le prove per la serata. Ok, forse posso iniziare il pezzo di Infidels con Mark Knopfler. Certo, avrei preferito Cyndi Lauper.
Cyndi_lauper_girls_just_want_to_have_funIn effetti la prima idea era cominciare il pezzo con Bob nella solitudine del suo trealberi, alla deriva nei Caraibi, mentre cerca di scrivere canzoni che non abbiano nulla a che vedere con le canzoni che vanno alla radio in quegli anni. Niente contro il punk o la new wave, ma insomma, Bob Dylan è un maestro, è fuori dal tempo, fuori dalle mode! Ma è anche fuori fase, come spesso gli capita. Si distrae, stappa una bottiglia, prova a sintonizzare la radio di bordo sulla frequenza delle previsioni del tempo - ma l'unica stazione che si sente sta trasmettendo il tormentone di Cyndi Lauper, Girls Just Want to Have Fun. Deluso, spegne la radio e si rimette a strimpellare. Niente da fare, l'ispirazione non viene. Passano i giorni, che alle Antille si assomigliano un po' tutti. Lentamente, nella testa di Bob cresce un ritornello. Qualcosa di effettivamente nuovo. Qualcosa di effettivamente mai sentito. Non riesce neanche a metterci le parole, dovrà arrangiarsi con un vocalizzo, un uo-o-o-o-o-o, ma perché no? Forse che il grande Bob Dylan non può concedersi un vocalizzo? Così i critici si renderanno conto che riesce a cantare più di tre note in una frase. Ed è un gran ritornello, diciamolo. L'entusiasmo comincia a salire. Bob sa che non dovrebbe, ma a un certo punto decide di farlo sentire a qualcuno - magari al cuoco che gli porta le triglie, ehi, Ramon, senti questo ritornello:
Jokerman dance to the nightingale tune,
Bird fly high by the light of the moon,
Uo-o-oh, oh, oh, Jokerman
E Ramon, inconsapevole: ah sì, boss, piace anche a me quella canzone. E Dylan, improvvisamente riannuvolato: in che senso? La conoscevi già? Ma sì, boss, non è quella di Cyndi Lauper? Uo-o-oh, oh, oh. Si sente dappertutto.
Volevo iniziare il pezzo così, ma poi ho controllato le date. Mi stavo sbagliando. Mentre componeva Infidels Dylan non avrebbe mai potuto ascoltare la versione lauperiana di Girls, che uscì soltanto in settembre - Infidels era già pronto in primavera. Oggi è famoso soprattutto per una canzone che inspiegabilmente non contiene, Blind Wille McTell. Ai tempi fu salutato come un grande ritorno - più o meno come venivano salutati negli anni Ottanta tutti i dischi dei monumenti degli anni Sessanta - e in effetti non era un pasticcio come il disco precedente, né conteneva quelle canzoni a esplicito tema religioso che i critici musicali schivavano come la peste (in realtà, se manca un riferimento esplicito a un Dio, ce ne sono parecchi al suo contendente, Satana). Così, per un po', Infidels fu considerato il miglior disco degli anni Ottanta di Bob Dylan, quasi una contraddizione in termini.

Dopo i tre dischi cristiani senza il suo sacro volto in copertina, eccone una in cui il 90% della superficie grida: "Bob Dylan" (notate anche quanto è grande il nome rispetto al titolo).
Dopo i tre dischi cristiani senza il suo sacro volto in copertina, eccone una in cui il 90% della superficie grida: "Bob Dylan" (notate anche quanto è grande il nome rispetto al titolo).
In effetti è una cosa che costa fatica accettare: che Dylan sia stato attivo per la maggior parte degli anni Ottanta; che abbia inciso quasi un disco all'anno; che abbia fatto più concerti che nei decenni precedenti, fino a esaurirsi la voce e oltre. Non ha senso, pure è andata così. Sarebbe dovuto andarsene in esilio, come altri dinosauri effettivamente fecero: in attesa che passassero di moda i sintetizzatori e che crescesse una nuova generazione di ascoltatori (e produttori), più rispettosi del bel suono artigianale dei tempi che furono. Dylan e gli anni Ottanta sono due concetti quasi antitetici - è come se a Michelangelo fosse toccato di sopravvivere per tutto il Seicento e passare indenne attraverso il barocco, magari dipingendosi da solo i mutandoni al Giudizio Universale - a Dylan è toccato pure questo.
Egli stesso intuiva di doversi difendere da una scena musicale che non andava, e forse non sarebbe mai più andata, nella direzione a lui più congeniale. In certe fasi si era semplicemente isolato: anche Gesù gli era stato utile in questo. Saved è un disco fuori dal tempo, né Settanta né Ottanta, né nulla. In altri casi aveva provato ad assecondare la corrente, a circondarsi di professionisti e/o giovani. Infidels, ormai lo sappiamo, è l'ennesima fase di un pendolo che dal 1978 oscilla tra due estremi: iperproduzione ed estemporaneità. Street-Legal era stato un disco fin troppo estemporaneo; Slow Train aveva ritrovato il successo anche grazie a una produzione a regola d'arte - ed era stata la prima collaborazione con Knopfler, al tempo un chitarrista dylaniano di belle speranze che aveva appena finito di registrare il suo secondo discoTanta regola aveva finito per stancare Dylan, che in Shot of Love aveva cercato di recuperare un suono grezzo, riuscendoci fin troppo. L'ennesimo flop commerciale gli impone una pausa di riflessione: nel 1982 non pubblica niente, e intanto si rimette in cerca di professionisti in grado di lavorare con lui. Non è che ce ne siano tanti al mondo. Il ritorno di Knopfler - nel frattempo diventato una stella di prima grandezza - può sembrare una mossa scontata: il chitarrista unisce quelle caratteristiche apparentemente antitetiche che Dylan non riusciva a conciliare - è a un tempo un discepolo di Dylan e il suo contrario, ama le strofe debordanti di parole e le improvvisazioni ma è anche un maestro di disciplina in sala d'incisione. Se proprio Dylan doveva incidere dischi negli anni '80, Knopfler era una mossa quasi obbligata, perlomeno ascoltando Sweetheart Like You la sensazione è un po' questa: è un Dylan che potrebbe essere la guest star di un brano dei Dire Straits, è un Dylan che si riprende quello che i Dire Straits gli avevano preso in prestito: quella miscela unica di ruvidezza e sentimento, quel machismo timido che se è ben dosato fa sfracelli.

(Quando finalmente il regista riesce a inquadrarlo con gli occhi aperti, non riesce più a staccarsene: Dylan ripreso da vicino è uno spettacolo, fa un sacco di smorfie molto espressive. Puoi capire perché a Hollywood dopo tanti fiaschi qualcuno fosse ancora disposto a dargli una chance per un film).

Eppure a Knopfler Dylan arrivò quasi per ripiego, dopo aver sondato terreni per lui sconosciuti e insidiosissimi: a un certo punto gli sarebbe piaciuto fare un disco con Bowie, un giorno si presentò a casa di Frank Zappa che diplomaticamente tergiversò (ok, conoscendo entrambi sarebbe stato un macello. Ma Zappa era riuscito a lavorare persino con Captain Beefheart: sarebbe almeno stato un macello molto interessante). Con Knopfler, e con la squadra di turnisti più prestigiosi mai messi assieme, Dylan non discusse più di religione, ma lavorò parecchio e bene. I filmati che ci restano ci danno la sensazione che fosse a suo agio - nello stesso periodo faceva fatica a tenere gli occhi aperti davanti ai registi dei suoi primi videoclip. Però poi successe qualcosa che deteriorò il rapporto e la stessa resa finale del disco. Apparentemente, Knopfler non aveva fretta (doveva andare in tour) e Dylan sì: forse non tanto Dylan quanto la Columbia, che senza un disco di Dylan ogni 18 mesi come è noto rischia di implodere su sé stessa. Il risultato non cambia: Dylan, turbato da qualche data di scadenza, si mise a pasticciare coi missaggi e con la scaletta, dando alle stampe un disco molto inferiore a quello che sarebbe potuto essere. È andata davvero così?


In realtà Infidels è meno rappresentativo del Dylan'80 di quanto appaia a prima vista. Per alcuni aspetti rappresenta un'eccezione: il più appariscente è l'improvvisa scomparsa dei cori femminili, che Dylan aveva cominciato a usare in Self Portrait e di cui non si separava dai tempi di Street-Legal. E siccome i cori erano diventati il marchio di fabbrica del periodo gospel, la decisione di farne a meno introduce un segno di netta discontinuità, che ai tempi dovette fare ben sperare (e invece no, Dylan tornerà presto sui suoi passi). Soltanto la voce di Clydie King fa capolino in Union Sundown: Dylan, che forse aveva già avuto una relazione con la futura moglie Carolyn Dennis, a questo punto faceva coppia quasi fissa con la King, con la quale aveva inciso poco prima un intero album di duetti che la Columbia non riteneva commerciabili e non sono ancora saltati fuori (pensate a che roba è saltata fuori: i duetti con la King ancora no). Alla base della decisione di Dylan di avvalersi dei cori c'era tutto un nodo di motivazioni religiose e sentimentali difficili e imbarazzanti da districare, ma prima ancora una relativa sfiducia nei propri mezzi vocali, che BD nutriva dalla fine degli anni Settanta e si eclissa miracolosamente durante le sessioni di Infidels; sarà una coincidenza, ma in Infidels Dylan canta come non cantava da anni. È sicuro, è intonato, è espressivo, non sbaglia un colpo. E in Jokerman ci regala qualcosa che forse non avevamo mai sentito: un vocalizzo nel ritornello. Uo-o-oh, uo-o-o-o-o-o-oh, Jokerman. A proposito di anni '80. Pensate a che cosa strana è lo Zeitgeist. Nessuno si aspetta che BD debba seguire la moda del momento, anzi. Eppure persino a mille miglia dalla sala d'incisione, nel 1983 sul suo trealberi Dylan finisce per comporre il suo ritornello più anni Ottanta, qualcosa che di lì a poco avrebbe potuto cantare Cyndi Lauper.
Dicevo più su che nel 1983 io non lo sapevo, chi fosse questo Dylan... (continua sul Post)
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Una botta d'amore (per Dio)

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Shot of Love (1981)
(Il disco precedente: Saved
Il disco successivo: Infidels)
Siete un giovane cantautore italiano in cerca di idee, nel 1981. Quando avete visto in vetrina l'ultimo disco di Bob Dylan eravate un po' increduli. Non sembra un disco di Dylan: non c'è la sua faccia e non c'è nemmeno Gesù, insomma che roba è? Più che l'illustrazione in stile Pop Art, l'ultimo stile che accostereste alla musica di Dylan, a incuriosirvi è il titolo: cosa vorrebbe poi dire, "shot of love"? Il dizionario tascabile d'inglese vi conferma che "shot" è il participio di sparare: uno "sparo d'amore"? L'immagine sembra suggerire un esplosione più devastante: "scoppio d'amore"? Ma magari avete fatto almeno una vacanza all'estero e sapete che lo shot è un bicchiere piccolo: "bicchierino d'amore"? Un vostro amico che è stato a Londra scuote la testa: ma non lo sai che lo shot è l'iniezione (di eroina, ovviamente)? "Schizzo d'amore", bisognerebbe tradurre. Ma chi dice più "schizzo"? Una "pera d'amore"? Oppure una dose, ecco, "Dose d'amore". Che titolo buffo, pensi, e se la dose è troppa cosa ti succede? Ed ecco improvvisa l'ispirazione:

(Vedi alla voce: Crimini contro l'umanità che Bob Dylan ha reso possibili).
Sapete che John Lennon non è praticamente mai stato quarantenne? Giusto un paio di mesi tra il 9 ottobre e il maledetto 8 dicembre 1980, quando Mark Chapman gli sparò sotto casa a New York. Dylan ne rimase comprensibilmente sconvolto. Avrebbe compiuto 40 anni l'anno successivo, e da venti aveva a che fare con fan ossessionati e fuori di testa. Il mondo in generale stava impazzendo. Dylan assunse una squadra di addetti alla security, con il compito di bonificare i palazzetti dove faceva i concerti. Al suo bassista, Tim Drummond, regalò un giubbotto antiproiettile. Ma non avrebbe scritto canzoni su Lennon, per altri trent'anni. Invece un giorno ne scrisse una per Lenny Bruce, che era morto così tanto tempo prima.

Mark David Chapman
Mark David Chapman
Una sera Bob Dylan e Lenny Bruce avevano preso un taxi assieme. Non sappiamo in che circostanze: Dylan non le ha mai chiarite. Dobbiamo presumere che fosse a New York, senz'altro prima che Bruce morisse di overdose, nel 1966, ormai estromesso dal giro dei locali che non volevano essere coinvolti in processi per oscenità. Qualche tempo prima, lui e Dylan furono compagni di viaggio. "Solo un miglio e mezzo, ma sembrò un mese". Chissà cosa significa: c'era molto traffico? Non sapevano cosa dirsi e si annoiavano? Oppure avevano tante idee da scambiarsi, e il viaggio fu troppo breve? Poi Bruce se ne andò e Dylan diventò una stella distante. Aveva testimoniato in suo favore a un processo, quando morì non ne parlò più - del resto se avesse scritto una canzone per ogni compagno di viaggi morto in quegli anni, ne sarebbe uscito un disco doppio o triplo, una Spoon River spaventosa. Poi, un giorno qualsiasi del 1981, prese un foglio e si mise a scrivere: "Lenny Bruce is Dead". Al presente, come se fosse appena successo. A tutti gli intervistatori che gli hanno chiesto cosa ci fa, una canzone sul blasfemo Lenny Bruce, in un disco cristiano, Dylan non ha saputo rispondere. Non ne ho idea, ha detto: l'ho scritta in cinque minuti. Come se la scelta di includerla nel disco non fosse dipesa da lui. E in effetti. Prendi il disco da cui è tratta Lenny BruceShot of Love: ha senso parlarne come se fosse davvero un album e non una raccolta di canzoni scritte in momenti diversi e registrate per caso? Ovvero: ha senso continuare a fare quello che abbiamo fatto fin qui, ora che siamo negli anni Ottanta?

Lenny Bruce (13 ottobre 1925 – 3 agosto 1966), nome d'arte di Leonard Alfred Schneider, è stato un noto comico americano, famoso sopratutto per i temi piuttosto scabrosi che toccava nei suoi spettacoli e per il suo linguaggio spesso volgare. Nel 1964 venne arrestato e processato per 'oscenità'. Nonostante durante il processo testimoniarono a suo favore personaggi come Woody Allen, Bob Dylan e Allen Ginsberg, Lenny Bruce fu dichiarato colpevole. Morì a causa di una overdose di morfina nella sua casa di Hollywood. Nella foto, Lenny Bruce all'aeroporto di New York, l'8 aprile 1963 (AP Photo)
Lenny Bruce (13 ottobre 1925 – 3 agosto 1966), nome d'arte di Leonard Alfred Schneider, è stato un noto comico americano, famoso sopratutto per i temi piuttosto scabrosi che toccava nei suoi spettacoli e per il suo linguaggio spesso volgare. Nel 1964 venne arrestato e processato per 'oscenità'. Nonostante durante il processo testimoniarono a suo favore personaggi come Woody Allen, Bob Dylan e Allen Ginsberg, Lenny Bruce fu dichiarato colpevole. Morì a causa di una overdose di morfina nella sua casa di Hollywood. Nella foto, Lenny Bruce all'aeroporto di New York, l'8 aprile 1963 (AP Photo)
Almeno fino a Saved il concetto di "album di Bob Dylan" aveva un senso. Ogni disco era veramente un episodio della sua storia. Non ce n'era uno uguale all'altro, e tutti assieme creavano la storia di un artista, compositore e performer: coi suoi alti, i suoi bassi, le sue digressioni, gli imprevisti, i ritorni e le delusioni. Tra 1981 e 1989 Dylan pubblica ancora degli album - anche troppi - ma non sono più capitoli di un romanzo, non sono più tratti di un percorso, sono quasi una falsa pista; una di quelle mappe delle regioni in guerra, con tutti i confini sbagliati. A osservarla da lontano, sembra una crisi di ispirazione. È l'esatto contrario. Almeno nei primi anni dopo la conversione Dylan ha il problema opposto: troppe canzoni per la testa, scarsa inclinazione a pubblicarle. Diversi pezzi che comincia a provare, alla prima difficoltà li accantona finché non li perde da qualche parte. Alla fine del 1980 si dimentica letteralmente di incidere un disco. A quel punto non aveva soltanto già scritto Shot of Love (la canzone), ma una serie di brani per niente inferiori a quelli di Saved, ispirati, più che da Gesù, dal concetto di Peccato e da quanto sia faticoso liberarsene: c'è Ain't Gonna Go To Hell For Anybody (sorella maggiore di Tight Connection of My Heart), c'è un rock robusto intitolato Yonder Comes Sin, c'è Caribbean Wind, una cavalcata emozionante dedicata a un amore esotico e sbagliato che avrebbe potuto diventare un classico; c'è un blues tra i suoi migliori (The Groom's Still Waiting at the Altar) e tanta altra roba buona, scritta per lo più durante una vacanza estiva ai Caraibi su una tre-alberi che aveva appena varato. Quando nell'autunno del 1980 ricomincia coi concerti, ha una gran voce, una scaletta in cui si riaffacciano i suoi vecchi classici ma composta in buona parte di materiale inedito - che inedito è rimasto; quando finalmente si deciderà a registrare un disco nuovo, in primavera, scarterà quasi tutto. Solo The Groom verrà riutilizzata come lato B di un singolo, e poi inserita nella versione CD di Shot of Love, di cui resta uno dei brani più solidi. E gli altri pezzi dell'estate-autunno 1980? Forse si era stancato di cantarli in tour; forse se li era dimenticati; possiamo farci un'idea del tutto ascoltando un paio di bootleg abusivi su Youtube (forse saranno il prossimo capitolo della Bootleg Series, forse ormai Dylan ha deciso di lasciarli perdere).



C'è da mettersi a piangere... (continua sul Post)

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Il disco che Bob Dylan fu creato per comporre

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Saved (1980)
(Il disco precedente: Slow Train Coming
Il disco successivo: Shot of Love).

By Source, Fair use, Link
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Come probabilmente ormai sospettavate, il mondo non esiste più. È finito all'incirca intorno al 1990, quando l'Unione Sovietica, l'Iran e la Repubblica Popolare Cinese hanno attaccato le basi Nato in Medio Oriente. Durante la battaglia di Armageddon, esattamente 40 anni dopo la proclamazione dello Stato d'Israele, il Cristo si è manifestato nella Sua gloria, portando i suoi prescelti con Sé in paradiso. Tra loro il reverendo Hal Lindsay, che leggendo la Bibbia queste cose le aveva previste e rivelate in un best seller già nel 1970: e il grande cantautore cristiano Bob Dylan, che alla predicazione di queste verità aveva dedicato i suoi dischi migliori, nel decennio precedente.
Come probabilmente a questo punto sospettate, voi non siete stati prescelti; bensì condannati a vivere nel peggiore degli inferni: un simulacro del mondo, simile per tutto e per tutto a quello che esisteva prima della Fine, con la differenza che non finirà mai, e ruoterà per sempre trascinando nell'oscurità tutto il suo peccato. In questo simulacro di mondo esiste anche un simulacro di Bob Dylan, che ha dimenticato le sue verità e si è rimesso a cantare canzoni d'amore terreno o di tenebra. Qualche suo vecchio disco cristiano circola ancora, ma lui stesso non capisce perché li ha incisi, perché li ha cantati. In effetti non li ha incisi lui, non li ha cantati lui.
"Vi voglio raccontare una storia. Quattro mesi fa stavamo suonando in un campus, o in un college, non so. Non ricordo neanche dove eravamo... In Arizona, mi pare.
Comunque, si dà il caso che io legga un sacco la Bibbia, e la Bibbia dice alcune cose precise di cui sono diventato consapevole solo di recente, e alle università c'è gente che tipo ha un'istruzione superiore, sapete, gli insegnano diverse cose come... le filosofie, così studiano tutte quelle filosofie, come quella di Platone e... chi altro? Beh, mica posso ricordare tutti quei nomi, non so, Nietzsche, gente così... Ma insomma, la Bibbia dice cose precise... nel Libro di Daniele, nell'Apocalisse, si parla di cose che potrebbero proprio riferirsi ai nostri tempi. Dice che ci saranno presto delle guerre - non saprei dire esattamente quando, ma comunque presto. In quel tempo, beh, cita un Paese all'estremo nord, che ha come simbolo "l'orso". E si scrive R-O-S-H. Nella Bibbia, ora, è un libro che è stato scritto un bel po' di anni fa. Beh, non può che riferirsi a una nazione che io sappia... se voi sapete di un'altra nazione a cui si potrebbe riferire... magari voi ne conoscete un'altra, io no".
Bob_Dylan_-_Saved
Se Self Portrait è, per definizione, il disco più brutto di Dylan, Saved è facilmente il più ignorato. Siamo nel punto più profondo della palude meno frequentata della sua discografia: la trilogia cristiana. Il primo episodio (Slow Train Coming) godeva del vantaggio della novità, e di una produzione fin troppo professionale e radiofonica; il terzo episodio (Shot of Love) contiene già rassicuranti segnali di ritorno al secolarismo. Saved è senza compromessi, già dalla copertina originale, che nel suo Kitsch esibito è una delle più efficaci mai autorizzate da Dylan: questo è un disco per gente che si sente salvata dal Sangue dell'Agnello. Non vi sentite salvati? Trovate la cosa ridicola? Lasciate perdere questo disco. Tanto il mondo sta per finire - vendere qualche milione di copie in più o in meno non è la priorità
Siete pronti a incontrare Gesù?
Siete al posto che vi è stato assegnato?
Quando vi vedrà, Egli vi riconoscerà
O dirà: "Allontanatevi da Me"?
Questa assenza di compromessi lo rende meno antipatico dei suoi due fratelli, concepiti per rendere testimonianza davanti a un pubblico di non credenti - un pubblico al quale Dylan in fondo non aveva molto più da dire che "pentitevi stolti". Anche Saved è una predica, ma ai convertiti: praticamente priva di quei fervorini moralistici che Slow Shot dispensano, incuranti del ridicolo. È un disco che è quasi pura estasi: o la senti o lasci perdere. Lo puoi capire solo se per un attimo ti sforzi di crederci - se non in Gesù Cristo, almeno nel fatto che Bob Dylan ci abbia creduto davvero: sì, risorgerò, i miei occhi vedranno il Salvatore. Non in qualche nuvola lontana, come in certe fantasie cattoliche: questa è la rivelazione evangelicale, una cosa molto più concreta e immediata: il mondo sta per finire e Cristo sta per arrivare, e io lo vedrò con questi occhi - ma sono pronto per una cosa del genere? In Saved Dylan ha più dubbi su sé stesso che su Gesù.
Sono pronto a dare la vita per i miei fratelli,
e a caricarmi la croce?
Mi sono arreso alla Sua volontà
o sto ancora facendo il boss?
Con Saved Dylan sbarca anche negli anni Ottanta, il suo decennio terribile. Ci arriva con un deliberato suicidio commerciale: sarà il suo primo disco dai tempi dell'esordio a non entrare nella top 50 americana. Il primo a non conquistare nemmeno un disco d'oro (500.000 copie). Su Spotify, i nove brani di Saved sommati ottengono un milione e trecentomila ascolti. È una cifra minuscola anche se confrontata ad altri dischi poco brillanti di Dylan - per dire, è meno della metà di Shot of Love. (Ma Saved Shot of Love, sommati, non raggiungono i sei milioni di ascolti del primo brano di Street-LegalChanging of the Guards). Anche chi ha simpatia per i dischi cristiani di Dylan, e non siamo in tanti, ascolta Saved meno della metà di quanto non ascolti Shot of Love; meno di un terzo di quanto non ascolti Slow Train Coming. D'altro canto è pur vero che il dylanita medio non è un tizio da streaming - in molti casi deve ancora assorbire il trauma del passaggio da vinile a cd.
"E poi c'è un'altra nazione che si chiama... non mi ricordo, ma è nella parte orientale del mondo e ha un esercito di 200 milioni di fanti, ora: c'è una sola nazione che potrebbe aver un esercito del genere. Così stavo raccontando queste cose a quella gente... non avrei mai dovuto, mi sono lasciato trascinare... Ho detto loro, attenti! perché la Russia sta per scuotersi e attaccare il Medio Oriente, c'è scritto nella Bibbia! E io ho letto ogni genere di libri in vita mia... riviste libri, e qualsiasi cosa mi capitasse sottomano, e a essere sincero non vi ho mai trovato nessuna verità, se volete sapere la verità. Ma sembra che queste cose nella Bibbia mi abbiano svegliato, e mostrato la verità. Così ho detto che una certa nazione si sarebbe riscossa e avrebbe attaccato, e tutta quella gente... saranno stati cinquantamila persone, qualcuno c'era? No, non so, non ce n'erano cinquantamila, cinquemila magari... beh loro mi hanno fatto: "buuuuuuuh", come fanno di solito, un intero auditorium... Ho detto: "La Russia sta per invadere il Medio Oriente", e "buuuuuuh", non potevano ascoltare, non ci credevano. Beh, un mese dopo, ecco che la Russia invade il... il coso, l'Afghanistan credo, e tutto cambia, sapete".



Da un punto di vista tecnico, descrivere Saved come un buco nell'acqua è abbastanza semplice: si tratta di un disco inciso in fretta, nel posto sbagliato: certo, questo non ha impedito in altre occasioni a Dylan di produrre capolavori, ma a quanto pare non è il caso di Saved. In questa fase del resto Dylan pensa più all'apostolato che al prodotto finito: sta perfezionando uno show tutto gospel, senza un solo brano del vecchio repertorio, con un sacco di inediti. Vuole addirittura farne un film. A metà tour la Columbia gli propone di incidere un disco: lui non fa una piega e torna in Alabama da Jerry Wexler, il mago della Stax che aveva levigato così bene l'album precedente. È una mossa sensata: produttore che vince non si cambia. Ma nel frattempo è cambiato Dylan, come al solito: in fondo non gli è ancora riuscito di incidere due dischi con lo stesso team, neanche quando ci si è impegnato. In questo caso i brani arrivano in Alabama già arrangiati e perfezionati dalla band che sta seguendo Dylan in tour: non c'è più spazio per aggiungere un granché. Per Wexler è un ritorno alle origini: come ai tempi in cui Ray Charles gli telefonava e gli diceva: "tieniti pronto tra tre settimane, facciamo un disco". Stavolta le settimane di preavviso sono ancora meno, e Dylan quando arriva è un po' giù di voce (ma se ne frega) (tanto la fine dei giorni è vicina). I brani sono quasi tutti gospel traboccanti di emozioni, e Wexler quelle emozioni in studio non riesce a ricrearle; neanche ci prova. A lui piacciono i suoni puliti, è un cesellatore; farlo lavorare con un pasticcione come Dylan era stato un esperimento interessante, ma come molti esperimenti la seconda volta il risultato è meno convincente. I brani più trascinanti, come Saved Solid Rock, ringhiano come leoni in gabbia.

Persino Dylan deve essersene conto, al punto di proporre alla Columbia un piano B: un disco con lo stesso materiale inedito, ma registrato dal vivo, da pubblicare col film. Probabilmente alla sola parola "film" i commerciali della Columbia devono averci visto rosso - Dylan aveva appena finito di pagare i debiti di Renaldo & Clara. Ci credeva talmente da proporre di inciderlo a sue spese: niente da fare. Anche il film, girato a Toronto, uscirà dai cassetti solo abusivamente. Si trova su Youtube ed è film-concerto completamente privo dei fronzoli artistoidi del RenaldoEd è... strepitoso (continua sul Post)
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Gesù è giusto dietro la curva

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Slow Train Coming (1979)
(Il disco precedente: At Budokan
Il successivo è... un mistero).
Nessun servo può servire due padroni; o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Non potete servire Dio e Mammona (Vangelo di Luca, 16:13).
Un giorno Bob Dylan apparve a Gesù Cristo. Fu in un albergo di Tucson, di tutti i posti al mondo. A Gesù Bob parve stanco, sfibrato, un divo del rock che si stava avvicinando alla curva della quarantina senza né casco né cinture, niente. "Oh Padre", si sarà detto, "Prenderlo all'amo sarà persino troppo facile".
È il primo disco di studio a non avere il volto di Dylan sulla copertina.
È il primo disco di studio a non avere il volto di Dylan sulla copertina.
"Bob, vieni a me, accetta il mio giogo: è molto leggero".
"Eh? Chi ha parlato? Chi sei?"
"Chi vuoi che io sia? Sono Gesù Cristo: la Via, la Verità, la Vita".
"Ma Gesù, sei sicuro? Io... sono Bob Dylan!"
"Nientemeno".
"Sono ebreo!"
"Perché, io no?"
"In effetti".
"Cosa c'è che ti angustia, Bob? A me puoi dirmelo".
"Non lo so neanch'io... credo di essere stanco, soprattutto".
"Stanco di cosa".
"Non lo so. Di essere me, forse".
"Troppi concerti?"
"I concerti sono ok. Mi piace suonare. Se solo non dovessi suonare tutte le volte quelle cazzo di canzoni di Bob Dylan".
"Insomma non ne puoi più di Dylan".
"Puoi capirmi?"
"Altroché. La celebrità è una vera tortura, sai. Ti costruiscono un personaggio e pretendono che tu ci aderisca perfettamente... poi lo innalzano davanti a tutti e..."
"Ti crocifiggono, Gesù".
"Non dirlo a me".
"Ma quindi tu saresti il Messia?"
"E certo, non hai visto i segni? I ciechi tornano a vedere, i sordi ci sentono, Van Morrison ha fatto un bel disco con me, Patti Smith ha dedicato una canzone a Papa Luciani... Sto tornando..."
"Stai tornando?"
"...di moda".
"E io? Cosa vuoi che io faccia? Vendere tutto e seguirti?"
"Non esageriamo. Niente che non ti suggerisca già il buon senso. Datti una ripulita, bevi meno, basta coca. Puoi perfino continuare a uscire con le coriste..."
"Whew".
"Magari una sola alla volta, ecco".
"Ci proverò. Tutto qui?"
"Beh, naturalmente dovrai suonare per me".
"Un disco?"
"Un disco sono buoni tutti, cioè se tu fossi Neil Young mi accontenterei, ma stiamo parlando di Bob Dylan, il rocker più sputtanato del decennio, qui c'è bisogno di un investimento a medio termine".
"Ma Gesù..."
"Tre dischi in tre anni, prendere o lasciare".
"Tre dischi in tre anni? Gesù, sei peggio di Grossman".
"Ehi, pensavi che la Via la Verità e la Vita venissero via con lo sconto? Stiamo parlando di convertirsi, Bob. Rinascere. Tu non hai idea di cosa si scatenerà là fuori tra un po' - il punk è solo un avvertimento, sai".
"L'Armageddon?"
"L'Armageddon sarà una passeggiata al confronto, stanno per iniziare gli anni Ottanta. Il Rock - questo gigante dai piedi d'argilla - sarà rovesciato dal trono, e in suo luogo regnerà prima l'empio Pop, poi il suo nipote degenere, Hip-Hop! E poi bestie ancora più immonde..."
"Non capisco. Stai annunciandomi che la fine è vicina?"
"Oh, la fine! La implorerete, la fine!, mentre nell'aere risuoneranno campionamenti e scratch. Hai bisogno di un altro rifugio nella tempesta, povero Bob. E io ne ho uno".
"Non lo so... sono appena uscito da una storia difficile, forse non dovrei subito impegnarmi..."
"E pensa a un'altra cosa. Pensa a Blowin' in the Wind..."
"Gesù, ormai la odio quella canzone".
"Appunto. Non dovrai suonarla più".
"Sul serio? Ma il pubblico".
"Non dovrai più piacere a loro. Dovrai piacere soltanto a me. Molto più semplice. Basta vecchie canzoni. Mr Tambourine, Knockin', Rolling Stone: puoi smettere di suonarle. D'ora in poi canterai solo le mie lodi".
"Ma per rifarmi un repertorio ci metterò degli anni!"
"Dici? Ma non puoi fare come negli anni '60? Eri molto prolifico al tempo, mi pare di ricordare".
"Eh ma allora era più facile. Bastava suonare il blues".
"Blues, perfetto, adoro il blues".
"Gesù, sei sicuro?"
"Perché? Non crederai mica anche tu a quella storia della musica del diavolo, eh? Basta con le superstizioni".
"Se lo dici tu".
"Ah, e poi voglio più professionismo in sala d'incisione. Ultimamente registravi un po' da schifo, ecco, non deve più succedere. Lavori per Gesù, adesso".
Mark_Knopfler_-1979
Mark Knopfler nel '79, prima di scoprire i benefici della fascia tergisudore.
Un giorno Bob Dylan apparve a Mark Knopfler: un miracolo che fino a qualche anno prima sarebbe stato meno credibile dell'apparizione di Gesù a Tucson. Le rare volte che mi capita di riascoltare Slow Train Coming finisco sempre per pensare a come dev'essersi sentito Knopfler. Hai trent'anni e ascolti Dylan da quando ne avevi undici. Hai imparato a cantare e comporre ascoltando i suoi dischi. Col tempo, mentre ti allenavi nei seminterrati e sbarcavi il lunario nei pub, hai sviluppato una strana schizofrenia artistica: più la tua voce si avvicinava a Dylan, più le tue mani ti portavano nella direzione opposta, verso uno stile chitarristico pulito, preciso, rigoroso. Alla fine sei riuscito a pubblicare un disco, e sta andando bene, e una sera alla fine del concerto si avvicina il tuo Dio e ti fa i complimenti. Vuole che tu suoni per lui. Non è incredibile? Voglio dire, Gesù è apparso a un sacco di gente con un sacco di problemi, non fa neanche notizia ormai; ma Dylan che appare a Knopfler è la fiaba di Cenerentola - e invece è successo davvero. Lo porti giù in Alabama, nella sala d'incisione dove il grandissimo Jerry Wexler ha curato i lavori dei grandi dell'Atlantic e della Stax. Tu e Jerry avete appena finito di lavorare al secondo non indimenticabile disco dei Dire Straits; ma adesso realizzerete il disco che rilancerà Bob Dylan. Ha avuto un periodo difficile, ma adesso sta tirando fuori un sacco di nuove canzoni. Roba buona. Un sacco di blues, beh, se è blues siamo nel posto giusto. C'è solo un problema.
Sono tutte canzoni su Gesù.
Cristo.
Di tutti i momenti in cui ti poteva capitare di incontrare Dylan, proprio quello in cui si è dato anima e corpo al Vangelo. Il principe azzurro si è battezzato, va a catechismo tutti i giorni, vorrebbe convertire persino te. Tu che non hai mai avuto un vero Dio - fin qui ti bastava Dylan. E adesso?
Che tu sia un divo rock, rampante sul palco;
che tu abbia ogni droga, e ogni donna al tuo comando;
che tu sia un uomo d'affari, o un ladro d'alta società;
che ti chiamino dottore o che ti chiamino Maestà...
tu devi servire qualcuno.
Potrà essere il diavolo, o potrà essere il Signore, ma devi servire qualcuno. 
"Guarda, Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Sono senza speranza. Limitiamoci a fare questo disco, va bene?" (Jerry Wexler a Dylan, quando cominciò a parlargli di Gesù).
"Guarda, Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Sono senza speranza. Limitiamoci a fare questo disco, va bene?" (Jerry Wexler a Dylan, quando cominciò a parlargli di Gesù).
Non puoi servire Dio e mammona, diceva Gesù. Devi scegliere, ribadisce Bob Dylan in Gotta Serve Somebody, il sermone introduttivo. Eppure Slow Train Coming mi ha sempre dato l'impressione opposta, di un Dylan servitore di due padroni, deciso a tenere il piede in due scarpe tanto diverse: da una parte l'urgenza del convertito, il sacro fuoco dello zelo religioso; dall'altra il professionismo di Wrexler e Knopfler: la precisione quasi asfissiante con cui al Dylan rinato nella fede viene cucito addosso il vestito più elegante che abbia mai indossato. Gotta Serve Somebody è l'incarnazione di questa ambiguità: la canzone che rifiuta ogni compromesso col demonio è anche un singolo pulito e levigato che corre via che è un piacere, e che riporta Dylan nella top40 di Billboard. Ci vinse pure un Grammy per la "miglior performance vocale". L'ho sempre trovato un buffo paradosso, però forse ero vittima dei miei pregiudizi. Perché il professionismo e la fede religiosa dovrebbero essere due opposti, dopotutto?
Forse ragiono da cattolico. Non trovo credibile un predicatore che non vesta di sacco e non predichi la povertà: ma in America non è così. I pastori evangelicali pubblicano best seller, vanno in tv; non trovano senz'altro sconveniente servire Dio in giacca e cravatta. Il Gesù dei born again non grida ai ricchi di lasciare tutto quello che hanno e seguirlo: è un Gesù più pragmatico, un life-coach, ti chiede di darti una ripulita e sta attento che non ti riattacchi alla bottiglia. Non c'è nessuna contraddizione nell'aver trovato in Gesù un nuovo boss e nel dare al suo messaggio la veste più radiofonica possibile: più gente avrebbe raggiunto, più anime avrebbe salvato. Funzionò talmente bene che alcuni riuscirono ad accusarlo di opportunismo: di aver usato Gesù per attirare l'attenzione, di essersi convertito per aumentare il suo bacino di fan. Solo il flop dei due dischi successivi avrebbe convinto i più cinici che BD aveva veramente preferito Cristo a Mammona. Lo stesso Slow Train Coming è scivolato col tempo nel cono d'ombra della trilogia cristiana, la fase della sua carriera che fan e critici preferiscono aggirare e che lui stesso non frequenta volentieri: eppure quando uscì fu accolto bene. Per quanto in certi punti sembrasse un invasato, il furore religioso che lo animava era tutto sommato preferibile ai lamenti enigmatici di Street-Legal. Anche quando sembra un bigotto che borbotta contro i nemici dell'America, borbotta con una grinta che sembrava aver perduto da anni.
Sembra che Gesù abbia funzionato, dopotutto... (continua sul Post)
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Dylan contro Gozzilla

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Bob Dylan at Budokan (1979, ma registrato dal vivo nel 1978 al Budokan di Tokio)
(Il disco precedente: Street-Legal
Il disco successivo arriva lento, ma arriva).
Adagiato sul fondale di un oceano di rimpianto, il Mostro che un Tempo Era Stato Bob Dylan forse avrebbe voluto soltanto riposare per sempre. Dormire, sognare, eh magari. Cosa lo svegliò? Quale attorcigliamento del destino? Un'ondata anomala, una radiazione nociva, un flop al botteghino, un divorzio faticoso, un telegramma con un'offerta che non si poteva proprio rifiutare? Sia come sia, nell'alba del 1978 Bob Dylan si riscosse dal suo torpore e si innalzò sull'orizzonte dell'oceano, in cerca di cibo. Non era più un bardo vagabondo, né la voce della sua generazione. La mutazione era avvenuta: Bob Dylan era diventato un dinosauro. E Tokio lo aspettava.
Tokio va matto per queste cose.
Nippon Budokan 2010
CheapTrick_Live_atBudokanIl Budokan è il palazzetto olimpico, costruito per i giochi del 1964. Un anno dopo entrava nella storia accogliendo i Beatles. Da allora ha ospitato migliaia di artisti occidentali. Senza mai venire meno alla sua vocazione di palestra delle arti marziali, è uno dei luoghi al mondo in cui sono stati registrati più dischi dal vivo. Dev'essere una combinazione di fattori: buona acustica, un pubblico sempre entusiasta ma che non applaude o fischia al momento sbagliato, una questione di prestigio: il Budokan non è immenso, ma riempirlo è il segno che sei un grande - almeno in Giappone. Nel momento in cui la Columbia decise di stampare una versione americana di At Budokan (all'inizio era prevista la commercializzazione soltanto in Asia e Oceania, ma ovviamente le copie abusive non si fecero attendere), sugli scaffali dei negozi potevi trovare un live budokaniano di Eric Clapton, due live di due ex Deep Purple (Ritchie Blackmore coi Rainbow e Ian Gillan, entrambi tornati sul luogo del delitto) e soprattutto il più famoso disco dei Cheap Thrills, che prima di quel live non avevano mai avuto un disco nella top40, ma a Tokio erano stati acclamati come "i Beatles americani". I Cheap Thrills sono il classico esempio di gruppo americano Grande in Giappone: un'espressione proverbiale sulle due sponde del Pacifico. Quando hai tutto quel che ti serve per sfondare, e infatti sfondi, ma non a casa tua: dall'altra parte del mondo. Per gli statunitensi dev'essere particolarmente strano: trionfare in periferia mentre al centro dell'Impero non sanno chi sei. Non era certo il problema di Dylan.
I got the style but not the grace
I got the clothes but not the face
I got the bread but not the butter
I got the winda but not the shutter
But I'm big in Japan (Tom Waits, Big in Japan, 1999).
Deep_Purple_Made_in_Japan
Dylan è sempre stato grande soprattutto nei Paesi anglofoni. Quando arrivò al Budokan, nel febbraio del '78, non faceva un concerto all'estero da dieci anni. Era l'inizio del World Tour: 114 concerti in Giappone, Australia, Europa, USA. Di giri del mondo Dylan ne aveva già fatto almeno uno, e tanti altri ne farà, ma quello del '78 è il World Tour per eccellenza: quello in cui Dylan convinse più all'estero che in patria (dove comunque fece il maggior numero di date). Per la stampa americana era il terzo tour in cinque anni: e rispetto all'"energia" dei concerti con la Band, e alla spontaneità della Rolling Thunder Revue era più difficile mandar giù questo nuovo Dylan in tutina bianca, coi suoi turnisti e gli ottoni. Uno strano Dylan post-Elvis (ma anche pseudo-Springsteen), un Dylan con una scaletta rigorosamente imbottita di grandi successi imposti dagli organizzatori, rivisti con arrangiamenti professionali, un po' impersonali, de-dylanizzati: niente più momenti acustici. In compenso qualche reggae, uno spruzzo di salsa, un filo di funky, qualche pezzo da crociera. Un Dylan, per farla breve, da esportazione.
Un prodotto da turisti. Un Dylan a corto di liquidità (il divorzio e il film si erano rivelati due pozzi senza fondo), che prova a rivendersi ai mercati esteri ma non è affatto sicuro di cosa gli indigeni si aspettino da lui - e allora prova a nascondersi dietro la sagoma di un divo-tipo del rock americano anni Settanta: vi piacerà il sassofono? La E Street Band usa il sassofono, ce lo metto anch'io. E il reggae? La chitarra in levare di Don't Think Twice può risultare sconcertante, ma va calata nel contesto di quella manciata di anni in cui tutti dovevano avere almeno un pezzo reggae nel repertorio.

Veramente tutti.
Veramente tutti.
Da Bowie agli Smiths, la chitarra in levare sembrava l'unica cosa che mettesse d'accordo dinosauri e punk; l'equivalente dell'autotune di oggi, o dei campionamenti negli anni Novanta, o della rucola sulla pizza degli anni Ottanta: qualcosa che fino al giorno prima era esotico e qualche giorno dopo avrebbe stancato chiunque. Anche Dylan ci avrebbe regalato almeno un reggae memorabile, prima di accantonare il genere. Ma al Budokan aveva più di un buon motivo: doveva cucinare per l'ennesima volta Knockin' on Heaven's Door. Che il brano potesse funzionare anche con un tempo reggae lo aveva dimostrato, anni prima, Eric Clapton: magari Dylan non era sicuro di cosa piacesse ai giapponesi, ma aveva capito che amavano Clapton, che al Budokan aveva appena trionfato. E quindi reggae, perché no? La stessa All I Really Want to Do sembra più simile alla cover di Cher che alla sua. Quanto a All Along the Watchtower, dal vivo è sempre stata più hendrixiana che dylaniana - è come se At Budokan fosse un album di tributo a sé stesso: Dylan che interpreta i più grandi interpreti di Dylan. Oggi un concetto del genere potrebbe persino funzionare - nel pieno della rivoluzione post'77, sembrava un suicidio artistico (stavo per scrivere seppuku ma ho resistito) (no, non è vero, alla fine l'ho scritto).
at budokan
Quando uscì in Occidente, At Budokan fu vittima di un vero e proprio accerchiamento. Per alcuni critici era sciatto, per altri troppo rifinito. Qualcuno riuscì a dire entrambe le cose. Era il peggior disco live di Dylan (era anche il terzo in cinque anni) - anzi no, era il peggior disco di Dylan. Qualche critico scrisse che era il peggior disco nella storia del rock, perché no? C'è sempre un peggior disco della storia del rock da qualche parte (il solo Dylan potrebbe averne pubblicati cinque o sei). L'immagine di un Dylansauro che infierisce su Tokio con una collezione di vecchi successi aggiornati al gusto dei tempi era troppo ghiotta per gli operatori di un settore dove se non fai il cinico non ti legge nessuno. Di lì a poco Dylan avrebbe avuto la sua crisi religiosa, accreditando ulteriormente l'impressione che il World Tour fosse stato un passo falso - e se i live in generale soffrono il tempo più dei dischi di studio, questo è vero in modo particolare per At Budokan, un live che cercava con affanno di cavalcare tendenze musicali che Punk e New Wave stavano già dichiarando obsolete.

(A proposito di dinosauri occidentali che cercavano un rilancio:
due anni prima Muhammad Ali si era fatto massacrare gli stinchi dal wrestler Antonio Inoki).

Il risultato di tutto questo è che nel giro di pochi anni At Budokan divenne uno dei dischi meno ascoltati del suo catalogo, una curiosità per appassionati (come forse Dylan aveva previsto che fosse). Insomma io non lo avevo mai ascoltato, At Budokan, ok? Per quale motivo al mondo avrei dovuto farlo? Tutti ne parlavano male, nessuno ne aveva in casa una copia da prestare, ed era un disco doppio! Costava una follia, non conteneva un solo inedito e rappresentava una tipica fase calante della sua carriera. E anche quando la discografia intera approdò su Spotify, At Budokan restava un oggetto ben poco invitante. Il primo brano in cui incappai era quello iniziale, forse la più bolsa Mr Tambourine Man mai realizzata, con Steve Douglas al... piffero!

Oh, sister, when I come to lie in your arms you should not treat me like a stranger.
Oh, sister, when I come to lie in your arms, you should not treat me like a stranger.
Qui entriamo nel terreno delle idiosincrasie: io odio il piffero. Quando non è il flauto traverso di Jon Anderson; quando non viene usato per assoli prog, ma si limita ad accompagnare la melodia, lo trovo insopportabile. Se va per i fatti suoi è una distrazione; se segue il cantato è inutile: in ogni caso ottiene il risultato di precipitarmi a un concerto dei Modena City Ramblers. Se poi il pezzo è Mr Tambourine Man, la situazione è ancora più ridondante: è come se Dylan cercasse di spiegare ai giapponesi il senso della canzone, un turista americano che gesticola: il tambourine man è il pifferaio di Hammelin, capite? Lo stesso Dylan mi sembrava cantasse con scarsissima convinzione: se da una parte dovrei rallegrarmi perché finalmente ha capito come chiedere al mixer di alzargli il microfono, dall'altra mi fa capire quanto è difficile dover cantare con la voce di Dylan: o strepiti, o non sei convincente; e non puoi strepitare tutto il tempo.
Shelter from the Storm è se possibile ancora più desolante: Dylan decide di appoggiarsi alle coriste, col risultato di annullare non solo il sentimento della canzone, ma la stessa melodia: è uno dei suoi primi tentativi di rileggere una canzone su una nota sola - un omaggio al minimalismo nipponico? (Anche in Like a Rolling Stone, senza un apparente motivo, semplifica la scala ascendente delle strofe riducendola a un solo gradino, un solo intervallo di quarta: Do-Fa, Do-Fa, un Dylan per bambini: se ne sarebbero ricordati gli U2 ai tempi di Angel of Harlem).
Insomma non è che inizi nel migliore dei modi, At Budokan..(continua sul Post)
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Bob è un boss adesso

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Street-Legal (1978)
(Il disco precedente: Hard Rain
Il disco successivo: At Budokan)
Sedici anni, 
sedici stendardi allineati sul campo 
ove il buon pastore si strugge... 
Sei grande Bob, ora puoi uscire da solo.
Sei grande Bob, ora puoi uscire da solo.
Nel 1978 Dylan festeggiava appena i 16 anni di carriera (un ragazzino, direbbe oggi Vasco Rossi) e 18 album di studio. Tanti. Troppi. Gli unici due anni in cui la premiata ditta Dylan non aveva fatto uscire niente erano, curiosamente, il 1968 e il 1977: ovvero i due anni più importanti in tutto l'Occidente per la storia della musica e del costume. È solo un caso - in fondo ciò che chiamiamo "anno" non è che un insieme arbitrario di mesi: nel 1968 John Wesley Harding era uscito appena da una settimana.
E però che coincidenza irresistibile: fino al 1966 Dylan era all'avanguardia; con JWH comincia a remare ostinato in direzione contraria. Di solito si sottolinea l'abbandono della politica, ma si trattò anche e soprattutto di un isolamento creativo. Gran parte degli anni Settanta trascorrono in una bolla dove Dylan non è che se ne resti fermo, anzi: ogni disco ha un suono diverso, ma con ben pochi agganci a quanto stava succedendo nel resto del mondo (se non sapessimo quando furono registrati non riusciremmo a datare dischi come New Morning, o Blood on the Tracks). E per quanto i critici più benevoli abbiano cercato di leggere la furia auto-iconoclasta di Hard Rain come un'anticipazione del punk, il 1977 sembra davvero il taglio finale: da qui in poi la musica andrà per una strada e Dylan per la sua. A prova di questo, di solito si esibisce Street-Legal - non è che esistano molti altri motivi di esibirlo: un disco barocco nell'Anno Due del Punk, un disco per big band ai tempi dei Clash, un disco col sassofono! e le coriste! insomma un disco da dinosauro. Caso chiuso?

"Signori", disse, "non ho bisogno della vostra organizzazione. 
Ho lustrato le vostre scarpe, ho smosso le vostre montagne e segnato le vostre carte.
Ma il paradiso è in fiamme: o vi preparate ad essere eliminati 
o i vostri cuori dovranno reggere il cambio della guardia".
I Fleetwood Mac sul Rolling Stone nel 1977.
I Fleetwood Mac sul Rolling Stone nel 1977.
No. Lo chiudiamo se accettiamo pigramente l'idea che il 1977 sia soltanto l'anno del Grande Incendio di Londra, di Never Mind the Bollocks Damned Damned Damned. Ma è anche l'anno di Exodus, un piccolo passo per Bob Marley che si è trasferito nel Regno Unito, un passo enorme per l'Europa in cui la penetrazione del reggae sta per determinare una vera rivoluzione copernicana nei ritmi e negli arrangiamenti. È l'anno in cui le classifiche americane non lo sanno e si lasciano placidamente dominare dai Fleetwood Mac di Rumours, un disco di ballate e sentimenti - quello che Dylan intendeva realizzare con Street-Legal. È inoltre l'anno di Saturday Night Fever: la disco è dappertutto e i coretti vanno alla grande: è così strano che Dylan li introduca così massicciamente in Street-Legal?
Gerry Rafferty
Gerry Rafferty
È persino l'anno in cui in un piccolo studio di registrazione dell'Oxfordshire, un ex dylanoide della provincia scozzese, tal Gerry Rafferty, alle prese col suo disco d'esordio, decide di sostituire un ritornello che non prende forma con un riff di chitarra: ma il solista è già andato a casa. In compenso il sassofonista dice che può provarci lui col contralto, ne ha uno nel baule della macchina. La canzone era Baker Street e il contralto non era nemmeno ben accordato, ma non ebbe importanza - o sì? Il pezzo andò al numero 1 negli UK e in USA; altrettanto fece l'album, ma questo era solo l'inizio: nel giro di qualche mese i negozi di strumenti musicali esaurirono la scorta di sassofoni. Il 1977 fu anche questo: il riff fuori chiave di Baker Street non è la tromba che annuncia l'Apocalisse, ma qualcosa di forse peggiore: gli anni Ottanta. E l'anno dopo, Dylan decise di usare il sax per Street-Legal. Era un'idea così stramba, dopotutto?
MY, MY, MY, AYE-AYE, WHOA!
MY, MY, MY, AYE-AYE, WHOA!
Non si trattava piuttosto di un tentativo, per quanto maldestro, di rimettersi al passo coi tempi - qualsiasi cosa i tempi stessero preparando? Sul margine di un decennio in esilio, Street-Legal è uno dei dischi di Dylan che più risentono di quello che gli stava succedendo intorno, almeno a livello musicale. Contiene persino un singolo, Baby Stop Crying, che è il più smaccato tentativo dylaniano di Canzone Pop dai tempi di Nashville Skyline. Anche True Love Tends to Forget sembra pronta per partire in crociera ed essere inserita nella scaletta dell'orchestra. We Better Talk This Over è un plagio sicuramente inconsapevole di Days dei Kinks, che stavano anche loro riscoprendo il grande pubblico degli stadi. Invece il riff di Changing of the Guards, se il sassofonista fosse stato in vacanza e Dylan avesse deciso di farlo suonare a un chitarrista hard rock, sarebbe praticamente diventato lo stacco centrale di My Sharona, che i Knack avrebbero portato in classifica solo l'anno successivo. Provateci voi: alzate il volume a 11, fingete di avere una folta chioma bionda, e spennate gioiosamente Sol Sol, Re Re, Do Do! Rerere Sol Sol, Re Re, Do Do! Se volete chiedervi da dove Vasco ha preso gli accordi di Siamo Solo Noi e Colpa d'Alfredo... no, non credo li abbia presi da Changing of the Guards. Sono solo tre accordi (è più facile che avesse in mente Sharona, o Baba O' Riley). Ma insomma, anche quei tre accordi semplici, maggiori, positivi, sono il suono degli Ottanta che si avvicinano. E allora perché Street-Legal è invecchiato così male? Peggio di Siamo solo noi?

Pace verrà, 
con tranquillità e splendore su ruote di fuoco 
ma non porterà ricompense 
quando i suoi falsi idoli cadranno 
e una morte crudele si arrenderà 
con il suo fantasma pallido che batte in ritirata 
tra il re e la regina di spade. 
George Corley Wallace
Con Nixon nel 1974.
In un pomeriggio d'estate di quello stesso 1977 la nuova fidanzata di Elvis Presley lo trova esanime sul pavimento del bagno. Non risponde, non respira. Nel suo organismo troveranno tracce di quattordici sostanze diverse, quasi tutte generosamente prescritte dal suo medico. La notizia della sua morte sconvolgerà milioni di persone, tra cui un suo vecchio fan del Minnesota, anche lui leggenda del rock, che per una settimana non avrebbe rivolto la parola a nessuno. Di lì a poco Dylan avrebbe messo a contratto il promoter che aveva organizzato il tour più fortunato di Presley, Jerry Wintraub; nella sua band avrebbe rimpiazzato il fido Rob Stoner col bassista di Elvis, Jerry Scheff; avrebbe imposto ai suoi musicisti candidi e attillati costumi di scena, una rottura completa con l'estetica stracciona della Rolling Thunder: ma anche un evidente omaggio alla fase calante della carriera di Elvis. Dylan lo ammirava, tra le altre cose, per la sua capacità di rialzarsi dopo una caduta (se abbiamo capito bene Went to See the Gipsy). La fine ingloriosa del 1977 metteva in crisi anche quest'ultima leggenda. La prima reazione di Dylan è il rifiuto: non è vero, Elvis non può morire. Raccogliendo la sua fiaccola, Dylan fece quello che persino Elvis non era riuscito a fare: la portò fuori dagli USA, persino più in là delle Hawaii, oltre il grande mare, fino in Giappone e poi in Europa; e a Londra, dove non suonava dal terribile 1966 e dove in un locale incrociò Sid Vicious che prima di essere spintonato altrove riuscì a chiedergli: "Ma sei Bob Dildo?"
Nancy e Sid
Nancy e Sid
Dylan era senz'altro più simile a un dinosauro che a un punk. Dylan ora era il boss di una grande band in giro per il mondo. Tutti i musicisti e le cantanti, li aveva provinati, li aveva scritturati, ogni tanto li licenziava e rimpiazzava. Nei programmi dei concerti però alla voce Dylan non c'era "boss", ma "cantante". Dylan si sentiva soprattutto questo, nel 1977/78: un performer. L'ingranaggio centrale di una macchina ben oliata. Tutte le sere lo stesso repertorio, senza mattane. Dopo le follie del Rolling Thunder, ora Dylan cercava rifugio nel professionismo. Avrebbe fatto un disco presentabile, professionale, adulto: un disco street-legal (che significa anche "sedicenne", ovvero in grado di uscire in strada da sola). "Taking Care of the Business", come avrebbe detto Elvis. Eppure Elvis era morto circondato da un entourage che non riusciva a fargli smettere di ingollare medicine e patatine, e anche Dylan era pur sempre Dylan: dopo la prima sessione di Street-Legal licenziò in tronco tutti i musicisti. Li riassunse il giorno dopo. Street-Legal secondo alcuni suonerebbe meglio, se Dylan non avesse di nuovo fatto eliminare tutte le tramezze dello studio (come a Nashville ai tempi di Blonde on Blonde) e registrato le nuove canzoni in fretta, praticamente live, senza darsi troppa pena di aspettare la versione migliore. Il solito autosabotaggio. Qualche anno fa il produttore Don DeVito lo rimasterizzò, ma niente da fare: anche se diventa più limpido, rimane sempre Street-Legal.
Señor, Señor, perché non stacchiamo tutti i cavi 
e rovesciamo quei tavoli? 
Questo posto per me non ha più senso. 
Mi dici cosa stiamo aspettando, Señor?
Alcuni dischi, lo sappiamo, Dylan li ha fatti brutti apposta: sono esercizi di bruttezza. Altri gli sono usciti così per sbaglio; per mancanza di idee o di direzione, di parole, di musica. Street-Legal non è brutto così. Quando lo compose, Dylan aveva un sacco di parole (più manieriste e lambiccate del solito), aveva melodie in abbondanza. Aveva addirittura delle idee sugli arrangiamenti. E si era fatto una big band esattamente come la voleva lui. Stavolta insomma Dylan un'idea ce l'aveva. E però... era l'idea sbagliata
Non è tanto il sax in sé - che c'è di male in un sax dopotutto? Non sarebbe stata la prima volta che uno strumento particolare diventa l'ingrediente dominante di un suo disco: l'organo di Kooper in Blonde on Blonde, il violino della Rivera in Desire (ma anche il basso di Stoner in Blood on the Tracks). Ma... (continua sul Post)
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Il circo itinerante del tuono rotolante

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The Rolling Thunder Revue (The Bootleg Series Vol. 5, pubblicato nel 2002 ma registrato nel 1975).
(Il disco precedente: Desire
Il disco successivo: Hard Rain)
E se io e te partissimo, uno di questi giorni? Se prendessimo un treno, anzi un pullman, e ce ne andassimo in giro per l'America finché non ci stanchiamo e lei di noi? E se invitassimo tutti i miei amici - scusa, tutti i nostri amici - in fondo che hanno da fare a parte suonare, bere e farsi? Potremmo anche passare a prendere la mia ex, è un sacco che ho voglia di vederla, così diventate amiche. E un team di registi per farci i filmini. Secondo me sarebbe fortissimo, se un giorno io e te partissimo. Purtroppo abbiamo tante altre cose più serie da fare.
Roger McGuinn, Joni Mitchell, Richi Havens, Joan Baez e Bob Dylan.
Roger McGuinn, Joni Mitchell, Richi Havens, Joan Baez e Bob Dylan.
Nell'autunno 1975 Bob Dylan non le aveva. Per quanto la sua icona sia associata indissolubilmente alla metà degli anni Sessanta, dieci anni dopo si ritrovava sulla cresta dell'onda molto più di quanto era e sarebbe mai stato. Before the Flood Blood on the Tracks avevano già ottenuto un disco di platino ciascuno, The Basement Tapes un disco d'oro. Desire, già in canna, avrebbe venduto ancora di più. Improvvisamente il pugile suonato di qualche anno prima aveva ritrovato lucidità e grazia: uno di quei rari momenti in cui qualsiasi cosa scegliesse di fare, per quanto bizzarra, funzionava: e scelse di andare in giro per il Paese con una carovana di vecchi e nuovi amici. Funzionò (più o meno). 
Bob_Dylan_-_The_Bootleg_Series,_Volume_5I concerti della Rolling Thunder Revue duravano quattro ore. Nei camerini della Rolling Thunder Revue c'era un tizio che girava col sacchetto di cocaina: veniva detratta dalla paga, 25$ il grammo. Sul palco della Rolling Thunder Revue si alternavano Bobby Neuwirth (dopo dieci anni di nuovo nello staff di Dylan), Roger McGuinn, Ramblin' Jack Elliott, Ronee Blakey (la protagonista di Nashville), il chitarrista degli Spiders from Mars, Mick Ronson. Nella prima data della Rolling Thunder Revue suonò anche Phil Ochs, ma era conciato piuttosto male e qualche mese dopo si suicidò. C'era anche Allen Ginsberg, nella Rolling Thunder Revue; anche se i suoi reading uscirono presto dalla scaletta lui continuò ad aggirarsi per i backstage ad aggiungere quel tocco di poesia. Nella Rolling Thunder Revue a un certo punto si ritrovò persino Joni Mitchell, che dopo un concerto pensava di andarsene; ma il batterista fece un broncio e lei restò. Al Madison Square Garden, durante il concerto della Rolling Thunder Revue per Rubin Carter, salì sul palco anche Muhammad Ali. Durante la Rolling Thunder Revue, la Blakey si fece tagliare i capelli corti così che sembrava una sorella minore di Joan Baez. Quest'ultima si faceva filmare in vestito da sposa e da prostituta dai cineasti che a un certo punto invitarono nella Rolling Thunder Revue anche Sara Dylan - col disappunto del marito che dovette sloggiare un'altra compagna di letto. Quante altre donne potevano ronzare attorno a Dylan durante la Rolling Thunder Revue? A un certo punto arrivò anche sua madre.Ai concerti della Rolling Thunder Revue, Dylan si presentava truccato; una specie di clown bianco. Qualche volta si mise anche una maschera (da Nixon, o da Bob Dylan), ma doveva togliersela al primo assolo di armonica.
Joan Baez
Joan Baez qualche anno più tardi, sul confine cambogiano.
La Rolling Thunder Revue è una cosa a cui in un mondo migliore avrebbero diritto tutti, più o meno sui trentacinque anni: radunare su un paio di pullman gli amici di tutte le età, e darci dentro come se non ci fosse un domani. Probabilmente è il tour migliore che Dylan abbia fatto, e il volume doppio della Bootleg Series è il miglior Dylan live che si possa ascoltare - è un giudizio a cui si può arrivare per esclusione: il suono non è caotico come ai tempi degli Hawks, Dylan non sembra costantemente incazzato come in Before the Flood, la voce è ancora solida e soprattutto il repertorio è il migliore di sempre: mette insieme cose antiche come Blowing in the Wind (rifatta acustica con la Baez, fa scomparire completamente dalla vergogna la versione di Before the Flood) e cose come Isis Hurricane, talmente fresche che non erano ancora state pubblicate (ci sono ben sei pezzi di Desire, e sono tutte versioni che rivaleggiano con quelle incise in studio). 
Ci sono perle di valore assoluto, come una Hattie Carroll elettrica che la chitarra di Ronson trasforma quasi in un pezzo pop, senza togliere un grammo allo sdegno che Dylan riesce a ispirare cantandola; una Mama You Been On My Mind, di nuovo con la Baez, ma soprattutto con un gruppo che si diverte un mondo a fingersi orchestrina ragtime; una Simple Twist of Fate eseguita in solitaria che ci dà un mezza idea di che disco sarebbe stato Blood on the Tracks se Dylan avesse davvero deciso di inciderlo acustico; una Just Like a Woman riletta con un tocco glam-rock che è l'unica concessione allo spirito dei tempi. C'è davvero un sacco di roba buona e alla fine resta la voglia di sentirne di più. Il guaio è che il modo di sentirne di più è passare a Hard Rain... (continua sul Post).
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Il disco chiamato Desiderio

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Desire (1975, ma pubblicato nel 1976)
(Il disco precedente: Blood on the Tracks
Il disco successivo: The Rolling Thunder Revue)



Ho ancora la CASSETTA! (in realtà ho solo la custodia, ma in fondo è meglio così - dove l'ascolterei, una cassetta?)
She was there in the meadow where the creek used to rise
Blinded by sleep and in need of a bed,
I came in from the east with the sun in my eyes
I cursed her one time then I rode on ahead...
Ciao, che piacere rivederti, ti aspettavo.
Accomodati pure in veranda, c'è la tua poltrona preferita. Ti preparo qualcosa?
Non c'è bisogno di presentarsi, no? Sono il disco di Dylan di questa settimana. Lo so, non sono ufficialmente il tuo disco preferito. Non sono il disco preferito di nessuno. Ma mi va bene così.
Quando ogni tanto una rivista specializzata decide di fare una classifica ragionata dei dischi di Dylan, e chiama un sacco di giornalisti a dare i voti, alla fine io non sono mai nei primi tre. Di solito neanche nei primi cinque. Lo capisco. Lo rispetto. Ci sono quelli un po' quadrati che preferiscono Highway 61 o Blonde on Blonde, perché insomma, il Dylan importante è quello di metà Sessanta, quello appena approdato al rock d'avanguardia. Io invece sono un disco di metà anni Settanta, un po' reazionario, coi violini e le fisarmoniche - i mandolini, addirittura! Se devi scegliere un disco che ha fatto la Storia, mica puoi scegliere me. Io sono un episodio, vivo in una bolla tutta mia che scoppiò quasi subito.
She said, where ya been?, I said, no place special
She said, you look different! I said, well, I guess
She said, you've been gone... I said, that's only natural
She said, you gonna stay? I said, if you want you me, yes!
 
Dirò una cosa cattiva: sembra un ladro appena uscito da un appartamento, deve avere due o tre giacche addosso.
(Dirò una cosa cattiva): sembra un ladro appena uscito da un appartamento, con due o tre giacche addosso, sei camicie e due maglioni.
Ci sono i dylaniti che ci tengono sentirsi più maturi, più sofferti, e allora non c'è storia: devono votare per Blood on the Tracks. Io invece sono un disco allegro, ingenuo, e pieno di un'insana voglia di avventura, un desiderio di tutto e di niente. Dylan mi concepì durante un festival di zingari in Camargue, in un momento in cui aveva provvisoriamente fatto pace con Sara e per festeggiare era andato a far baldoria a un oceano di distanza. Non mi puoi mettere sul piatto per darti un tono, sono un disco un po' sbracato. Certo, sono il disco di Isis e di Sara, due valzer così personali che non le fece cantare a Emmylou Harris, la corista onnipresente nel resto del disco. La prima è la ballata in cui Dylan racconta il suo matrimonio come se fosse un western in technicolor - quelli un po' fiabeschi come Mackenna's Gold, o certi filmoni esotici come Timbuctù. Racconta di avere sposato Iside il quinto giorno di maggio (dunque Dylan è Osiride, inventore dell'agricoltura?) e di averla lasciata immediatamente, sviato da un avventuriero (Seth?) in cerca di una tesoro; attirato da miraggi di diamanti e di gloria che si riveleranno vacui come la tomba in cui alla fine seppellirà il compagno (mentre nel mito egiziano è Seth che convince Osiride a entrarci dentro). Ok, è stata una pessima idea, ma va tutto bene, perché il calendario gira e presto arriverà un altro cinque maggio, e Iside è lì che lo attende, pronto a risposarlo come in fondo è naturale che sia - ecco, se ti interessa il Dylan sentimentalmente tormentato non puoi assolutamente ammettere di cedere davanti a quel "If you want me to, yes!", che è il verso più felice che Dylan abbia mai cantato, sollevato come un condannato davanti alla grazia: mi ha detto di sì! tutto è perdonato!

Sophia Loren e Rossano Brazzi sul set di Timbuctù (dove l'avete messo John Wayne?)
I laid on a dune I looked at the sky
When the children were babies and played on the beach
You came up behind me, I saw you go by
You were always so close and still within reach.
E poi c'è Sara: ma come fai ad ammettere che Sara sia la sua migliore canzone d'amore? È così nuda, senza più schermi che non siano quello di vetro dietro cui Sara Dylan lo stava guardando e ascoltando registrare. Niente più pseudonimi - anzi, una delle molle che lo spinsero a scriverla fu proprio l'aver scoperto che la gente credeva che Sad-Eyed Lady of the Lowlands fosse dedicata a Joan Baez, ma come? Non ci arrivano? Prima che la sposasse si chiamava Sara Lownds! Niente da fare, i gossippari sono così ottusi. Sara è la verità senza più abbellimenti, l'ultima risorsa di un uomo che deve farsi perdonare Idiot Wind e chissà quante altre cose assai più gravi per una persona che oltre ad ascoltare le sue canzoni dovrebbe anche dividerci un letto. Come ha notato Alessandro Carrera, ha delle rime disperate (kelp/help), sembrano fiori raccattati all'ultimo momento da un'aiuola. Ha dei versi un po' andanti, dei puntelli provvisori che non ha fatto in tempo a togliere: ("How did I meet you? .... I don't know"!) E come nei momenti migliori di Dylan, è un miracolo: sin dalle prime battute, mentre l'armonica si intona prodigiosamente col violino, la batteria comincia a picchiare e su qualche parete è come se girasse il super8 di una vecchia vacanza al mare. Sara, siamo stati felici. Questo non potrà togliercelo nessuno. Dylan ha avuto centinaia di parole più ispirate - Dylan ha avuto migliaia di parole. Ma quando ascolti Sara, per un attimo, ti convinci che finalmente abbia trovato quelle giuste. Non le più poetiche, non le più sottili, anzi: quelle giuste. Non lasciarmi, non te ne andare mai. Toccante, ma anche un po' imbarazzante. Non puoi mica preferirla a Sad-Eyed Lady, o a If You See Her; non puoi ammettere che per un po' su quella spiaggia ti è sembrato di esserci anche tu: e che ci facevi? Il terzo incomodo? Badavi ai bambini? Manco Emmylou ha fatto entrare. Non puoi preferire Sara alla sua nemesi, Idiot Wind, molto più immaginosa e spietata e sicura di sé: lo capisco. Questo è Dylan. L'odio vince spesso sull'amore. Mi va bene anche così.

Now the beach is deserted except for some kelp
And a piece of an old ship that lies on the shore
You always responded when I needed your help
You gimme a map and a key to your door.

Emmylou Harris, molti anni dopo. Ha inciso decine di dischi; quello più venduto l'ha registrato in due giorni e non ne era affatto convinta.
Emmylou Harris, molti anni dopo. Ha inciso decine di dischi; quello più venduto l'ha registrato in due giorni e non ne era affatto convinta.
Poi ci sono i dylaniti salomonici, che vorrebbero tenere insieme il Dylan folk e quello rock, e allora pescano Bringing It All Back Home: è come andare a un ristorante dove sai che fanno bene i ravioli e la costata, e chiedere una costata coi ravioli. Oppure gli snob di tutti i tipi, quelli che devono per forza elaborare una risposta originale, e allora li vedi ingegnarsi a scambiare per capolavori cose come John Wesley Harding, o i dischi più recenti. Ci sono gli acustici duri-e-puri, c'è persino il partito dei Basement Tapes; ce n'è di gente strana al mondo. Io per loro sarei una scelta troppo banale, perché... ho venduto troppo, primo in classifica sia in USA che in UK (mai successo prima), in cima a Billboard per un mese, sono un doppio platino. Non possono mica scegliere me, ma li capisco. In fondo la musica serve anche a farci sentire diversi da tutti gli altri, speciali. Ma non c'è niente di speciale nell'avermi in casa, io sono il disco di Dylan che a un certo punto avevano in casa tutti. Chi ne aveva soltanto uno aveva me. Sono come Assassinio sull'Orient-Express, Il piccolo principe, L'isola del tesoro. Nessuno si può vantare con la mia copertina, nessuno mi sfoggia sulla mensola più in vista. Alcuni mi nascondono.

Oh, sister, when I come to lie in your arms
You should not treat me like a stranger
Our Father would not like the way that you act
And you must realize the danger

20170619_194650
"This Record Could Have Been Produced by Don Devito".
Anche quelli che mi apprezzano, devono sempre trovarmi qualche pecca. Sono il fratello minore di Blood on the Tracks, come posso sperare di competere? Si capisce che Dylan mi incise di slancio, sulla cresta dell'onda che finalmente dopo anni di attesa era riuscito a trovare e cavalcare, mentre metteva insieme musicisti per il suo tour più folle. Prima ci fu una serie di session assurde, a cui vennero invitati praticamente tutti i musicisti che erano a NY in quel momento, tra cui Eric Clapton - ma forse più che incidere qualcosa Dylan voleva fare una festa, un grande scherzo, era in una di quelle fasi tardo-matrimoniali in cui anche i solitari cercano compagnia. Magari a quel punto aveva notato che i suoi dischi migliori erano il risultato di un percorso in due tappe: una prima fase caotica e complicata in cui non riusciva a trovare il bandolo della matassa, e una seconda tappa in cui ripescava le cose migliori e le ri-registrava in fretta. Forse pensava che senza un'altra fase di baccano non gli sarebbe più occorso un altro di quei momenti miracolosi, limpidi, in cui tutto si incastra alla perfezione: e forse aveva ragione.

Scarlet Rivera, qualche anno dopo.
Scarlet Rivera, qualche anno dopo.
Così, dopo aver spazzato via tutto il materiale delle prime sessioni, trattenne una squadra di quattro-cinque elementi e in una lunga notte di luglio mi registrò, quasi al primo colpo. Poi mi tenne in fresco per mesi, perché la Columbia aveva deciso di pubblicare prima i Basement Tapes, e nel frattempo cominciò a suonare i miei pezzi in giro per i teatri. A metà del tour mi stappò come una bottiglia di champagne: ero perfetta. Vendetti un sacco, piacqui a tutti, anche nessuno lo confessava volentieri. Greil Marcus non mi volle recensire; Christgau sul Village Voice mi diede un B- (aveva dato un A- a Planet Waves...) Alla fine dell'anno ero 26mo nella classifica del Voice. L'anno prima i Basement Tapes erano in testa. Insomma: buono, ma non ottimo. Ma non m'importa, sul serio, sono a posto così.
Forse il mio problema è che ai dylaniti piace soprattutto Dylan: è lapalissiano, ma si dà il caso che io sia il meno dylaniano dei suoi dischi storici: mentre Blood è un disco così personale che chi suonava con lui non riusciva nemmeno a capire che accordi usasse, io sono un lavoro di gruppo, forse il suo disco più corale. Quello che mi rende unico è la combinazione degli strumenti, dei musicisti. Scarlet Rivera, soprattutto. È una violinista di origini siculo-irlandesi che un giorno Dylan recuperò al Village: la vide passeggiare con una custodia di violino e la fece salire sulla limo con una frase da rimorchio piuttosto cruda: "ma lo sai suonare?" Desire è la risposta alla domanda. Il violino della Rivera è onnipresente come l'organo di Kooper in Blonde on Blonde (e alla lunga può dare lo stesso fastidio); riempie gli spazi lasciati dal canto, ed è altrettanto sguaiato, sfrenato e inimitabile: sempre sul filo della stonatura, proprio come la voce di Dylan. Ma anche quest'ultima è meno dylaniana del solito, perché il nostro eroe, che qualche anno prima aveva registrato un intero disco con la Band senza concedere ai suoi tre ottimi cantanti nemmeno un coro, stavolta ha deciso di farsi doppiare in molti passi da una voce femminile (Emmylou Harris, appunto), che in teoria dovrebbe armonizzare con lui. Ovviamente il risultato è spesso dissonante - come fai a intonarti con un tizio che non canta mai la stessa nota? (la Harris credeva che fosse solo una prova; sperava che buttassero via tutto). Ma è anche qualcosa di unico: non c'è un altro disco in cui Dylan e una donna cantino così. Col senno del poi, è la spia di un disagio: Dylan sta iniziando a soffrire dei limiti della propria estensione. Presto comincerà ad andare in giro con un coro femminile che gli sottolinei i ritornelli. Ma in questo specifico caso, Dylan ha semplicemente scritto canzoni talmente dolci, duttili, agili, che sarebbe un peccato sentirle cantare su un'ottava sola. Desidera suonarle tutte, come un bambino che gioca con la tastiera di un pianoforte. Va bene, ma ai dylaniti piace sentir cantare Dylan, e qui è come se a volte si nascondesse.

Qualche mese dopo - il disco non era ancora uscito - Dylan dovette rientrare per reincidere un pezzo di Hurricane che preoccupava un po' gli avvocati. A quel punto ormai aveva scelto come corista Ronee Blakey - la protagonista di Nashville - e quindi la voce che canta in Hurricane a volte è quella di Emmylou e a volte è la sua (io non le distinguo).
Qualche mese dopo - il disco non era ancora uscito - Dylan dovette rientrare per reincidere alcune strofe di Hurricane le cui allusioni preoccupavano un po' gli avvocati. A quel punto ormai era in tour con Ronee Blakey - la protagonista di Nashville - e quindi la voce femminile di Hurricane a volte è quella di Emmylou e a volte è la sua (io non le distinguo).
Altrettanto dissonante è la bizzarra armonia tra violino e armonica: una cosa mai provata né prima né dopo. Tutto questo renderebbe già il mio sound inconfondibile (se mi metti sul piatto mi riconosci al primo colpo), anche senza il dettaglio finale: sono stato mixato con la batteria altissima. Perché? Non si sa. Forse piaceva al produttore Don DeVito, forse a Dylan: fatto sta che ogni volta che mi ascolti hai la sensazione di vedere tutti gli altri musicisti parzialmente nascosti dai piatti e dal charleston, dal punto di vista meno usuale per l'ascoltatore: quello del batterista, Howie Wyeth. Ci sono dischi di Dylan che ti fanno cantare, dischi che ti fanno fischiettare; io ti faccio tamburellare, ti faccio pestare i piedi, è più forte di te. Ma se ti chiedono qual è il disco migliore di Dylan, mica puoi dire: mi piace lui, perché mi fa pestare i piedi - ehi, stiamo parlando di un premio Nobel! Dylan va apprezzato per i testi!
 
Ecco, appunto, i testi. I dylaniti ci tengono molto. E io per molto tiempo fui l'unico vero disco che Dylan non si era scritto da solo (Self Portrait non conta). Era tornato dalla Camargue con un sacco di storie in testa, e quel metodo simultaneista che aveva messo a frutto in Blood non gli tornava più utile. Voleva rimettersi a scrivere storie in un modo più tradizionale, con un inizio e una fine - e a dargli più problemi erano proprio gli inizi. Desiderava rimettersi a parlare di fatti di cronaca, come ai tempi The Times They Are A-changin'; desiderava persino aiutare un ex pugile che gli aveva scritto dal carcere, dove l'avevano rinchiuso ormai da otto anni per un triplo omicidio che non aveva commesso. Desiderava ricominciare a dar battaglia con le parole, ma non tutte le parole gli venivano. Aveva bisogno di quei versi che ti prendono di peso e ti buttano dentro alla canzone. Così - scandalo! - si fece aiutare.

ohcalcutta
dyaniano al 100%
L'aiutante si chiama Jacques Lévy, e faceva il regista teatrale - aveva diretto la prima versione off Broadway di Oh, Calcutta! - insomma, uno di quei personaggi con cui potevi fermarti una sera a discutere in un locale del Village. Lévy aveva già scritto qualche canzone, ad esempio per Roger McGuinn: ma l'opportunità di collaborare con Dylan fu un enorme regalo che gli fece il caso. Mettetevi però nel dylanita. Come può ammettere che alcuni dei migliori racconti in versi che Dylan ha mai scritto sono il risultato della collaborazione con un tizio che nemmeno scriveva canzoni di mestiere? Come si fa ad accettare che prima di incontrare questo regista di balletti discinti, Dylan non avesse mai messo su carta un inizio folgorante come quello di Hurricane? (Continua sul Post...)
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È il sangue di Bob Dylan su quei solchi?

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Blood on the Tracks (1975)

Enrico_Mazzanti_-_the_hanged_Pinocchio_(1883)
Mazzanti, Le avventure di Pinocchio, 1883 (che gran finale sarebbe stato, eh).
Qualcuno deve avercela con me, mandano bufale ai giornali...
Come a questo punto qualcuno avrà indovinato, Bob Dylan non esiste.
È solo una finzione letteraria. Non sapevo più cosa scrivere per il Post e allora mi sono inventato la discografia finta di un personaggio che comincia a strimpellare la chitarra nei caffè del Village, poi incontra Joan Baez, diventa un attivista politico, poi una rockstar, e poi... il proposito originale era farlo morire sul più bello, in moto, ma ai lettori ormai piaceva troppo, non si sarebbero rassegnati alla fine della storia, e allora ho aggiunto una convalescenza (proprio come Collodi che voleva far morire Pinocchio impiccato, ma i lettori protestarono e lui lo fece risuscitare dalla Fata Turchina: non fosse stato per i lettori, a Pinocchio non sarebbe mai cresciuto il naso a causa delle bugie). Il personaggio però cominciava a stancarmi e così ho provato a renderlo odioso, gli ho fatto incidere alcuni dischi orrendi, ma questo alla fine lo ha reso ancora più interessante - e poi anch'io mi stavo affezionando ormai. A questo punto però non so davvero cosa fare. Mi piacerebbe continuare il feuilleton fino a Natale, ma come? Ormai il mio eroe è una rockstar a fine carriera. Che altro può fare, a parte qualche disco mediocre, qualche tour celebrativo, eccetera eccetera? Mica può rimettersi a sfornare capolavori adesso, no? Dopo sette dischi magri? Non sarebbe un romanzo credibile. Insomma mi ritrovo in uno di quei momenti in cui un buon scrittore d'appendice tirerebbe fuori il Gemello Cattivo.

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Chiostri, Le avventure di Pinocchio
Lui aveva sempre fretta, troppo impegnato o troppo fatto; e tutto quello che lei progettava veniva sempre posticipato. Lui pensava che quello fosse il successo, lei pensava che fossero stati benedetti con tante belle cose materiali. Ma io, io non mi sono mai lasciato impressionare. (Nel testo originale di Tangled Up in Blue, Dylan slitta ogni tanto dalla prima alla terza persona: sembra un osservatore esterno, il coinquilino di una coppia instabile).
Mettiamola così: a fine 1974, un tizio bussa al portone degli studi della Columbia sulla 54esima Strada. Si presenta come "Bob Dylan" e non c'è motivo per non dargli retta, insomma si vede benissimo che è lui. Ha gli occhi di Bob Dylan, il naso di Bob Dylan, e poi la voce, andiamo, nessuno gli chiede un documento. Alcuni tecnici del suono restano perplessi: ma come, non aveva rotto con la Columbia? Il produttore Phil Ramone se ne infischia, perdio, c'è Bob Dylan nell'edificio: quando gli ricapita? Manda subito a chiamare la band di Eric Weissberg, l'eroico suonatore di banjo di Un tranquillo week-end di paura: c'è Bob Dylan che vi aspetta nello Studio A, fate tutto quello che vi dice Bob Dylan. Dylan in realtà non dice niente. Ma è normale. Si mette subito a suonare. Ok, lo sanno tutti nell'ambiente che l'unico modo per accompagnare Bob Dylan è guardargli le mani e cercare di anticipare l'accordo che sta per impugnare sul manico della chitarra. Non è facile, ma non è nemmeno un'impresa, salvo che stavolta...
Stavolta ha un'accordatura aperta. Da quand'è che non le usava più? Forse più di dieci anni. Ma che significa "accordatura aperta", poi?

(Lui è solo un attore, ma le mani dovrebbero essere quelle di un vero suonatore di banjo).
(Lui è solo un attore, ma le mani dovrebbero essere quelle di un vero suonatore di banjo).
Ogni corda di una chitarra è una specie di minitastiera: ovunque metti il dito, suoni una nota diversa. Dunque sul manico è come se avessi sei minitastiere affiancate, no? Ecco. La prima volta che ci pensi ti vengono le vertigini, ma in realtà queste sei minitastiere sono affiancate sempre nello stesso modo, e questo fa sì che quasi tutti i chitarristi al mondo abbiano una gestualità simile, riconoscibile. Gli accordi sono tanti, ma non tantissimi. È una lingua di trenta parole, mettiamola così. Non si impara in un giorno, ma è meno difficile di qualsiasi lingua tu stia parlando. Però.
A volte qualche chitarrista decide di affiancare le tastiere in qualche altro modo. Si chiama accordatura "aperta", nel senso che è aperta a qualsiasi possibilità. A quel punto le vertigini ti tornano, perché gli stessi gesti stereotipati che sei abituato ad associare a un accordo, adesso suonano diversi. È come se aprissi la bocca per dire una parola e te ne uscisse un'altra. Bisogna imparare tutto da capo. Certo, se si tratta di suonare nel nuovo disco di Dylan, ne vale la pena.

Anche la grafica della copertina è molto più ricercata del solito, in lieve anticipo sui tempi. Le note sul retro vinsero un Grammy, ma accreditavano i musicisti sbagliati.
Anche la grafica della copertina è molto più ricercata del solito, in lieve anticipo sui tempi. Le note sul retro vinsero un Grammy, ma accreditavano i musicisti sbagliati.
Salvo che Dylan non ha la minima intenzione di spiegarvi come ha accordato la sua chitarra. È 'aperta' solo per lui. Per voi è chiusa. Ha scritto una dozzina di canzoni così, e si aspetta che voi le accompagnate. Oppure no, si aspetta soltanto che rinunciate. A uno a uno i musicisti saltano. Persino Mike Bloomfield, recuperato dieci anni dopo Highway 61, aveva gettato la spugna. Dopo un po' è rimasto in lizza soltanto il bassista, Tony Brown, che in un qualche modo riesce a capire cosa Dylan si aspetti da lui. Più che decifrare gli accordi, Brown segue la melodia: appena riesce a trovare la nota giusta, la sottolinea alzandola di un'ottava. Un espediente molto semplice che crea una specie di profondità e forse a Dylan non dispiace. Lui comunque continua a non dire niente. A volte si interrompe a metà canzone e ne comincia un'altra. Phil Ramone lo lascia fare, il genio non si disturba. In capo a quattro giorni un disco è pronto. È diverso da qualsiasi altro disco di Dylan. È un po' più cupo di John Wesley Harding, e ancora più crudo: basso, chitarra, e l'armonica che si muove un po' a disagio tra quegli accordi dissonanti. Ramone ha aggiunto solo un po' di riverbero alla voce. È un disco più tagliente di Blonde On Blonde, aspro come Dylan non è stato da anni - forse come non è stato mai. Probabilmente ha litigato con la moglie, è l'unica spiegazione per certe canzoni sorprendentemente livorose. Ma anche per certe ballate un po' più tumide del solito - dopo tanto tempo sembra che il Dylan che canta abbia riscoperto la fase del corteggiamento, con le sue gioie, e soprattutto le sue frustrazioni. La mestizia di alcune nuove canzoni sembra quasi un contrappasso alla sfrontatezza di quelle di dieci anni prima: vi ricordate di quando Dylan cantava "vattene via, non sono da solo" a una tizia che lo seccava di notte al citofono? Ecco, adesso la scena sembra invertita, adesso la tizia è lassù che se la spassa con qualcuno, e a appeso al citofono come un salame è rimasto lui, il famoso Bob Dylan - com'è possibile?
L'amore è così semplice, tanto per citare una frase. Tu l'hai sempre saputo, io lo sto imparando in questi giorni. Ah, e so dove ti posso trovarti: nella camera di qualcuno. È il prezzo che devo pagare: adesso sì, sei una ragazza grande 
Qualche giorno dopo i funzionari della Columbia chiamano Ramone: tieni libero lo Studio A, Dylan ha firmato, sta per venire a fare un disco. Come sarebbe a dire? Risponde lui. Guardate che è stato già qui una settimana fa. E il disco è pronto. Eh?
Poco dopo arriva Dylan. Non c'è dubbio, è proprio lui: gli occhi, il naso, la voce inconfondibile eccetera. Cos'è questa storia del disco? Fatemelo ascoltare. Gli passano una cuffia, attaccano Tangled Up in Blue. Per quaranta minuti a non tradisce un'emozione. Solo alla fine, levandosi le cuffie, si passa rapidamente una mano sulla fronte e dichiara: questa è tutta roba di Ismaele.
"Ismaele?"
"Il mio gemello, Ismael Zimmerman".
"Ah, Bob, non... non sapevo che avessi un gemello".
"Nessuno lo sa, ovviamente".
"Non... non corre buon sangue tra di voi?"
"Non saprei. È da molto che l'ho perso di vista. L'ultima volta che l'ho sentito lavorava su un peschereccio dalle parti di Delacroix. Pensavo che avesse abbandonato la musica".
"Ha uno stile molto... peculiare".
"Puoi dirlo forte. Come diavolo ha fatto il bassista a tenergli dietro? Lui usa quell'accordatura assurda, ce la siamo inventata quando stavamo in Montague Street, sai. Poi abbiamo litigato, credo ci fosse di mezzo una ragazza".
Mettetevi in Phil Ramone. Era convinto di avere registrato il nuovo, pazzesco disco di Bob Dylan. E invece ha lasciato per una settimana una manciata di professionisti in balia di un sosia pazzo che non sa accordare la chitarra.
"Non capisco, Bob. Perché ha voluto regalarti queste canzoni?"
"Ti sembra un regalo?"
Ramone comincia ad avvampare. Si rende conto che sta discutendo con il genio Bob Dylan come se fosse un suo amico. Dopo una settimana trascorsa a lavorare col suo sosia, è vittima di una falsa sensazione di familiarità. Grave errore, gravissimo. Ora il vero Dylan punterà gli occhi su di lui, dirà un paio di sillabe stentate e sparirà per sempre dalla sua vita.
"A me sembra che abbia voluto sputarmele in faccia. Comunque, non sono brutte canzoni".
"N-no".
"Ma bisogna registrarle da capo, così sono impresentabili, non trovi?"
"Certo, Mr Dylan, certo".

Non sono brutte canzoni, no. Sono le migliori che Dylan si sia trovato in mano dai tempi dell'incidente. Sono spiazzanti, originali, 100% dylaniane ma anche in qualche modo al passo coi tempi, persino sofisticate. Persino i due blues, Buckets of Rain Meet Me in the Morning (l'unico pezzo in cui alla fine suona davvero Weissberg), sono i migliori blues che Dylan abbia cantato dai tempi di Highway 61. Non c'è un brano che non irrida qualsiasi altra cosa abbia fatto Dylan dall'incidente in poi, e tutti i fan che si sono sforzati a trovare qualcosa di buono in tutti quei cosiddetti "ritorni di forma": ah, ma sul serio pensavate che New Morning fosse un disco interessante? Che Planet Waves reggesse il confronto? Sul serio eravate così disperati da distillare essenza di Dylan da Pat Garrett? Non vi accorgevate che erano tutti palliativi? La verità è che Dylan non esiste più da un pezzo. Ma Ismaele è ancora in giro per le strade statali con la sua chitarra Martin accordata in un modo assurdo, la sua armonica fissata alle spalle con il fil di ferro, le sue canzoni sofferte e disperate. Troppo sofferte. Troppo disperate. "Non posso pubblicare questa Idiot Wind", pensa. "La gente crederà che sto litigando con mia moglie. E in effetti io sto litigando con mia moglie, ma perché dovrei aprirmi il cuore in un disco? È che la gente vuole esattamente questo da un mio disco: il sangue. Non sarà contenta finché non l'avrà avuto". Lo ha capito persino Ismaele.
Ismaele è il Bob Dylan che non ce l'ha fatta. Non è diventato famoso, non ha abbandonato il folk per il rock, non ha avuto un esaurimento nervoso, non ha messo su famiglia. Ha fatto un po' il cuoco da qualche parte nel grande Nord, poi si è ritrovato a New Orleans, e per tutto il tempo ha continuato trascinarsi chitarra e armonica, a scrivere canzoni che nessuno avrebbe ascoltato, su accordi che nessuno riesce a suonare. Ma il suo gemello famoso è appena tornato alla Columbia dalla porta principale, dopo essere sgattaiolato da quella di servizio: ha bisogno di dimostrare di essere ancora il grande cantautore, non di snervare i suoi fan con l'ennesimo disco stravagante. Bisogna rifare tutto. E non a New York - magari Ismaele è ancora nei paraggi, meglio levare le tende. Andrà in una città a caso. Il fratello minore, Daniel, ha un'etichetta a Minneapolis, ecco, registrerà là con qualche arrangiamento convenzionale. Dovrà sembrare un classico disco da cantautore di metà anni Settanta. Semplificherà qualche accordo, cambierà qualche parola qua e là, per stornare i sospetti. Aggiungerà qualche abbozzo di flamenco, uno schizzo di mandolino, e in Idiot Wind un organo che è la tetra parodia di quello che Al Kooper suonava ai tempi di Sad-eyed Lady of the Lowlands. Alla fine si stancherà a metà e pubblicherà una via di mezzo: cinque brani di Ismael registrati sobriamente a New York con Brown al basso, cinque brani rifatti da Bob a Minneapolis da un gruppo di sessionmen locali capeggiati da un tale Kevin Odegard, il chitarrista che riuscì a suggerire a Bob Dylan di alzare di un tono Tangled Up in Blue e a sopravvivere per raccontarlo. Alla fine non verrà fuori un brutto disco. Certo, i critici ci metteranno un po' a capirlo.
Sul serio: i critici ci misero un po' a capire Blood on the Tracks... (continua sul Post)
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Dylan prima e dopo il diluvio

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Before the Flood (1974; doppio album dal vivo con la Band).
(Il disco precedente: Planet Waves
Non perdetevi il disco successivo!)

Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE! Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE Qualsiasi colore tu ABBIA IN MENNNNTE Te lo mostrerò e lo vedrai SPLEEEENDERE. Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE!
Mettiamola così: una sera, dopo che lo avete aspettato a lungo, vostro marito torna a casa brandendo un inspiegabile mazzo di rose in mano - un mazzo simile a quello che vi comprò cento primavere fa - e invece di spiegarvi cosa sta succedendo comincia a darvelo in testa, il mazzo di rose, senza farvi male perché per fortuna il fiorista ha tolto le spine, ma è comunque una scena che vi sareste risparmiati. Che cos'è successo? Perché sei così arrabbiato? È qualcosa che ho detto?
Perché ASPETTARE CHE IL MONDO COMINCI? PRENDITI QUESTO DOLCE, E MANGIATELO PURE! 
È in assoluto il primo disco di Bob Dylan senza la faccia di Bob Dylan in copertina, né fotografata né dipinta.
È in assoluto il primo disco di Bob Dylan senza la faccia di Bob Dylan in copertina, né fotografata né dipinta.
È solo un modo di dire, forse un po' maldestro per una canzone d'amore (l'equivalente di "moglie piena e botte ubriaca"), ma adesso altro che canzone d'amore. Sembra che voglia aprirti la bocca con la forza, Dylan, e cacciartelo giù in gola finché soffochi, quel dolce. Davanti a un pubblico pagante, un popolo che lo attende da anni, una folla che ha tutti i diritti del mondo di assistere a un bel concerto del suo idolo, quest'ultimo sceglie la sua canzone più dolce e la scanna senza pietà - perché? Che t'ha fatto? Sappiamo che non t'ha mai convinto davvero; che l'hai usata, a volte, proprio per prendere le distanze. Sappiamo che è uno di quei fortuiti risultati di laboratorio che riescono una volta su mille, e sono irriproducibili dal vivo. Ma è un buon motivo per farla a pezzi come un marito impazzito?
La sola cosa di cui parlava la gente era l'energia. Energia qui, energia là. Il miglior complimento era una cosa tipo, "Wow, un sacco di energia, amico". Era diventata una cosa assurda. Più grande la cosa diventava, più forte suonava, più energia ci si aspettava che avesse (Intervista del 1985 con Cameron Crowe).
Before the Flood è il primo disco ufficiale dal vivo di Dylan. Procedendo in ordine cronologico ne abbiamo già ascoltati parecchi, ma Before the Flood è uscito per primo (il secondo e ultimo disco inciso per l'Asylum, dopo Planet Waves). In precedenza l'unico sistema per capire come suonasse Dylan dal vivo erano i bootleg, quel diluvio di incisioni abusive che riempivano scaffali dei negozi di dischi e a lui non fruttavano un soldo. A voi piace andare ai concerti? Quando ero bambino pensavo che mi sarebbe piaciuto. Quelli grossi, negli stadi, quelli coi biglietti sold out tre mesi prima; quelli di cui gli amici cominciano a parlarti tre mesi prima, e dieci anni dopo (se vai a controllare su facebook) ne stanno ancora parlando. Quelle feste pazzesche in cui tutti saltano e cantano i cori. Da bambino non vedevo l'ora di andarci, a quei concerti: ascoltavo Under a Blood Red Sky, ascoltavo Made In JapanBanana Republic, ero convinto che mi sarei divertito tantissimo. Finché nella mia piccola città, nel giro di pochi mesi, arrivarono gli U2 e... Bob Dylan. E io riuscii ad andare a entrambi: anche se ero troppo piccolo, l'occasione era troppo grande.
E poi basta. Non sono più andato a un concerto di massa in vita mia (quasi). Perché ho scoperto che non mi diverto così tanto, dopotutto. C'è molta gente, spesso fa caldo, il gruppo è comunque molto lontano e persino la musica si sente troppo forte, distorta, a volte m'infastidisce. Non è così importante, si può amare la musica anche senza amare i concerti di massa. Io perlomeno posso. Bob Dylan no. Lui non poteva sottrarsi più ormai.
"Ho odiato ogni momento di quel tour" (Da un'intervista del 1978).
Se c'è anche solo una vaghissima ragione di infilare foto di Muhammad Ali in un articolo, io ne approfitto, scusate.
Se c'è anche solo una vaghissima ragione di infilare foto di Muhammad Ali in un articolo, io ne approfitto, scusate.
Prima o poi sarebbe dovuto tornare in mezzo alla gente. Ci mise otto anni ad accettare la cosa, e dovette pure rompere con Mamma Columbia, ma era destino. Dylan si era stancato di strimpellare ai festival folk già nella primavera del 1965. A quel punto si era dato al rock, ma l'avventura elettrica era durata poco più di un anno e una quarantina di concerti tra USA, Europa e Australia. Breve come un amore di gioventù, troppo veloce per capire cosa stesse davvero succedendo. Dylan e gli Hawks erano andati in giro per il mondo ad incendiare teatri e palazzetti, e non sapevano nemmeno se la gente fischiasse la svolta elettrica o la resa del suono (il dibattito è ancora aperto). Dopo pochi mesi Levon Helm, socio fondatore degli Hawks, aveva gettato la spugna. In capo a un anno persino Dylan ne aveva avuto abbastanza. Troppo baccano, troppa rabbia, troppi rischi, troppa fatica (troppe pasticche per gestirla). Nello stesso anno avevano smesso anche i Beatles e gli Stones - questi ultimi più per volontà di Scotland Yard che per scelta manageriale. A metà anni Sessanta i gruppi rock più popolari non riuscivano più a suonare dal vivo. Era un problema soprattutto logistico. Non solo la sicurezza era un incubo - Beatles e Dylan attiravano anche gli psicopatici e avevano più di un motivo per temere la propria incolumità - ma anche l'acustica era tutta da ripensare.
Sinceramente, non riesco a pensare a un pezzo di su qualsiasi argomento che non si possa migliorare con un paio di foto di Muhammad Ali.
Sinceramente, non riesco a pensare a un pezzo su qualsiasi argomento che non si possa migliorare con un paio di foto di Muhammad Ali.
Otto anni dopo, la situazione era radicalmente cambiata. Amplificatori più potenti, servizi d'ordine professionali, mixer performanti - e soprattutto, ora Dylan poteva riempire il Madison Square Garden all'indomani del match tra Muhammed Ali e Joe Frazier, anche se il biglietto per Dylan era più caro (e meno facile da trovare). Come Ali, Dylan aveva un titolo mondiale da riconquistare, un tempo perduto da ritrovare. Gran parte del pubblico che ora si svenava per vederlo si era perso il tour del 1966, quella brevissima Età dell'Oro documentata dai bootleg più illustri. Avevano aspettato tanto, avevano pagato un botto e ora reclamavano il loro pezzo di Bob Dylan elettrico. Salvo che a Dylan, ovviamente, la cosa non andava a genio... (continua sul Post).
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Solo un dimenticabile ritorno di fiamma

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Planet Waves (1974)
(Il disco precedente: Pat Garrett & Billy the Kid.
Il disco successivo: Before the Flood).

In una notte come questa, sono così contento che ti sia fatta viva... abbracciami stretto che scaldo un po' di caffè. (Che inizio promettente per un disco, vero? No, appunto).

L'Asylum gli aveva evidentemente
dato carta bianca per la grafica
delle copertine: e il pittore Dylan, ehm,
faceva progressi.
Nel mezzo del cammin di vostra vita, diciamo sulla trentina, potrà capitare anche a voi di ritrovarvi soli, o male accompagnati. Sono cose che possono succedere a tutti, e in teoria non c'è niente di male, ma a un certo punto potreste dovervi arrendere all'evidenza: non sta succedendo a tutti, sta succedendo a voi; e fa male, eccome se fa male. È proprio in quel momento, in cui cominciate a sentire quanto sia salato il pane altrui, che statisticamente aumentano le possibilità di incrociare per caso una vecchia fiamma che non sentivate da anni, da mesi, e poi improvvisamente da settimane, e poi dopo un po' cominciate a chiamarvi tutte le sere perché avete un sacco di cose da dirvi, un sacco, cosa sta succedendo? Forse siete cresciuti; gli errori che vi siete lasciati alle spalle ormai sembrano sciocchezze, incomprensioni giovanili; e le cose che invece funzionavano, ora, con più esperienza, non potrebbero che funzionare meglio.

Insomma dovreste rimettervi assieme. È un segno del destino essersi ritrovati dopo tanto tempo. Forse è così.

Oppure siete entrambi nel panico, perché state sulla trentina e siete soli; e non farete che tirarvi giù a vicenda.

Stenditi accanto a me, tienimi compagnia... (c'è un sacco di spazio, per cui, per favore, non sgomitarmi). (Questo forse è uno dei versi più profondi di Dylan).

Sia come sia, nel 1974 Dylan e la Band decisero di rimettersi assieme. Per un po'. Per vedere come andava. Un disco e un tour. Dylan nel frattempo si era trasferito a Malibu, California, ai margini del cantiere di una casa enorme che sua moglie riprogettava tutti i giorni: un pozzo senza fondo in cui finivano i diritti delle sue vecchie canzoni. Aveva persino rotto con la sua Casa Madre, la Columbia, che aveva lasciato scadere il contratto e poi per ripicca pubblicato un brutto disco a nome suo, una collezione di scarti. Quanto alla Band, beh...

Mamma Tosta, ti balla la ciccia sugli ossi. Andrò al fiume a prendere un po' di pietre. Tua sorella è per strada con la squadra dei minatori. Papà è nella grande casa, ha finito di faticare. Mamma Tosta, posso soffiarti un po' di fumo addosso?

La Band era molto cambiata. Non era più la fanciulla screanzata con cui Dylan aveva fatto tutto quello straordinario baccano nel '66; non era quella ragazzina emozionata e inesperta che aveva piantato in asso a New York per andare a registrare Blonde On Blonde a Nashville, con musicisti seri. Non era neanche la ragazza volenterosa e disponibile alle sperimentazioni che lo aveva coccolato e rimesso in sesto nella cantina della Grande Rosa. Ma nemmeno la splendida signora che si era emancipata a partire da Music From the Big Pink, e che senza il patrocinio di Dylan, disco dopo disco, era diventata una vera professionista, puntuale, affidabile sul palco e impeccabile in sala di registrazione. Nel mezzo del cammino della sua vita, anche la Band si stava perdendo in una di quelle tipiche selve anni Settanta che attendevano i musicisti di successo: alcool droghe e ripicche. Gli ultimi due dischi non erano andati un granché bene, anche Robertson aveva smesso di imporre le sue canzoni ai colleghi alcolisti o eroinomani. Nel 1974 si ritrova pure lui a Malibu, a pochi isolati da casa Dylan, guarda tu la coincidenza. Ehi Bob, hai notato che dopo tanto tempo siamo ancora qua tu e io? Qualcosa vorrà dire. E se ci rimettessimo assieme? Ora che siamo adulti, che siamo seri, che abbiamo imparato come si fa. Un disco, ci vuole, e un tour. Cosa potrà andare storto?

Planet Waves è l'unico disco che Dylan e la Band hanno inciso assieme. Pazzesco, se uno ci pensa: si frequentavano da otto anni (e continueranno a frequentarsi, fino all'Ultimo Valzer). Basterebbe questo a renderlo un disco memorabile, no?

No. Perché Planet Waves non è un disco memorabile. Non sto dicendo che sia un brutto disco, perché davvero, non si può dire che lo sia: Dylan sa fare molto di peggio, lo abbiamo visto. Ma è davvero un disco facile da dimenticare. Alzi la mano chi si ricordava che dopo Pat Garrett c'era Planet Waves. Visto? Anch'io stavo quasi per passare direttamente a Blood on the Tracks. Ho notato che è un lapsus che commettono in parecchi - è come se Planet Waves avesse qualcosa che implora di passare inosservato. Qualcosa come... come...

Come un ritorno di fiamma che non ha funzionato.

(Del resto è mai successo che funzionasse?)

cahoots

Credevo di essermi scrollato di dosso le meraviglie e i fantasmi della mia giovinezza. Giorni piovosi nei Grandi Laghi, a spasso sulle colline di Duluth. C'ero io e Danny Lopez, dagli occhi freddi come la notte nera e c'era anche Ruth. C'è qualcosa di te che mi riporta a una verità dimenticata da tempo. 

Non funziona mai. Non importa quanto siate disperati, quanto ci siate riavvicinati, quanto vi stiate impegnando: tempo due settimane, un mese, e starete litigando per gli stessi antichi motivi. La Band aveva bisogno di Dylan per superare le lotte intestine e disintossicarsi; Dylan aveva bisogno della Band per non impazzire a Malibu mentre la moglie gli spostava per l'ennesima volta la posizione del camino nel soggiorno. Avrebbe dovuto filare tutto liscio. Erano grandi stavolta, erano professionisti, avevano avuto altre esperienze e sapevano come fare a farla funzionare, almeno questa. E invece si rimisero a suonare all'infinito la stessa canzone senza che Dylan riuscisse a spiegare cos'era che non funzionava. Le stesse, perverse dinamiche di tanti anni prima. La canzone in questione era, significativamente, Forever Young. Dylan l'aveva scritta durante la permanenza sul folle set di Pat Garrett, paradossalmente uno dei momenti più felici per la sua ispirazione: anche Knockin' on Heaven's Door viene da lì. Knockin' era perfetta per il film; Forever Young rimase nel cassetto ancora per un po'. Non sapeva cosa farci. Cioè: era chiaro che ci avrebbe fatto un sacco di soldi. Ma esitava. Cosa avrebbe perso nella transizione? Un po' di credibilità, un po' di... giovinezza?

Eppure su Google i primi sono ancora
gli Alphaville, incredibile.
Era un brano dal potenziale altissimo. Il testo è semplice, una variazione sul tema della lista (o anafora), simile ad altri suoi brani discograficamente fortunati, All I Really Want to Do e Rainy Day Women (in seguito verranno Gotta Serve Somebody ed Everything Is Broken). L'argomento è una tipica ossessione dylaniana: la necessità di essere giovani, la lotta contro un invecchiamento morale prima che anagrafico. Ma varcata la boa dei trenta, Dylan non può più come in My Back Pages permettersi di rivendicare il suo ringiovanimento, senza rischiare di passare per uno di quegli adulti patetici che cominciano a frequentare palestre e tingersi i capelli. Forever Young è anche un paradosso: è evidente che chi la canta non è più davvero giovane da un po'.

Che tu cresca per essere giusto, che tu cresca per essere sincero.
Che tu conosca sempre la verità, e vedere luce intorno a te.
Che tu sia sempre coraggioso, sempre saldo sui tuoi piedi,
che tu possa essere
per sempre giovane.

È una canzone che implica la paternità - la prima, direi, in cui parla in seconda persona a un figlio. È anche la canzone di Dylan che più si avvicina a un testamento morale: nel senso che se uno si domandasse cosa significa essere Per Sempre Giovane, Dylan qui per la prima volta avrebbe delle risposte: significa aiutare gli altri e farsi aiutare, significa sincerità e rettitudine, etica del lavoro e "forti fondamenta" che non cedano al "vento del cambiamento". Insomma è una canzone in cui finalmente papà Dylan scopre le carte e ci mostra la sua scala di valori - a costo di perdere la mano col pubblico, perché tutto sommato si tratta proprio dei valori di un onesto lavoratore del Midwest. Era una canzone che avrebbe funzionato: in radio, sul palco, in classifica. Dylan ormai aveva l'esperienza sufficiente per capirlo subito. Ma forse lo avrebbe anche rovinato. Forever Young scorreva troppo liscia, credo che quando l'abbia scritta Dylan abbia sentito come se improvvisamente il piano si stesse inclinando; magari di pochissimo ma adesso scendeva, verso cosa? forse verso il rincoglionimento? Figlio mio, comportati bene e non smettere mai di lavorare, e resterai Per Sempre Giovane. Mio Dio. Ci vorrebbe un arrangiamento che prendesse le distanze, qualcosa di dissonante. La Band avrebbe dovuto capirla, questa cosa.

Che ci fa un angioletto come te
in una storiaccia del genere?


Ma - questo è il punto - la Band non capiva, neanche stavolta. Erano vecchi amici, sul palco s'intendevano al volo, conoscevano Dylan da quando erano ragazzini, eppure... non erano fatti per stare assieme, tutto qui. Planet Waves, se proprio vogliamo, potremmo ricordarlo come la cronaca di come andò l'ultima volta che provarono a mettersi assieme: dalla smagliante introduzione chitarristica di Robertson a On a Night Like This, fino a quel senso di spossatezza e nessuno-sta-andando-a-buttare-la-spazzatura di Wedding Song. Gran parte delle sessioni se ne andarono in realtà nel tentativo di capire cosa voleva fare Dylan con Forever Young: lui ovviamente era il primo a non avere una chiara idea in testa. Lavoravano in uno studio di Los Angeles, assistiti da Bob Fraboni, un tecnico del suono che aveva fatto la gavetta con Phil Spector e lavorato con gli Stones. Se Forever Young fu davvero pubblicata nel '74 nella sua versione più famosa (quella lenta), lo dobbiamo a Fraboni. La storia è nota: dopo una serie di tentativi infruttuosi, finalmente erano riusciti a registrare questa versione che Fraboni definiva "immediata", "potente", "avvincente" (anche se per me quando parte l'armonica è come se tutti se ne stessero andando per i fatti loro; ma forse non si poteva pretendere di più). A un primo ascolto anche il silenzio di Dylan si lasciava interpretare come un segno di assenso: questa sì, questa funziona. Ma poi... (continua sul Post)
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Pat Dylan e Bobby the Kid

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Pat Garrett and Billy the Kid (1973; colonna sonora originale dell'omonimo film)

(Il disco precedente: Greatest Hits II.
Il disco successivo... si dimentica facilmente).

Oltre il fiume spareranno a vista:
lo sceriffo è già sulla tua pista.
I bounty killer ti hanno sulla lista.
Non gli gusta la tua libertà.

È un film imbottito di scene madri, ma la più famosa non è stata girata: nel buio della sala di proiezione, mentre guarda i giornalieri, il grande Sam Peckinpah, (ubriaco, una pistola carica in tasca), si rende conto che una lente è difettosa, che il lavoro di un'altra giornata va sbattuto via. Furioso, si alza, si sbottona e lascia sul telo dello schermo il suo segno - una "S" di urina. Dietro di lui, Bob Dylan si volta verso Kris Kristofferson: non dice niente, ma quello sguardo Kristofferson non lo dimentica più. Kris, ma in che pasticcio mi hai portato?

Passi notti intere, giù in Berenda,
a smazzare carte in un'hacienda,
finché trovi uno che ti stenda,
Billy, se hai bisogno, sono qua.

Un pasticcio che non si sarebbe perso per niente al mondo. Un film sul più famoso fuorilegge del west. Girato dal regista del Mucchio Selvaggio. Nei panni del protagonista l'amico Kristofferson, quel bel cantante country che qualche anno prima aveva retto i bonghi durante la registrazione di Lay Lady Lay. Talmente ghiotta era l'occasione di recitare e scrivere una colonna sonora western, che Dylan, per una volta nella sua vita, si presentò coi compiti fatti. Peckinpah, per dirla con Kristofferson, "non s'intendeva molto di musica", insomma non aveva la minima idea di chi fosse quel trentenne ricciolino che Kristofferson gli stava presentando. Ma il tizio aveva già Billy in canna. Gliela fece sentire. Scritturato. A Billy non si resiste.


Fai la festa a qualche señorita,
nell'ombra di una camera ti invita,
nel buio solitario lei ti guida...
Billy, a casa non ci torni più.

Voi fischiettate ogni tanto? Se vi capita, e se amate Dylan, ci siamo già capiti. Billy è l'abc, il pezzo dylaniano più fischiettabile. Si può andare avanti per giorni interi, e per milioni di variazioni sullo stesso tema triste. "Billy, you're so far away from home". Che ti è successo, Billy? Quale ingiustizia, quale imprudenza, ti ha portato così lontano? Quando i redattori di Mojo stilarono la classifica delle cento canzoni di Dylan, si scordarono di Billy. Sarà gente che non fischietta. Forse è un dono di natura, c'è chi ci nasce e c'è chi per capire Dylan è costretto a cercare barlumi di genio in dozzine di dischi opachi, quando basterebbe saper fischiettare Billy. Una delle melodie più semplici che abbia usato: una di quelle canzoni per cui vale la pena citare Robertson a proposito delle canzoni della Cantina: "non si capiva se fossero sue o no".

Nessuno, che io sappia, contesta a Dylan la paternità della melodia di Billy. Allo stesso tempo, è così basica che sarebbe veramente strano se l'avesse scoperta proprio lui. La incide in tre versioni diverse, come se non sapesse come riempire il disco (e invece parecchio materiale restò fuori). La maneggia come se fosse un interprete, anzi tre interpreti diversi: come se non fosse sua, ma un brano tradizionale che si può leggere in tanti modi e stravolgere a piacere. Come se la stesse cercando, per tentativi: è in cerca di Billy, come in Self Portrait era in cerca di Little Sadie. Se quel disco era l'autoritratto di un cantautore attraverso cover di altri artisti, Pat Garrett è il disco meno personale di Dylan (il primo che non ha la sua faccia in copertina), malgrado non ci sia una nota, una sola parola che non abbia scritto lui.

C'è chi prende mira dietro a specchi,
fori di pallottola sui tetti,
se non muori presto o tardi, invecchi:
Billy, sei rimasto solo tu.

Oggi Billy sembra fatta apposta per un western - il tema ideale qualsiasi panoramica in cui su un tramonto si stagli il profilo di un cowboy dal destino segnato - ma è un errore di prospettiva: prima di Billy le canzoni del film western erano diverse. Le scrivevano i migliori compositori sul mercato. Liberty Valance è di Bacharach (ha anche scritto Rain Keeps Falling On My Head per Butch Cassidy, ma non credo che si possa considerare un brano western). Ci mettevano un sacco di stilemi riconoscibili a colpo sicuro - chitarre country, violini, voci virili, qualche messicanismo - e ritornelli orecchiabili. Dylan i violini ce li ha, di chitarre quante ne vuoi (c'è Roger McGuinn alla 12corde, è la prima volta che incidono assieme); per la voce virile può fare un tentativo, ma Billy è tutta un'altra idea del west. Più elegiaca, più minimale. Può piacere o non piacere, ma finalmente è un'idea - da quand'è che non gliene veniva una?

Billy è il punto di arrivo di un sentiero accidentato che partiva dal 1967, dalla Cantina e da John Wesley Harding - un percorso ascetico, a ben vedere. Via il ritornello, via gli orpelli inutili: un tema solo, insistente come il blues, e in grado di sopportare centinaia di strofe. Quel tipo di ballate che secondo lui una volta la gente ascoltava per ore e ore, prima dell'avvento della radio e del cinema. Billy è già a suo modo un film. La storia che racconta non è molto più oscura ed episodica del copione che Peckinpah si era riscritto. C'è un bandito che dovrebbe fuggire, e invece gira in tondo. C'è uno sceriffo che (spoiler) lo ucciderà, ma un tempo era un suo amico. Le strofe che seguono non sono che variazioni sul tema del conflitto a fuoco. Due canaglie giocano a nascondino in una prateria senza senso, chi non è sceriffo è ladro di bestiame. Entri in saloon da assassino, ne esci con la stella di latta sul petto. In che pasticcio mi hai portato, amico?

Dormi con un occhio mezzo aperto
se con Garrett hai quel conto aperto.
Ogni suono è il La per il concerto
che la sua pistola suonerà.

In che pasticcio mi hai portato, Kris? Mettetevi nei panni di Bob Dylan, per una volta. Ce l'ha fatta: finalmente è sul carrozzone di Hollywood. Gente seria, valori solidi, mica quella bolla di sapone che è il mondo musicale, schiavo dei capricci di ascoltatori teen-ager e critici ventenni. Qui c'è gente che ha fatto la guerra, gente che ha già il suo nome scolpito sul marmo della Storia, James Coburn con tutte le sue meravigliose rughe (non le fanno più delle facce così), e Sam Peckinpah. Questo è il mondo degli adulti: Coburn e Peckinpah. Insieme per lavorare a qualcosa che andrebbe a vedere anche Abram Zimmerman, se fosse ancora al mondo - e sui titoli avrebbe visto il nome finto di suo figlio accanto a quello di quei grandi. Ce l'hai fatta, Robert "Bob Dylan" Zimmerman. Non sei più il ridicolo 'portavoce' di un evanescente 'generazione'. Sei un musicista dal talento riconosciuto e un caratterista di buon livello. Sennonché.

Sennonché siamo nel 1973, e anche il mondo degli adulti sta andato a puttane. Il grande Sam Peckinpah è un alcolizzato furioso che tutte le notti spara alla sua immagine nello specchio. Litiga coi produttori, litiga coi collaboratori, col cast, prima o poi se la prenderà anche con Dylan. Il copione è un casino, sul set a Durango gira di tutto, compreso il virus dell'influenza. Perderanno un sacco di tempo, e alla fine il regista abbandonerà il film al suo destino. Montato alla benemeglio, stroncato anche dai fan di Peckinpah, il disastro eclisserà il valore della colonna sonora - sapete chi ha vinto l'Oscar alla migliore canzone del 1973? Barbra Streisand, The Way We Were. Ora non dico che Billy avrebbe avuto una chance (in lizza c'erano anche Jesus Christ Superstar Live and Let Die, fu un anno durissimo), ma Knockin' on Heaven's Door non si meritava una nomination? Il fatto è che per qualche tempo nessuno si accorse che per quel film sfortunato Dylan aveva scritto uno o due capolavori.


Viene il sospetto che il vecchio Sam avesse capito prima di tutti, e meglio di tutti... (continua sul Post).
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Il disco più venduto e la canzone più nascosta

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Bob Dylan's Greatest Hits Vol. II (1971)
Il disco precedente: Another Self Portrait.
Il disco successivo: Pat Garrett & Billy the Kid

Watching_the_River_Flow_Dylan
Sto notando come l'estetica dei 45 giri sia molto diversa da quella dei 33: più effimera, dozzinale (foto scadenti, font pacchiani), forse più genuina. I 33 giri vanno sui libri di storia, i 45 sono polaroid imbarazzanti che rimettono in discussione la memoria consolidata.
Cosa c'è che non va con me? È che non ho molto da dire.
Dev'essere arrivata come una progressiva illuminazione: a un certo punto del tardo 1970 Dylan si rese conto che nessuno lo costringeva più a scrivere o incidere canzoni, se proprio non ne aveva voglia. Fu l'uovo di Colombo. Così, dopo sei mesi trascorsi a registrare due dischi di canzoni insoddisfacenti, sue e di altri, Dylan finalmente accettò che non aveva molto da dire e che tutto sommato andava bene così. Una volta accettata, era un'idea talmente forte che... ci scrisse una canzone e la incise come singolo. Non è sorprendente che Watching the River Flow fosse un blues. Dylan ha questa arma segreta nel cassetto: quando non sa cos'altro fare, può sempre fare un blues ed essere abbastanza tranquillo del risultato perché anche se di solito è occupato in altre cose, a tempo perso è uno dei più grandi bluesman viventi. Watching non sarebbe niente di speciale, se non fosse il primo brano di Dylan prodotto a New York da Leon Russell, il pianista dall'Oklahoma che aveva già reso credibile in America il r'n'b inglese di Joe Cocker. Con tutto questo, rimane un pezzo fresco ma trascurabile, come la telefonata a un amico che non ha niente da dirti ma vuole farti sapere che va tutto bene: nulla di memorabile, ma fa piacere ascoltarla. Una telefonata del genere, nel '71 sembrava a ancora in qualche modo necessaria. La gente continuava a chiedersi: ma come sta BD? Perché non fa concerti? Perché non rilascia interviste?

Leon Russell (wikipedia).
Leon Russell, nel '70, capisci che poteva rubare la scena a Joe Cocker (wikipedia).
Già, perché? Perché non aveva niente da dire. A New York, dove si era ritrasferito con la famiglia sperando di passare inosservato come una rockstar tra tante, riusci a stanarlo solo Weberman, il "dylanologo", uno stalker che rovistava nei suoi rifiuti e che lo accusava a turno di antisemitismo e filosionismo; in estate una giornalista israeliana riuscì a scovarlo sulla spiaggia a Tel Aviv e a essere trattata con insolita gentilezza: ma anche con lei Dylan non poteva che restare sul vago. Prendeva il sole, badava ai figli, riorganizzava i suoi affari (le cause con Grossman si sarebbero trascinate ancora per anni), un giorno sarebbe senz'altro tornato a incidere e fare concerti, ma quando? Chissà.
Poi, un mattino d'autunno, si svegliò in lacrime: cos'era successo? "Hanno sparato a un uomo a cui volevo davvero bene. Oh, Signore, hanno fatto fuori George Jackson. Signore, Signore, lo hanno steso a terra".

Angela Davis
Angela Davis non c'entra quasi niente con questa storia. Passò qualche guaio perché le armi usate da Jonathan Jackson per il sequestro erano registrate a suo nome. Esistono foto pazzesche di Jackson che tiene il giudice per il collo, ma non sono di dominio pubblico.
George Jackson era del '41, come Dylan, come Ritchie Valens, come David Crosby e altri personaggi con i quali Dylan in Chronicles suggerisce di trovarsi in particolare sintonia. Dylan compié trent'anni in maggio; Jackson li avrebbe fatti a settembre ma una guardia carceraria gli sparò un mese prima. Nell'anno in cui Dylan era arrivato da Minneapolis a NY, George Jackson era entrato nel penitenziario di San Quentin, per una rapina a mano armata a un benzinaio (70 dollari di bottino). Ne era uscito soltanto nove anni dopo, e soltanto per essere trasferito nel carcere di Soledad, California. Nel frattempo si era radicalizzato, aveva studiato Marx, Engels, Mao, aderito alle Pantere Nere, tentato uno sciopero della fame con due compagni (i "fratelli di Soledad"), vendicato un eccidio di prigionieri partecipando all'assassinio di una guardia carceraria, e ora era in attesa di giudizio per quest'ultimo crimine, con l'alta probabilità di essere giustiziato in una camera a gas. All'inizio di agosto suo fratello diciassettenne, Jonathan (guardia del corpo di Angela Davis), aveva provato a liberarlo, a modo suo: irrompendo in un tribunale e prendendo in ostaggio tre giurati e un giudice - a quest'ultimo aveva fissato al collo una mitraglietta col nastro adesivo. Appena cercò di uscire lo freddarono, e morì anche il giudice. Due settimane più tardi, dopo un colloquio con il suo avvocato, George Jackson si sfilava una pistola da una parrucca e tentava la sua ultima fuga da Soledad. E in novembre Dylan pubblicò George Jackson. Dopo aver protestato per un anno la sua mancanza di idee, decise di confessare il suo amore, proprio così, dice "amore", per un galeotto maoista che aveva gettato il corpo di una guardia dalla finestra. "Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, non si sarebbe mai messo in ginocchio. Le autorità lo odiavano perché era troppo vero. Oh, Signore, hanno fatto fuori George Jackson".

attica
Il carcere di Attica
Più di un biografo ha presentato George Jackson - il singolo - come una mossa istintiva, dettata dall'emozione: Dylan non voleva certo tornare alla musica di protesta, ma un mattino si è svegliato in lacrime e l'ha scritta e registrata in tutta fretta. Niente calcoli, solo sentimenti. Il calendario ci dice un'altra cosa: tra fine agosto e metà novembre Dylan ha avuto tutto il tempo per riflettere su quel che stava facendo. Sapeva che George Jackson non era il solito mitico fuorilegge delle ballate, ma un criminale morto di fresco che ancora terrorizzava i benpensanti, l'eroe dei Weathermen, i bombaroli che avevano preso il nome dal verso della sua Subterranean Homesick Blues. Sapeva che la morte di Jackson era stata una delle scintille della strage di Attica, un penitenziario sulla costa opposta degli USA dove Pantere Nere e Musulmani Neri avevano organizzato una delle rivolte carcerarie più famose della storia, soffocata nel sangue. Sapeva tutto questo e la incise lo stesso - dopo aver corteggiato il pubblico conservatore del Johnny Cash Show e aver messo in giro voci su una sua possibile conversione all'ebraismo chassidico, scrisse un'elegia per un rivoluzionario maoista che aveva ucciso una guardia e aveva usato le sue ultime parole per citare Ho Chi Minh: "Signori, il dragone è arrivato".

11. The Black Panthers: Vanguard of the Revolution
The Black Panthers: Vanguard of the Revolution
In seguito forse se ne pentì: non risultano esecuzioni live di George Jackson, e la canzone, nella sua versione "big band" (quella sul lato A del 45 giri) è una delle sue poche irreperibili su Spotify. Era stata ristampata in una raccolta degli anni Ottanta che è stata ritirata anche dal catalogo di iTunes. Su Spotify resiste invece la versione acustica - il lato B, in sostanza la prova per sola chitarra e armonica - che resta comunque una gran bella canzone. Per qualche motivo, Dylan preferirebbe che la riascoltassimo soltanto così. Senz'altro, se il valore di Jackson risiedeva nell'essere "vero", la versione acustica è la più adeguata, la più "vera", più facilmente interpretabile come lo sfogo di un momento - una cosa registrata ancora con le lacrime agli occhi - e non un'operazione condotta a tavolino, un singolo ispirato a un fatto di cronaca e registrato con fior di musicisti invitati per l'occasione. Dylan può convivere con molti suoi errori del passato, ma forse non col sospetto di avere speculato su una tragedia più grande di lui.
Le guardie lo maledicevano, osservandolo dall'alto: ma erano terrorizzati dal suo potere, spaventati dal suo amore. Oh, Signore, hanno fatto secco George Jackson...
gh2Nei fatti il singolo non uscì 'a caldo', ma a distanza di mesi, e in concomitanza con uno dei colpi commerciali più fortunati della carriera di Dylan: il secondo volume (doppio) di Greatest Hits, a sua volta pubblicato sull'onda del successo del doppio concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison al Madison Square Garden. Greatest Hits II uscì più o meno quando il film del concerto arrivava nelle sale: un ottimo sistema per tenere buoni i dirigenti della Columbia che senza un disco di Dylan sugli scaffali ogni dieci mesi evidentemente smaniavano. In seguito qualche biografo ha definito il biennio '71/'72 come gli "anni persi" di Dylan - mi domando quale musicista oggi non amerebbe "perdere" due anni a incidere When I Paint My Masterpiece George Brown e a comporre (nel '72) Knockin' on Heaven's DoorBilly Forever Young. Tutta roba che Dylan ha scritto in un periodo in cui era convinto di soffrire di una crisi creativa.

the concert for bangla desh
La copertina più triste di sempre?
In seguito ci capiterà di ripensare con nostalgia a una "crisi" del genere. Ne avesse avute altre due o tre, e ci ritroveremmo con quattro o cinque dischi in meno e una dozzina di capolavori in più. Nel 1971 non aveva affatto smesso di scrivere ottime canzoni: semplicemente aveva smesso di scriverne di inutili. Ed era ancora in grado di fare ottimi concerti, se solo ne avesse avuto voglia. Quello per il Bangladesh è commovente: il trionfo di due rockstar loro malgrado - Harrison e Dylan, una più introversa dell'altra. Pare fossero entrambi terrorizzati. Per una serie di circostanze indipendenti dalla loro volontà - Lennon e McCartney non si parlavano, i Rolling Stones erano fuggiti in Francia per problemi fiscali, Eric Clapton si stava disintossicando - questi due divi recalcitranti erano diventati il punto di riferimento di tutta la scena. Non fosse stato per il Bangladesh, avrebbero disertato pure loro. Ma George Harrison non poteva dire di no a Ravi Shankar che raccoglieva fondi per la sua gente travolta dall'alluvione, e Dylan non disse di no a Harrison - non disse neanche di sì, fino all'ultimo momento. Sulla scaletta che Harrison aveva attaccato con lo scotch al retro della chitarra, a un certo punto c'era scritto, semplicemente: "BOB?" Non fu sicuro finché non lo vide salire sul palco e imbracciare una chitarra. Tremava. Harrison, Ringo Starr (tamburello) e Leon Russell (a basso) gli diedero una mano in A Hard Rain's A-Gonna FallBlowin' in the WindIt Takes a Lot to LaughLove Minus Zero Just Like a Woman. La gente tornò a casa pensando: ho visto Dylan suonare con metà dei Beatles. Qualcuno senz'altro sarà rimasto deluso lo stesso, qualcuno scommetteva di vedere una reunion dei Beatles a sorpresa. La foto di copertina di Greatest Hits II è presa dal concerto.

Forse è il caso di tranquillizzare i lettori... (Continua sul Post)
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Altri autoritratti

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Another Self Portrait (1969–1971) (The Bootleg Series Vol. 10, 2013).
(Il disco precedente: New Morning
Il disco successivo: Greatest Hits II).
Another Self Portrait"Come sarebbe a dire, un'altra merda?"
Ho cominciato a dedicare un pezzo a ogni disco di Dylan nel dicembre dell'anno scorso. Ne ho scritto uno alla settimana; siamo in maggio e stiamo finalmente uscendo dagli anni '60 (il 1970 tecnicamente fa parte degli anni '60, lo so, non ha senso). Se non mi ammalo, se non mi promuovono a un ruolo di più grandi e onerose responsabilità, se non mi stanco, se al Post non mi chiudono l'account (nel caso, come biasimarli), se continuo a scrivere un pezzo alla settimana, a Natale dovrebbe uscire la recensione di Christmas in the Heart. Non è un bell'obiettivo? Sarà bellissimo, un quell'ovattata atmosfera scampanellante, scrivere due cazzate su Christmas in the Heart. Invece adesso è maggio e bisogna scrivere un pezzo su Another Self Portrait. Conoscete qualcuno che abbia ascoltato tutto Another Self Portrait?
Che fretta hai? Guarda un po' qui,questo è il numero che non ti devi perdere.Annie canterà la sua canzone, si chiama Take Me Back Again
(L'ha scritta Tom Paxton, il primo folksinger del Village che cominciò a scriversi le canzoni da solo, qualche mese prima che ci arrivasse Bob Dylan. È ancora in attività).
Self Portrait, Bob Dylan, 1970.
Self Portrait, Bob Dylan, 1970.
Del Dylan pittore non m'intendo molto, ma la sua copertina per Another Self Portrait è molto significativa (forse è la cosa migliore di tutto il cofanetto). L'autoritratto su sfondo nero assomiglia a Dylan ma non assomiglia a nessun altra foto o ritratto di Dylan. Richiama irresistibilmente quello che un Dylan molto più giovane e goffo sbozzò sulla copertina di Self Portrait nel 1970. È come se il Dylan più anziano ed esperto abbia rimesso mano alla stessa tela, miracolosamente ancora fresca di pittura, e l'abbia rimaneggiata fino a trasformarla in quell'autoritratto che 40 anni prima era venuto un po' troppo naif e pasticciato. Col nuovo ritratto insomma Dylan ci dice che (1) ha finalmente imparato a dipingere; (2) nel 1970, più che provocatorio, era incapace, e 40 anni dopo sente ancora il desiderio di correggersi; (3) i ricordi non si congelano in canzoni o fotografie; i ricordi sono pittura sempre fresca, che in qualsiasi momento si può rimescolare, per errore o per nostra volontà. Quello che Dylan fa al suo ritratto, è quello che facciamo tutti noi ogni giorno ai nostri ricordi. Cambiamo ogni cosa che ricordiamo: rendiamo i noi stessi di venti, di trent'anni fa, più simili a noi di quanto non fossero davvero. Di loro vediamo soltanto quello che preferiamo vedere, quello che ci aiuta a capire o spiegare chi siamo noi adesso. Chi conserva diari o foto conosce il fenomeno: la persona che ricordiamo è molto diversa da quella che risulta dai suoi scritti e sulla pellicola. Dylan ha i suoi ricordi - e li modifica continuamente - ma ha anche una quarantina di dischi che non credo riascolti spesso. Gli devono dare la stessa nausea che una volta ci dava la nostra voce registrata. Molto spesso quando ne parla li confonde, si capisce che li conosce meno dei suoi intervistatori.
chronicles IPer esempio: nel capitolo di Chronicles I dedicato a New Morning, mentre racconta dell'ansia e della paranoia indotta dagli hippy che lo venivano a cercare a Woodstock salendogli sul tetto o intrufolandosi in camera da letto, Dylan racconta una serie di espedienti che avrebbe consapevolmente adoperato per disperderli. Il primo che gli viene in mente (e che non risulta, mi pare, in altre biografie) fu "versarmi una bottiglia di whisky sulla testa, entrare in un grande magazzino e guardarmi in giro con gli occhi sbarrati da ubriaco, sapendo che tutti si sarebbero messi a parlare tra loro non appena me ne fossi andato". Fingersi sbronzo era una vecchia tattica che usava già negli anni del Village. Quanto al secondo espediente: "Andai a Gerusalemme e mi feci fotografare al Muro del Pianto con uno zucchetto in testa. La fotografia fu trasmessa istantaneamente in tutto il mondo e i giornali scandalistici mi trasformarono subito in un sionista. Questo mi aiutò un poco". E questo è tutto quello che Dylan avrebbe da dire sul suo primo riavvicinamento all'ebraismo - eppure il biografo Howard Sounes sostiene che in quegli anni stava meditando di aderire al chassidismo, forse di trasferirsi in Israele (in un kibbutz, scrive: magari fu un'altra cosa che lasciò detta in giro per scherzo).
In Chronicles qualsiasi conversione è rinnegata, indossare una kippah è come rovesciarsi whisky addosso, un camuffamento, un ingaglioffimento. Anche incidere certi dischi ha lo stesso senso: "Di ritorno, registrai un disco che aveva l'apparenza di un country-western e feci in modo che avesse un suono ben imbrigliato e addomesticato. I critici musicali non sapevano come giudicarlo. Usai anche una voce diversa. La gente si grattava la testa. [...] Dagli articoli che uscivano su di me risultava che stavo cercando me stesso, che ero entrato in un processo di ricerca spirituale, che soffrivo di tormenti interiori. A me andava tutto bene. Feci uscire un disco (un doppio) dove non feci altro che tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano. Quello che ci restava attaccato lo pubblicai, poi andai a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato e pubblicai anche quello".
Dunque. Il disco doppio è senz'altro Self Portrait, di cui Dylan ribadisce la natura di gesto provocatorio ("tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano") ma anche la consistenza, per così dire, escrementizia: le canzoni che vengono scelte per il disco sono quelle che restano attaccate. Metafora meravigliosa: una delle qualità delle canzoni è appunto il modo in cui si attaccano e non riesci più a dimenticarle. Non ha niente a che vedere con l'estetica, ci sono canzoni belle che non si attaccano e canzoni brutte che non si staccano più. Anzi se c'è correlazione forse è inversa: più sono brutte più sono catchy, appiccicose. Pensate a Wigwam, o a Belle Isle.
Bob_Dylan_-_Dylan_(1973_album)Ma se l'originale Self Portrait è la raccolta delle canzoni che sono rimaste attaccate al muro, qual è il disco che raccoglie "il resto che non ci era rimasto attaccato"? L'ipotesi più ovvia è che stia parlando del famigerato Dylan, il disco che raccoglieva, appunto, scarti di lavorazione di Self Portrait e di New Morning. Salvo che uscì soltanto nel 1973, e Dylan sta raccontando dei suoi problemi intorno al 1970. Non solo, ma qui nella foga di ridisegnarsi il passato su misura, Dylan si attribuisce addirittura la responsabilità di aver pubblicato l'orrido disco del 1973, di essere andato lui in persona "a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato". Sappiamo che le cose non possono essere andate così: la Columbia pubblicò Dylan nel breve periodo in cui l'artista era passato alla AsylumE quando tornò all'ovile, Dylan si oppose in tutti modi alla ristampa del disco. Negli ultimi anni tuttavia si è rassegnato a inserirlo nel catalogo. In compenso quello che scriveva dell'orrido Dylan si può applicare ad Another Self Portrait, uscito solo nel 2013, che raccoglie in un grazioso cofanetto le prove di lavorazione di Self Portrait e di New Morning. Qualcuno, evidentemente, ne sentiva la necessità. O se preferite: nel 1970 aveva inciso le cose rimaste appiccicate al muro; nel 1973 quelle che erano cadute sul pavimento, e nel 2013 ha raschiato parete e pavimento per regalare ai suoi fan Another Self Portrait.
E i fan, indovinate? Ringraziano.
E i critici? (Continua sul Post)
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Il poeta, lo zingaro e il Padre

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New Morning (1970)

(Il disco precedente: Dylan
Il disco successivo: Another Self Portrait).


Sono andato a vedere lo zingaro, che stava in un grande hotel. Mi ha sorriso quando mi ha visto arrivare, e ha detto: "Bene-bene-bene". La sua stanza era buia e affollata, le luci basse e offuscate, "Come stai?", mi ha chiesto; e io gli ho risposto lo stesso.

Di tutti i brani bizzarri e incongruenti di New Morning, il più strano resta Went to See the Gypsy. Per un attimo i versi tornano a essere lucidi e inconsistenti come nei momenti più enigmatici di John Wesley Harding. La melodia è inafferrabile, al punto che Al Kooper non riusciva a trovare un modo di arrangiarla: non è un giro armonico, non c'è una strofa o un ritornello, tutto gira intorno a un accordo che cambia ogni tanto, in modo prevedibile e tuttavia imprevisto, una specie di trance onirica. Come nei sogni degli adulti, non è che succeda un granché. Dylan sente di essere al cospetto dello Zingaro, e che ogni discorso sarebbe insoddisfacente. Tutto quel che sente è "Bene bene" e "Come stai?": Dylan risponde ripetendo la domanda. A quel punto lo Zingaro potrebbe ripetere "Bene", e il sogno si avviterebbe su sé stesso. Ma all'improvviso Dylan non è più lì: si ricorda che deve fare una telefonata. Se è il 1970, di sicuro deve telefonare a casa per sapere come stanno i bambini. Sembra che non riesca a pensare ad altro: la famiglia, i bambini, la vita è tutta qui. E poi di nuovo all'improvviso spunta dal nulla una ballerina: perché non sei più con lo Zingaro? Questo era il sogno dello Zingaro! Ritorna da lui. "Lui può tirarti fuori dal retro (He can move you from the rear), condurti lontano dalla tua paura, attraverso lo specchio. Lo ha fatto già a Las Vegas, lo può fare anche qui". Quindi almeno sappiamo che non siamo a Las Vegas. Ma siamo sicuramente in un sogno, perché - come capita nei sogni - indietro non si torna. Dylan ci prova: la porta è aperta, ma lo Zingaro se n'è andato. In compenso ha scoperto dov'è: in Minnesota. A quel punto può svegliarsi. Ha visto lo Zingaro. Non è che ci abbia parlato. Ma non c'era niente che ci si potesse dire, in fondo. Avrà funzionato?

Dylan non ha mai voluto incontrare Elvis Presley, da sveglio. Altri approcci con i divi di quell'era forse lo avevano intimorito (Jerry Lee Lewis era stato molto brusco). Non sarebbe stato difficile organizzare un incontro a Las Vegas o Graceland, ma cosa ne avrebbe guadagnato? A inizio anni '70 Presley non era ancora quell'entità più grande della vita e del rock'n'roll che sopravviveva fagocitando sé stessa. Dylan deve averci pensato. A un certo punto delle sessioni di New Morning voleva registrare finalmente Tomorrow is a Long Time, un suo brano dei tempi dei Witmark Demos che Elvis aveva ascoltato nella versione di Odetta e registrato in un disco del 1966, uno dei momenti opachi della sua carriera. Di nessuna cover Dylan si dichiarava più fiero che di quella di Elvis.


Non è curioso che nel 1970 gli capitasse di pensare più spesso al Re. Aveva venerato altri musicisti più o meno famosi, e aveva conosciuto altri cantanti caduti in disgrazia, ma solo a Elvis era riuscito il secondo avvento: lo strepitoso ritorno alla forma avvenuto nel Natale del 1968, dopo gli anni bui passati a girare pessimi film e registrare mediocri colonne sonore. Due anni dopo Elvis trionfava incontrastato nella Mecca che un tempo lo aveva respinto, Las Vegas. La domanda inconfessabile che grava sulla nebbia di Went to See the Gypsy non può che essere: potrò tornare anch'io, dal retrobottega al palcoscenico? Perché ultimamente non so più cosa sto facendo. La gente continua a comprare i miei dischi, ma io non mi riconosco più nelle mie canzoni. All'inizio era un gioco, ma adesso davvero non so più dove sono. Ci sarà un Nuovo Mattino, anche per me? Il primo titolo proposto da Dylan era molto diverso: Down and Out on the Scene, Derelitto sul palco. Una pessima idea, ancorché sincera.

È da un po' che Dylan si agita sul ring come un campione suonato. Dopo aver pestato come un fabbro per otto round, da qualche tempo ha iniziato a fare mosse veramente strane, a incassare colpi assurdi. Sulle prime abbiamo pensato che scherzasse, o che la tirasse in lungo per questioni personali - magari ha promesso all'impresario di far durare l'incontro fino al quindicesimo, va' a sapere. Dai, smettila Bob, lo sappiamo che sai fare meglio di così. New Morning è il momento in cui cala la maschera: qui Dylan non sta cercando di fare il cowboy o il crooner. Non sta fingendo, non sta scherzando coi suoi compari in cantina, non fa il buffone, non vuole allontanare un pubblico molesto o vincere una scommessa. In New Morning Dylan vuole ricominciare a fare sul serio. Vuole ritrovare sé stesso. Salvo che non ci riesce. Sé stesso non c'è più.

Lo vedi andare al tappeto e non sta fingendo: sembra proprio cotto.

New Morning - che è senz'altro un disco migliore di Self Portrait - può essere più deprimente da ascoltare. Se più che Dylan ti interessa la musica, è molto facile che tu ti chieda spesso: tutto qui?Qualche melodia graziosa (If Not For You), ma cantata e arrangiata in modo approssimativo, ai livelli dell'autosabotaggio; qualche esperimento potenzialmente interessante, ma lasciato a metà (If Dogs Run FreeThree Angels). Se invece più che la musica ti interessa Dylan, New Morning è uno snodo fondamentale - il diario dell'anno 1970. Uno dei due album che sceglie di raccontare in Chronicles I: l'altro è Oh, Mercy. Quello che accomuna due lavori registrati a vent'anni di distanza è una certa aria di falsa partenza: dovevano essere due ritorni in grande stile, per vari motivi non lo furono. Nessuna canzone di New Morning è diventata un vero classico, Dylan dal vivo ne ha suonate solo tre. Eppure è il disco che ha voluto raccontarci per esteso. Sappiamo che Dylan sta riscoprendo la sua identità ebraica; al funerale del padre, i famigliari stupiti si accorgono che il figlio famoso conosce le preghiere di rito; sappiamo che tre canzoni furono scritte per un musical di Archibald MacLeish in cui in realtà Dylan non credette mai molto. Sappiamo che Day of the Locusts racconta il disagio provato a Princeton, mentre in una giornata afosa attendeva che gli consegnassero una laurea ad honorem (dal prato saliva la "dolce melodia" di un frinire di cicale che forse gli ricordò l'organo stridente di Al Kooper, di nuovo alla corte di Dylan dopo aver fondato, tra gli altri, i Blood, Sweat and Tears). Sappiamo che non fu affatto contento di sentirsi definire "la coscienza turbata della giovane America", proprio in un momento in cui tra lui e la giovane America avrebbe voluto alzare uno steccato altissimo. Sappiamo un po' di cose e alcune ovviamente non tutte sono vere. Ma non è così difficile distinguerle, ormai.

Al telefono, Johnston mi chiese se stavo pensando di incidere qualcosa. Sicuro. Visto che i miei dischi vendevano ancora, perché non avrei dovuto inciderne di nuovi? Non avevo molte canzoni, ma c'erano quelle che avevo scritto per MacLeish. Potevo aggiungerne qualcun'altra e finire il lavoro in studio se proprio dovevo, e Johnston era impaziente di cominciare. Lavorare con lui era come mettersi al volante da ubriachi. (Chronicles I).

Per esempio: non può essere andata così.  È abbastanza improbabile che le sessioni di New Morning siano cominciate perché il produttore Bob Johnston aveva voglia di "incidere qualcosa". Non nella primavera del 1970, quando Johnston ha appena finito di remixare Self Portrait. Non siamo più nei primi anni Sessanta, non ha più nessun senso commerciale per un artista pubblicare due LP a distanza di pochi mesi - ora sarebbe una mossa autolesionista farsi concorrenza da solo. Eppure il grosso delle incisioni di New Morning, Dylan lo produce ai primi di giugno, proprio mentre SP arriva nei negozi e comincia a scalare le classifiche - perché malgrado tutto, la merda vendette bene; e le recensioni perplesse o perfide sarebbero arrivate solo nelle settimane successive.

Nel giro di una settimana ero agli studi Columbia di New York con Johnston al timone, convinto che tutto quel che incido io è fantastico. Come al suo solito. È sicuro che stiamo per fare il colpo grosso e tutto sta in piedi. Al contrario. Mai niente stava in piedi. Neanche dopo che una canzone era finita e registrata stava in piedi. 

In seguito Dylan ha più volte smentito di aver cominciato a registrare New Morning così presto per rimediare alla figuraccia rimediata con SP ("Non ho mai detto: Oddio, questo non piace - registriamone un altro"), e in un certo senso non si tratta di una bugia. Non era il giudizio altrui che temeva. Sapeva già di aver mandato fuori un disco sbagliato e no, nel 1970 non aveva ancora tutta questa voglia di trattarlo come un esperimento sociologico e lasciare che decantasse, alienando una frazione più o meno grande del suo pubblico. Col proseguire dell'estate le recensioni cominciavano a uscire, e a quel punto Dylan andò davvero in confusione, esasperando Al Kooper che si era ritrovato l'onere di lavorare agli arrangiamenti: il timoniere Johnston era assente, forse in ferie. Dylan, che era partito con l'idea di inserire arrangiamenti orchestrali come in Self Portrait, aveva scoperto che a critici e pubblico proprio non piacevano. Un giorno si era messo in testa di registrare una nuova versione di Blowin' in the Wind; la provò quindici volte; niente da fare. "Cambiava idea ogni tre secondi", dice Kooper, "alla fine lavorai come per tre album... Quando fu tutto finito, non lo volevo vedere più".

Ero appena arrivato a Woodstock dal Midwest, dal funerale di mio padre. Ad aspettarmi sul tavolo c'era una lettera di Archibald MacLeish, uno dei Poeti laureati d'America.

Per più di dieci anni Dylan non ha sentito la necessità di un padre. Aveva persino rinunciato al suo nome, troppo lungo e spigoloso, retaggio di uno dei pochi passati che non gli interessava evocare - negli anni della rincorsa al successo aveva preferito rivendicare uno zio pellerossa (inesistente) piuttosto che un padre ebreo. "Probabilmente valeva cento volte quel che valevo io, ma non mi capiva". Per molto tempo non avevano avuto niente da dirsi: Dylan scriveva canzoni per una generazione diversa. Canzoni ottime, ma incomprensibili ai padri. Poi un giorno il padre all'improvviso non c'è stato più, e Dylan ha smesso di scriverle. Magari è solo una coincidenza. Ma l'anima inquieta che si dibatte tra i solchi di New Morning - e tra le pagine dell'omonimo capitolo di Chronicles I - è un uomo solo davanti ai suoi problemi, che ha bisogno di un consiglio e non ha nessuno a cui poterlo chiedere. Non al padre, non allo Zingaro, non a Johnston il timoniere, e nemmeno ad Archibald MacLeish, poeta modernista e bibliotecario del Congresso durante l'amministrazione Roosvelt. Il capitolo comincia con l'immagine della sua lettera su un tavolo. Dylan l'ha aperta di ritorno a Woodstock, dopo aver seppellito il padre. Più chiaro di così non potrebbe scrivercelo: Dylan è in cerca di figure paterne, e MacLeish, a differenza di Abram Zimmerman, conosceva le sue canzoni. Era rimasto colpito dall'immagine di Ezra Pound e T.S. Eliot che lottano nella torre del capitano del Titanic, in Desolation Row. Per MacLeish quei due nomi non erano solo lettere dorate sulle coste dei volumi di poesia: li aveva conosciuti di persona. E adesso voleva conoscere Dylan: gli voleva proporre di lavorare con lui a un musical ispirato al racconto Il Diavolo and Daniel Webster, la storia di un americano che fa un patto col demonio. Ma Dylan di demonio non voleva sentir parlare. Non in quel momento della sua vita, almeno.

Il resoconto di Dylan dei due incontri con MacLeish è appena un po' meno elusivo del sogno con lo Zingaro: MacLeish gli parla di letteratura, lo interroga sulle sue letture (Dylan è abbastanza onesto sulle sue lacune), lo conforta sulle sue doti di poeta. Quanto al musical sul diavolo, Dylan afferma di aver capito subito che non era materiale per lui. "Era un'opera cupa. Dipingeva un mondo paranoico, fatto di colpa e paura, in uno stato di perenne oscuramento, a testa bassa contro l'era atomica, pieno di inganni e slealtà. Non c'era molto da dire né da aggiungere". In fondo si sarebbe potuto dire la stessa cosa del lato B di Bringing It All Back Home - MacLeish non aveva pensato a lui per caso. Invece di ritorno a casa, Dylan comincia a scrivere inni alle gioie della vita rurale: New Morning, Time Passes Slowly, e un brano che più di ogni altro assomiglia a una preghiera ebraica: Father of Night. Il titolo glielo aveva proposto MacLeish, pensando a Satana: ma il Padre della canzone è un Ente benigno "che porta via l'oscurità". Quando nel successivo incontro MacLeish gli chiede la ragione di tanto ottimismo, Dylan non trova le parole (continua sul Post)
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Il disco che Dylan non voleva che ascoltassi

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Dylan (1973, ma registrato nel 1970).

(Il disco precedente: Self Portrait
il disco successivo: New Morning).

Qual è la cosa più brutta che qualcuno che conosci potrebbe farti? per punirti, per ricattarti, per farti stare male, per farti capire che non puoi lasciarlo solo?

Nel 1973 la Columbia, appena abbandonata da Bob Dylan per l'Asylum, pubblicò un disco. Di materiale inedito. Cose che Dylan aveva registrato, che si era pentito di aver registrato, che non aveva pensato di distruggere. Cose talmente brutte che Bob Dylan cedette. Ritornò. Come clausola, chiese che il disco non fosse ristampato mai più. Ovviamente, presto o tardi la Columbia tradì il patto: di Dylan non si butta via niente. Ma per tantissimi anni quel disco, laconicamente intitolato Dylan, divenne una specie di feticcio.

Sembrava che non lo avesse ascoltato nessuno, anche se ne parlavano tutti i libri. I libri poi si limitavano ad accennare alla questione del ricatto, e ad informarci che i brani erano scarti di lavorazione di Self Portrait, un disco già così incredibilmente brutto che per qualche tempo Dylan volle farci credere di averlo inciso per scherzo. Self Portrait compare spesso (ingiustamente) nelle classifiche dei dischi più brutti di tutti i tempi: quanto avrebbe potuto essere orrendo un disco fatto di canzoni scartate da Self Portrait? Quanto doveva essere imbarazzante un disco che Dylan riuscì a non far uscire in formato cd? E Dylan di cd imbarazzanti ne ha pubblicati: ma il disco del 1974 no, quello non saltò fuori (almeno in Nordamerica) finché la Columbia nel 2013 non pubblicò un box di 35 album di studio: e a quel punto ormai di Dylan si era sentito ben di peggio. Questa rimozione lo ha reso un oggetto in un qualche modo leggendario. Self Portrait era già a suo modo un enigma affascinante; Dylan era un vero mistero. Cosa c'era di così orribile, di così inascoltabile, di così inemendabile?

Niente.

Ira Hayes è il primo a sinistra.
La verità è che Dylan non è il disastro che dovrebbe essere. Riascoltandolo - oggi che è un album tra tanti nel catalogo dylaniano di Spotify - davvero, non riesco nemmeno a confermare che sia così peggio di Self Portrait, un disco in cui nessuno dei brani di Dylan sfigurerebbe. Viceversa, Lily of the West o Ira Hayes potrebbero tirarlo un po' su. Ma forse esagero. È che dopo aver sentito parlare tante volte del Misterioso Album Orribile, l'Album del Ricatto, quando alla fine mi è capitato di ascoltarlo partivo da un pregiudizio talmente sfavorevole che non potevo che rivalutarlo - cioè, è vero che Mr Bojangles è imbarazzante (non solo l'idea che Dylan e Robbie Williams abbiano interpretato la stessa canzone, ma che la versione di Williams stracci quella di Dylan senza pietà) - ma non riesco a odiarlo per quello, lui dopotutto mica voleva farmela ascoltare, sono io che ho insistito, io che me lo sono andato a cercare. E Can't Help Falling In Love una volta all'anno si ascolta volentieri, basta far finta che Dylan sia tuo ospite a una cena e dopo l'amaro qualcuno gli abbia passato una chitarra. Niente di che, ma niente di così orribile.

Dylan è il gemello buono di Self Portrait. Quest'ultimo era un disco consapevolmente, deliberatamente brutto, inciso e pubblicato con l'intenzione di infastidire l'ascoltatore. Dylan è il disco che Dylan non voleva assolutamente farti ascoltare. Magari ad ascoltarlo un po' ti incazzi, ma non con lui. Anzi finisci per rivalutarlo. Non solo perché Big Yellow Taxi è meno terribile di quel che ricordavi, ma soprattutto perché dopo averla provata, Dylan ha avuto la saggia idea di nasconderla in un cassetto e non pensarci più. Stavolta non è stata colpa sua. Maledetta Columbia.

"Come sei arrivato qui?"
"Su un treno merci".
"Vuoi dire un treno passeggeri?"
"No, un treno merci".
"Vuoi dire su un vagone di quelli coperti?"
"Sì, un vagone così. Un treno merci".
"Va bene, un treno merci".
(Chronicles I)

Il marine che andò alla guerra.
Cosa c'è poi di così imbarazzante in Dylan? Lily of the West è una ballatona tradizionale da cui Dylan aveva già preso la melodia per As I Went Out One Morning - ma quella era uno strano sogno mattutino, qui invece siamo ancora nei dintorni di un'emittente AM del Midwest; ci sono i coretti. Bisogna farci l'orecchio, ci aspettano più di dieci anni di coretti femminili. Ma fin qui non sono molesti. In Sarah Jane Dylan per la prima volta comincia a cantare quei "lalalalala" che riascolteremo in New Morning The Ballad of Ira Hayes è una canzone che Dylan avrebbe dovuto registrare seriamente: lui più volte ha spiegato che queste cover le faceva all'inizio delle sessioni come riscaldamento, e questo è uno casi in cui sembra non sembra una scusa improbabile: nel senso che la canzone comincia quasi di malavoglia, con un pianoforte confuso che cerca gli accordi un po' a caso, e Dylan che invece di cantare il testo del vecchio amico folksinger Pete LaFarge si rimette, dopo tanti anni, a declamare. E funziona, il Dylan parlante, non si capisce davvero perché abbia smesso; anche qui hai la sensazione che potrebbe dire "basta così" da un momento all'altro. Finché non intona il ritornello (e partono i cori), e capisci che la canzone qui ci sarebbe.

Basterebbe provarla un po' di più - in sottofondo per ora c'è una specie di brainstorming, organo e chitarra stanno tutti cercando qualcosa, ma è proprio quel tappeto indistinto di suoni che serve da sfondo per la storia del marine pellerossa che si mise in posa per la foto di Iwo Jima e poi tornò nella riserva dei padri a ubriacarsi fino a morirne. LaFarge l'aveva incisa in diverse versioni, ma anche nella più intima non riusciva a non suonare un po' beffardo; Cash a suo modo è perfetto, il suo vocione straniante è come la maschera di un duro da rodeo che ha una storia commovente da raccontare ma non farà vedere una sola lacrima: è una lezione di come il country possa diventare uno strumento affilato, se tieni salda la mano. Dylan - che fino a pochi mesi fa spergiurava di voler fare country, di aver sempre voluto fare country - va nella direzione opposta: non senti nella sua voce un grammo di indignazione per le promesse inesaudite alle comunità dei nativi americani, ma l'ubriachezza e la disperazione quelle le senti. Viene il sospetto che più che al reduce dal Giappone, Dylan stia pensando a LaFarge, che in Corea si era rotto il naso in un combattimento clandestino, che aveva dieci anni più di lui e li aveva passati a bere, che ai tempi del Village aveva scritto una canzone con Dylan (ma non l'aveva mai incisa), che come lui aveva vantato inesistenti origini native americane e che era morto da solo nel suo appartamento proprio mentre il suo giovane amico sfondava con Like a Rolling Stone. LaFarge era un folksinger, Cash è un divo del country che raccoglieva fondi per i pellerossa (lui non si è finto un indiano, lui è stato nominato indiano onorario), Dylan sta inventando qualcosa di diverso. È il suono nato nella cantina di Woodstock - una specie di via bianca al soul, il suono che la Band sta maturando in autonomia. Invece Dylan lo sta per abbandonare - quando incrocerà di nuovo la Band, suoneranno tutt'altro. Forse non si è neanche reso conto di averlo messo in moto.
Chiamalo Ira l’ubriacone, tanto non risponde più.Né l’indiano sbronzo di whisky, né il marine che andò alla guerra...

Una cosa interessante di Dylan è che alcune cover sono successi del 1970 - in pratica Dylan suonava in sala di registrazione le canzoni che andavano in radio (continua sul Post).
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La merda d'artista di Bob Dylan

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Self Portrait (1970)

(Il disco precedente è Nashville Skyline.
Il disco successivo è... ancora peggio!)

"Cos'è questa merda?"

Riassunto delle puntate precedenti
  • A 25 anni, Bob Dylan macinava due dischi l'anno di roba sperimentale, provata e riprovata allo sfinimento tra New York e Nashville; faceva tournée in tre continenti viaggiando su un vecchio boeing scassato, si teneva sveglio di notte per paura di lasciarsi sfuggire l'ispirazione per una canzone. Si faceva un culo quadro, intascava così e così, la gente ai concerti lo fischiava
  • A 26 anni lo stesso Bob Dylan aveva smesso di fare concerti pubblici, si era ritirato in campagna, incideva un disco in tre giorni senza fare promozione e... vendeva di più. Piaceva pure ai critici. 
  • A 27 anni non incideva un bel niente, e allora i fan ripescavano nastri abusivi, roba suonata in cantina un po' per ridere, li stampavano, e i critici applaudivano al capolavoro sconosciuto. 
  • A 28 incideva mezz'oretta di simpatici pezzi country, li presentava in tv e vendeva ancora più di prima, Ancora di più. E i critici continuavano ad apprezzare.
  • A 29... che fare? Voi al suo posto che avreste fatto?
Non vi sarebbe venuto in mente di pubblicare un disco di merda, giusto per vedere se pubblico e critica si facevano andare bene pure quello?

A Dylan venne in mente. Forse. È questione lungamente dibattuta tra dylanologi. Lo stesso Dylan in un primo momento lo escluse, poi lo ammise, poi in sostanza ritrattò. Su una cosa sono tutti concordi: Self Portrait, uscito nel 1970, è una merda. Rimane da stabilire se si tratti di una merda consapevole o di escremento uscito un po' per caso, al termine di una complicata serie di circostanze che portarono nel 1970 una merda tra tante in tutti i negozi di dischi e dritta in top ten. Che differenza fa?

Tutta la differenza del mondo. È la definizione stessa dell'avanguardia artistica: la merda in barattolo è Arte soltanto se l'Artista ne era consapevole durante l'Atto. Sennò una merda varrebbe l'altra, no?

Nel 1970 Greil Marcus aveva bisogno di un buon inizio per la sua lunga recensione del nuovo disco di Bob Dylan. L'inizio è sempre la cosa più difficile. Bisogna attirare l'attenzione, far sentire odore di controversia, appiccicarsi al lettore - funzionò. Credo sia uno dei rarissimi casi in cui una recensione è più famosa del disco che l'ha ispirata - perlomeno, la recensione la leggono tutti, l'album fanno una certa fatica ad ascoltarlo anche i fan più incalliti. Per un dylanita "What is this shit" è una frase celebre quanto "Judas!" (così come di Napoleone e degli antichi Romani si ricordano più le battaglie che hanno perso, di Dylan sono più celebri le contestazioni, le stroncature). Non era la prima volta che qualcuno osava criticare Dylan, ma nessuno aveva mai osato definire un suo disco una "m.": e a ben vedere nemmeno Marcus intendeva farlo. Era solo un'espressione di genuina sorpresa (già ai tempi "shit" poteva alludere a una più generica varietà di "roba"), di fronte al primo brano del disco, All the Tired Horses. Ma questa è la magia della prima riga: se ci scrivi "merda", anche se ti stai riferendo soltanto alla prima canzone e non stai parlando di vera merda, si sentirà puzza per tutto il restante articolo.

Il bello è che All the Tired Horses, secondo Marcus, era uno dei brani migliori (figurarsi tutto il resto). Si tratta di tre bizzarri minuti in cui Dylan non canta. C'è invece solo un ritornello, scandito per la prima volta da un coro femminile (non sarà l'ultima, ahinoi), che dice: "tutti i cavalli stanchi sono al sole, come potrò farmi una cavalcata?" Tutto qui? Tutto qui. Ma che roba è? Ecco.

È l'inizio di Self Portrait, l'autoritratto che Dylan mise assieme nel 1970; il primo disco di cui dipinse la copertina, che fa a chi la vede per la prima volta più o meno lo stesso effetto: che roba è? Smarrimento, incredulità - ci sta prendendo in giro? - e poi, se hai voglia di guardare bene, ti accorgi che quello sgorbio di tempera un po' a Dylan ci somiglia davvero, e che l'ipotesi più banale potrebbe essere per una volta la più logica: Dylan voleva davvero auto-ritrarsi. No, non ci stava prendendo in giro. No, non era un esperimento. Se ti sembra un quadro di merda, forse è davvero un quadro di merda.

È che non ci siamo più abituati. Se vediamo una merda in un museo, per prima cosa ci mettiamo a cercare un contesto - una didascalia, un dépliant illustrativo, un materiale interattivo, qualcosa che spieghi che senso ha esporre una merda proprio lì. Se non troviamo nulla, ci domandiamo se il senso non sia proprio questa mancanza di senso; se il contesto non siamo noi stessi (e il nostro aggirarci smarrito), se per caso non siamo protagonisti di un'installazione, una candid camera d'autore, ad es. 6700 VISITATORI DEL MOMA REAGISCONO A UNA MERDA. Due minuti dopo ci incrociamo con una visitatrice molto imbarazzata con cagnetto al guinzaglio e una paletta in mano ed è un'immensa delusione, per un attimo avevamo creduto di far parte di un'opera d'arte (per quanto di merda). Siamo talmente intrisi di ironia che rimaniamo smarriti quando scopriamo che un sacco di gente ne fa a meno.

Per un certo periodo credemmo anche che Dylan non potesse farne a meno; che Self Portrait non fosse un escremento d'occasione, ma una fece consapevole, una merda d'artista. Un fumoso stronzo deliberatamente depositato nel bel mezzo della sua discografia, per tenere lontano gli indesiderati. Lui stesso decise di assecondarci, a metà anni '80, avallando nelle interviste l'ipotesi che Self Portrait fosse una reazione diretta al Festival di Woodstock; quel momento in cui gli hippie avevano rivelato la loro natura fanatica e molesta e avevano iniziato a stalkerare lui e la sua famiglia. Lo seguivano dovunque, lo aspettavano al cancello; c'era una coppietta che si intrufolò nella camera da letto, BD si comprò un fucile. Di lì a poco un tizio comincerà a frugargli nell'immondizia - quella qualche anno fa divenne il format di un reality di successo, la spazzatura dei vip, ma è tutto cominciato nei cassonetti presso casa Dylan. Cosa voleva tutta questa gente? Perché insistevano contro ogni evidenza a considerarlo un portavoce, perché lo accusavano di aver tradito una causa a loro chiarissima e che a Dylan sfuggiva? Self Portrait sarebbe stato il modo per allontanarli. Mi rovistate nella spazzatura? Io vi cago nella collezione dei dischi. "Farò un disco che non possono apprezzare, in cui non si possano riconoscere", si sarebbe detto ("Rolling Stone", 1984). "Lo guarderanno, lo ascolteranno, e si diranno: passiamo al prossimo, lui non ci ha dato quel che voleva". Più che un autoritratto, un autosabotaggio.

("Questo accadeva più o meno ai tempi di quel festival di Woodstock, che fu la somma di queste stronzate", "Rolling Stone", 1984).

Col tempo - e con la riapertura dei vecchi cassetti - abbiamo scoperto che anche stavolta Dylan non stava dicendo la verità. Magari in buona fede; capita tutti di confondere le date e sovrapporre stagioni diverse. Che abbia cercato di disgustare gli hippie è appurato, ma era un proposito già completamente messo in pratica in Nashville Skyline, un disco simil-country buono per il pubblico del Johnny Cash Show, mentre la gioventù americana bruciava le cartoline per il Vietnam e BD si rifiutava di dire una sola parola in riguardo. Più lontano dalla controcultura, più vicino alle buone cose di pessimo gusto del Midwest sembrava non potesse andare. Invece Self Portrait va oltre, e come sabotaggio funziona fin troppo: la prima vittima è proprio il Bob Dylan versione country, qui infiocchettato da cori e violini oltre i limiti della parodia.

Nel 1975 Lou Reed era incazzato con la sua etichetta. Si chiuse nello studio con un tecnico del suono, incise un'ora e tre minuti di distorsioni e feedback, e pubblicò il doppio album Metal Machine Music, un disco deliberatamente inascoltabile. Self Portrait non ci si avvicina minimamente. C'è qualche canzone che sembra messa lì proprio per infastidirti, ma il più delle volte l'impressione è di goffaggine più che di impudenza.

L'originale era Je t'appartiens
di Bécaud!
Più probabilmente si tratta di un errore di percorso, inevitabile se tutti continuano ad applaudirti qualsiasi cosa tu faccia: a un certo punto ti convinci di poter fare qualsiasi cosa, e si dà il caso che Dylan abbia davvero voglia di fare qualsiasi cosa. Oggi abbiamo ormai accettato questa sua stranezza, e lui si è d'altra parte sforzato di renderla in qualche modo più accettabile, ma scoprire nel 1970 che Dylan aveva gusti molto più eclettici di quanto ci avesse mai raccontato; che amava le canzoni francesi e lo swing, che sognava di cantare Bécaud e Blue Moon! (a un certo punto il disco si doveva intitolare Blue Moon)... fu uno choc. Self Portrait è la prima precoce manifestazione di una delle facce che Dylan ha del tutto svelato solo negli ultimissimi anni: l'aspirazione a diventare un enciclopedico cantante da pianobar. Dylan è convinto di poter cantare qualsiasi cosa, e soprattutto è convinto che la cosa potrebbe interessarci. L'idea di un album monumentale, un songbook di autori diversi, Dylan la cullava già trent'anni prima di Triplicate. Ne aveva già accennato a Traum durante l'intervista del 1968. Ci stava lavorando anche durante le session di Nashville Skyline, e forse ci avrebbe lavorato ancora per parecchi anni prima di far uscire qualcosa di buono. Ma poi dev'esserci stato un imprevisto - forse l'isola di Wight.

Ray Charles coi riccioli, ma perché.
L'insofferenza per i fricchettoni non era il solo motivo per cui non si era fatto vedere al festival di Woodstock. Gli organizzatori dell'altro grande festival del 1969, quello all'isola di Wight, avevano offerto di più (e lui di quei soldi aveva bisogno, spiegò ridacchiando a un cronista). A parte qualche comparsata a eventi straordinari, Dylan non avrebbe fatto altri concerti fino al 1974. Era l'artista più pagato del festival, era l'evento più importante, era abbastanza ovvio che la Columbia si aspettasse di incidere il live. Ma anche stavolta alla fine il disco dal vivo non arrivò. La registrazione era scadente, e anche la prestazione di Dylan e della Band... lasciava perplessi. Col tempo (e con le rimasterizzazioni) il concerto all'isola di Wight ha trovato i suoi estimatori, ma nel 1970 risultava impubblicabile. A questo punto però l'etichetta voleva lo stesso un disco doppio, e Dylan glielo diede. È un'ipotesi: non l'ho trovata scritta da nessuna parte e quindi la scrivo io: forse Self Portrait è quel guazzabuglio senza senso che è perché Dylan lo mise insieme in fretta e furia come alternativa a un live che suonava ancora peggiore.

Questo spiegherebbe anche la questione della lunghezza. Self Portrait non è soltanto un disco pieno di roba senza senso; è due dischi di roba senza senso. Come affermò Dylan 15 anni dopo, un mucchio di merda ("crap", disse lui) ha senso solo se è grosso. Per quanto centrifugo sia l'insieme, non sarebbe stato impossibile estrarne un disco da mezz'ora come i due precedenti. Una delle due Alberta, una delle due SadieDays of '49, Copper KettleGotta Travel On, quel brano canticchiato senza un testo che poi Wes Anderson mise in un film...  - non sarebbe stato un capolavoro; una cosetta senza infamia e senza lode che sarebbe passata indenne al vaglio dei critici, magari addobbata di qualche specchietto alle allodole, qualche vago richiamo alle atmosfere western che avevano già reso più digeribile quello strano oggetto che era John Wesley Harding. Dylan avrebbe potuto tirare fuori un disco dignitoso dalle session di Self Portrait, ma è abbastanza evidente che la dignità stavolta non gli interessava. Era viceversa il momento di sbracarsi un po' (continua sul Post)
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Bob il profeta, Bob il contadino

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Nashville Skyline (1969)

(Il disco precedente: John Wesley Harding.
Il disco successivo è... è... terribile).

Una volta avevo le montagne nel palmo della mano, e i fiumi vi scorrevano ogni giorno. Devo essere stato un folle, non mi rendevo conto di quello che avevo finché... ho buttato tutto via.


Avete sentito di Morgan? Si è fatto cacciare dagli Amici di Maria De Filippi. Pazzo. Ha definito bimbiminchia i giovani del pubblico che non lo stavano ad ascoltare in religioso silenzio. Perché l'hai fatto, Morgan, ti fanno proprio così schifo i soldi? Hai figli, hai famiglie, hai un'età, ma insomma. Ma il meglio è venuto subito dopo la scenata. Con lo stesso tono standard con cui avrebbe potuto annunciare la pubblicità o un'invasione aliena, Maria ha invitato sul palco... Francesco De Gregori. Qualcuno ha pensato beh, sarà un imitatore, un alleggerimento comico. Invece dalle quinte è saltato fuori proprio lui, il vero Francesco De Gregori, in giacca di pelle e berrettino, e ha cantato Rimmel. Neanche fosse la cosa più normale del mondo, un cantante in tv.

Non lo è. De Gregori ci andava con molta parsimonia, in tv. Non si fece vedere nemmeno a quei festival di Sanremo un po' sostenuti, quelli di Fazio. Ma da Maria ogni tanto ci va, sì, non è nemmeno la prima volta. Però l'altra sera ha avvisato che era "terrorizzato", perché aveva appena sentito i giudici parlare di intonazione, e lui in generale non è molto intonato. I giurati l'hanno tutti presa per un'esibizione di falsa modestia, ma come, Maestro! Ma aveva ragione, De Gregori è molto sincero sui suoi limiti. Ha sempre avvertito che gli piacerebbe cantare meglio di come canta, suonare meglio di come suona: i fan si accontentano, ma lui meno. È tipico dei professionisti accorgersi dei propri errori prima che ci faccia caso il pubblico. Di sicuro tra i concorrenti di Amici ce n'è di più intonati di lui. Con due di loro ha cantato Questi posti davanti al mare. Perché l'ha fatto? È una provocazione? Un'offerta che proprio non poteva rifiutare? Avrà famiglia pure lui. Di sicuro sembrava godersela.

Chissà che avrebbe fatto Dylan al suo posto. Non è una domanda così strana: molte scelte di De Gregori diventano comprensibili appena pensi a cosa avrebbe fatto Dylan. Lui non ci scenderebbe mai, vero, tra i Bimbominchia di Amici? O no?

Bbbbzzzzzzbzzzzzzif you're travelling in the north country fair...

Primavera 1969. In viaggio nelle contrade del nord, giri tra le frequenze AM in cerca di un notiziario, senti Johnny Cash col suo bel vocione che canta un pezzo di Dylan. Mai sentito, ma non è una gran novità, è da almeno cinque anni che Cash canta pezzi di Dylan, chissà quando l'ha inciso questo. La cosa strana è il tizio che duetta con lui. Sembra... sembra... come se Dylan smettesse di fumare e imparasse a cantare. Un Dylan per le masse, un Dylan di campagna. Per un po' non ci ripensi più. Ma la canzone torna a saltare fuori, come se fosse un pezzo appena uscito. Anche sulle radio FM. E prima o poi senti un dj che ti avverte: "Questa era la nuova versione di Girl of the North Country, dall'ultimo disco di Dylan, Nashville Skyline". L'altra voce che sentite è Johnny Cash - tante grazie, è chiaro che è Cash. Non si può confondere Johnny Cash.

Ma chi è quel tizio che canta con lui?

La strinsi tra le braccia, mi disse che era mia. Ma poi fui un animale, l'ho trattata così male, ed è così... che ho buttato tutto via (la persona che ha scritto questa cosa ha scritto anche It's Alright Mama I'm Only Bleeding).

A un certo punto la diede a bere a tutti, Bob Dylan. Cambiare faccia a vent'anni è facile, ci abbiamo provati tutti: basta farsi crescere un po' di barba e cominciare a sorridere davanti all'obiettivo. Ma la voce? Cambiar voce fu davvero un colpo basso. La voce di Mr Tambourine, la voce di Rolling Stone, Dylan era riuscito a rinnegare anche quella. Ma era lui davvero cantava nel nuovo disco? Certo. Aveva solo smesso di fumare, dichiarò. "Smetti con quelle sigarette e puoi cantare anche Caruso". E per un po' ci credettero. Era la stessa voce che si ricordava la sua fidanzatina a Hibbing, prima che intervenisse una broncopolmonite malcurata. Era il Dylan vero, il Dylan genuina-espressione-del-suo-territorio, il Dylan country.

Ho sentito delle voci andando a spasso. Dicono che hai intenzione di lasciarmi in asso. Ti prego amore, anima mia: dimmi che è solo una bugia (dall'autore di Masters of War).

Nashville Skyline non era un semplice episodio, un intermezzo, un week-end in campagna. Non era il finale country di John Wesley Harding dilatato in mezz'ora, il trionfo del Marito Coccolone. Nemmeno una semplice svolta commerciale. Per almeno un anno Nashville Skyline, una collana di simpatiche canzoni da balera, così innocue se le avesse registrate chiunque altro, divenne una mossa di revisionismo esistenziale. Peggio, molto peggio di sgozzare una Fender Telecaster a un raduno di musica folk: adesso Dylan cantava "Oh me oh my love my country pie" mentre la polizia caricava i manifestanti pacifisti nei college. Al Dylan che sorrideva amabile in copertina non bastava dire: sono cambiato. Voleva convincerci che era stato sempre così. E gli anni del folk di protesta? Un equivoco, si era ritrovato al Village con la chitarra e si era arrangiato a fare quello che al Village volevano ("You sound like a hillybilly", vi ricordate? "We want folksingers here". Così si era inventato un Dylan giovane e arrabbiato, e più tardi un Dylan rock, ma quelle erano maschere. A lui non interessava davvero cantare "una dura pioggia scenderà", o "i tempi stanno per cambiare", e nemmeno "come ci si sente senza più una casa". Al Dylan vero interessava cantare: "Stanotte starò con te", "Stenditi stella sul mio gran letto in ottone". Come avevamo potuto illuderci del contrario? E la politica? Mai fatta davvero, erano solo frasi estrapolate da giornalisti cattivi. E la guerra? C'è sempre stata, è parte della vita, così gira il mondo, ma io sono un musicista. E il rock and roll? Gran musica da ballare, divertente, per fare stare bene la gente. E tutta quell'ansia di morte, tutte quelle paranoie? Ma no, era sempre stato un allegrone Bob, ma i fotografi gli dicevano: "Non ridere! Non ridere!" Una questione di denti storti, magari.

Scende la notte / su nel cielo stelle a frotte / ma stanotte io son solo e lei non c'è. / C'è una luna luminosa che risplende su ogni cosa, / ma stanotte non c'è luce su di me (dallo stesso autore di Subterranean Homesick Blues).

I Beatles con Sgt Pepper's si erano travestiti da banda di ottoni. Dylan con Nashville si truccò da divo country, e non sarebbe stato nulla di così particolare. I concept album non erano una novità, Johnny Cash ne pubblicava di continuo - ne aveva appena inciso uno da cowboy e un altro da buffone. Ma Dylan per un po' riuscì a convincere il suo pubblico del contrario. Che il faccino sorridente di Nashville era la sua vera faccia, senza maschere. Che la voce morbida da crooner di Nashville era la sua vera voce, senza filtri. Col senno del poi, è facile riderci sopra.

È vero che Dylan può avere un timbro un po' più basso, se sforza un po' il seno nasale: lo sentiremo bello tonante in Before the Flood. Ma la voce di Nashville Skyline è un puro esperimento di laboratorio. Nasce a Nashville e resta a Nashville. BD la adopera soltanto in questo disco e in alcuni brani del successivo: mai dal vivo. Tanto che il duetto iniziale con Cash (deludente come tutti i suoi duetti, sempre inferiori alla somma degli addendi) sembra inserito proprio a scopo illusionistico: convincerci che è un timbro vero, che è una voce reale, Johnny Cash è testimone, era lì e può garantire. Sarà. Nel frattempo la premiata ditta Dylan ha pubblicato qualsiasi cosa. Tutti i concerti degli anni Sessanta. Tutte le session di un sacco di dischi: sugli scaffali c'è roba che anche i dylaniti più masochisti credo usino soltanto per mettere gli ospiti a disagio dopo il dolce e l'amaro. Ma le session di Nashville per adesso non le abbiamo. Sappiamo che durarono otto giorni, e che furono relativamente più laboriose di quelle davvero rapide di John Wesley Harding. Sappiamo che Johnny Cash vi partecipò con sollecitudine e professionalità, non venne solo a fare il fenomeno: incise decine di take delle stesse canzoni. Provarono One Too Many Mornings almeno una dozzina di volte. E di tutto questo non avrebbero voluto farci sentire niente. Dylan fin qui ha pubblicato soltanto Girl of the North Country, e Dylan è uno che pubblica veramente di tutto. Qualche cosa in più è finita in qualche collezione di inediti di Cash, che probabilmente aveva meno da nascondere.

(Al primo ascolto, Nashville Skyline lo rifiuti. Che roba è. Il primo pezzo è una auto-cover che serve giusto a sfoggiare l'amico Cash. Il secondo è... un ragtime strumentale. Chi è che si compra un disco di Dylan per ascoltare dei sessionmen di Nashville suonare un ragtime? Roba che va a centesimi il chilo, anche in Tennessee. Simpatico, ma sono passati sette minuti e non si è ancora sentito un testo originale di Bob Dylan. Il disco in tutto ne dura trenta, la lunghezza standard di un disco country).

Magari è Cash che si portava con sé un qualche compressore, un pedale per il riverbero, qualche effetto che lo aiutava a dare spessore a quel suo timbro che ormai era un marchio di fabbrica. Magari Dylan ha voluto provare a usarlo pure lui, ed ecco come potrebbe essere nata la voce di Nashville Skyline. Duettare con Dylan, l'abbiamo già visto, è faticoso e frustrante. Ha una voce che anche quando centra la nota che ti aspetteresti, è sempre in attrito con le altre che vorrebbero armonizzarsi. La Baez faceva l'impossibile per raggiungerlo, ma con Cash è diverso. È Dylan che si deve adattare. È una questione di rispetto, ma soprattutto di logica commerciale. È Dylan che ha bisogno del pubblico di Cash, non viceversa.

Oggi forse è difficile capire, il primo in Italia brilla come una stella di prima grandezza (anche se si vede meglio in altri emisferi), il secondo era perlopiù sconosciuto finché negli anni '90 non fu riportato alla ribalta grazie a una collaborazione con gli U2, e con una serie di dischi di cover contemporanee diventò una specie di nume tutelare della scena alternativa, esaltato per esempio da Wu Ming. Ma negli USA Cash è sempre stato più popolare di Dylan, o meglio: più nazionalpopolare. Di lì a pochi mesi avrebbe diretto uno show in prima serata sull'ABC. Negli anni Settanta avrebbe persino fatto la guest star in una puntata del tenente Colombo, una specie di consacrazione perché le guest star in Colombo recitano sempre la parte degli assassini, il che gli permise di giocare con la sua immagine pubblica, interpretando un divo del country cristiano rinato, marpione e uxoricida. Ve lo immaginate Dylan nella stessa situazione, Dylan messo sotto torchio da Peter Falk? Ma Cash è anche stato più socialmente impegnato di Dylan: tanto lontano dai circuiti rodati della politica quanto concentrato sui diritti dei meno rappresentati: i nativi americani e i galeotti. Nel 1968, mentre BD rilasciava interviste in cui negava di avere opinioni sul Vietnam, Cash aveva inciso il suo live più famoso, alla prigione di Folsom. Persino alla sua camicia nera, che aveva scelto come divisa per comodità e perché si sposava col vocione, col tempo assumerà un significato sociale: era il lutto per gli oppressi e i veterani. Nessuno ha mai potuto accusare Cash di aver tradito il suo pubblico o i suoi ideali. Dylan, per contro, stava costruendo intorno a questo tradimento una narrativa. In un certo senso la vera storia del rock comincia con lui, se il rock è dire "fottiti" a chi ha pagato per venirti ad ascoltare. E per un po' abbiamo tutti pensato che le cose stessero così.

È una delle cose più difficili da far passare, quando si racconta di Dylan e del rock in generale. La menata dell'integrità artistica. È un concetto che la mia generazione ha assorbito durante la pubertà, e che oggi proprio non funziona più. Oggi tutti (non solo i bimbominchia) trovano cosa buona e giusta che un artista faccia i soldi: è la dimostrazione tangibile e misurabile del suo talento. È la narrativa dei vincitori dei talent show, e ancora prima dei rapper. Che sotto i collanoni tamarri sembrano custodire un'etica calvinista: il denaro è la misura del successo, il successo è la prova che Dio li ha scelti. L'invidia dei critici è lo stridore dei denti di coloro che Dio ha creato perché fossero lo sfondo opaco alla gloria dei pochi. Una volta non la pensavamo così. Una volta c'erano molti più soldi in ballo, bisogna anche dire questo (oggi se un cantante azzecca un album al massimo si sistema per qualche anno, sei felice per lui, non è che arriva immediatamente il jet privato). È complicato spiegare che passavamo il tempo ad accusare i nostri artisti preferiti di vendersi, o di essersi già venduti. Che era poi a ben vedere il motivo per cui potevamo sentirli per radio, vederli alla tv, trovarli sugli scaffali dei negozi. E però alla fine di ogni artista cercavamo sempre i dischi precedenti, quelli meno commerciali.

Questa schizofrenia non riguardava soltanto una nicchia di utenti, era a suo modo un fenomeno di massa. In Europa ebbe il suo apice col punk - malgrado il punk avesse iniziato prestissimo a svendersi. Negli USA il mito dell'Integrità era cominciato molto prima, forse proprio con Bob Dylan. Che si era imposto in un ecosistema molto particolare - la scena folk di Manhattan, una contraddizione in termini che più di ogni altro aveva fatto emergere. Dylan fu la prima rockstar a sentirsi chiamare venduto: prima di lui c'era Elvis, ma nessuno trovava strano che Elvis si vendesse. Dylan fu il primo a trovarsi davanti il problema, e fu il primo che dovette elaborare una strategia per risolverlo: non fu semplice, e forse determinò un incidente stradale e/o un esaurimento nervoso. In ogni caso nel 1969 tutto questo era alle spalle, e Dylan sembrava avere trovato una sua risposta: certo che mi vendo. Che altro dovrei fare? Sono un musicista, questo è il mio mestiere. Mai preteso di essere altro. Johnny Cash era un buon esempio, autorevole e a portata di mano: aveva inciso tantissimi dischi, alcuni buoni, alcuni così così. Era un buon autore, ma soprattutto un interprete. E soprattutto non aveva mai smesso di sostenere Dylan. Lo aveva conosciuto alla Columbia quand'era la giovane promessa del folk; aveva presentato le sue canzoni al pubblico tradizionalista del country. Gli era rimasto amico anche nella fase rock più alienata. Nel 1968 Dylan perde Woody Guthrie, una figura in qualche modo paterna (nel 1969 perderà il padre vero). Cash rimaneva nei dintorni, un fratello maggiore che ne aveva viste tante, sul quale poter contare nel momento del bisogno. Anche lui viveva dalle parti di Woodstock, anche lui conosceva le paranoie della celebrità, e la fatica della vita da musicista on the road gli aveva lasciato un problema di dipendenza dalle anfetamine.

"Is it rollin', Bob?"

(E il terzo brano cos'è? Un blues, Voglio stare con te, ah vabbe', ci stiamo sprecando, eh, Bob? Al secondo ascolto un po' lo odi, Nashville Skyline, ma devi ammettere che certi momenti sono irresistibili. Gli attacchi di I Threw It All, di Tell Me That It Isn't True - e Lay Lady Lay, ovviamente. E One More Night ti si è attaccata al cervello, può restarci per settimane).

Dylan si offrì anche di illustrare
la copertina, e mica potevano
dirgli di no
(stava facendo progressi, dai).
Nel frattempo la scena folk andava esaurendosi per conto suo - o se preferite evolvendosi. Diversi duri e puri (Phil Ochs, Joan Baez) stavano cominciando a usare amplificatori e batterie, senza destare un decimo dello scandalo che Dylan aveva suscitato. Era la normale evoluzione delle cose, da musica da ballo il rock stava diventando il linguaggio comune di una generazione. La musica di protesta doveva adeguarsi o perire, e si adeguò. Agli hipster di città erano subentrati gli hippie suburbani, meno schizzinosi sia da un punto di vista musicale che politico: la priorità non erano più i diritti civili delle minoranze, ma parole d'ordine molto più vaghe, la Pace e l'Amore - che in piena escalation vietnamita non erano poi obiettivi così banali. "Sing Out!", la rivista di folk impegnato che aveva lanciato il Dylan cantautore e aveva stroncato il Dylan rockstar, a metà 1968 navigava in pessime acque. Fu Dylan stesso a proporre al folksinger Happy Traum di farsi intervistare. Un gesto generoso: Dylan non aveva nessun disco da vendere e in ogni caso il successo imprevisto di John Wesley Harding aveva dimostrato che li vendeva benissimo anche senza interviste. "Sing Out!" aveva rivalutato Dylan dopo JWH: lo aveva interpretato come un ritorno al folk, e un po' lo era. Si trattava però quasi di un effetto ottico: la convergenza tra Dylan e il folk era occasionale, Dylan stava facendo il giro competo, per arrivare all'estremo opposto: il country. Nashville Skyline è il crollo dell'Impero Romano d'Occidente, il tramonto della civiltà urbana, il ritorno alla campagna e alle tradizioni arcaiche.


Qui forse bisogna aprire una parentesi: che differenza c'è tra folk e country? (Continua sul Post).
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Il far west metafisico

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John Wesley Harding (1967)

(Il disco precedente: The Basement Tapes.
Il successivo: Nashville Skyline).



La casa era malvagia. Si capiva da lontano.
Non avendo ancora l'età per il motorino, battevamo la pianura in bicicletta. La statale era troppo pericolosa, così insistevamo su queste strade di campagna, tenendo la barra a sud perché la città era da quella parte - ma era veramente la città che cercavamo? Un pomeriggio tra gli altri trovammo uno stradone che conduceva a una villa, forse una residenza di signori. Per un buon tratto di strada non ci sembrò diversa da tante le altre case sperse nella pianura. Poi ci accorgemmo che tra le finestre vere ce n'erano di dipinte, e da ogni finestra un volto di donna ci guardava. Non ricordo cosa ci dicemmo. Forse anche niente: ma tornammo indietro. Avessimo avuto qualche anno in più, la curiosità avrebbe vinto. Ma non avevamo ancora l'età del motorino, e una casa di finestre dipinte, di volti dipinti, ci sembrava soltanto un luogo empio.

È uscito il nuovo documentario di Al Gore, e io non ho voglia di vederlo. Credo che l'unica cosa che capirei è: siamo fottuti. Dieci anni fa avremmo dovuto intervenire in modo preciso su alcuni problemi molto chiari, ma mancava la volontà politica e in seguito è mancata sempre più. È andata così. Ora chi è ricco si sta organizzando il suo paradiso artificiale; chi è povero si attrezza per la catastrofe; chi sta in mezzo si svaga litigando sui vaccini o sull'olio di palma o sulle primarie del Pd o sulla Siria. Io scrivo di Dylan, tanto ormai.

(Le piante dei miei piedi, vi giuro, stanno bruciando).

Nell'autunno del 1967 Dylan chiama Bob Johnston, il suo produttore, e lo avverte che ha finalmente qualche canzone da registrare a Nashville. Stavolta non si porta né Robertson né Kooper, col quale forse ha rotto i rapporti. Johnston gli fornisce una sezione ritmica: al basso c'è Charlie McCoy, che aveva regalato una chitarra flamenco a Desolation Row. Dylan ha idee insolitamente chiare su come registrare il nuovo materiale: in poche ore tre canzoni sono pronte e Dylan se ne torna a Woodstock. È il 17 ottobre. Il 6 novembre è di nuovo a Nashville per una seconda sessione, con gli stessi musicisti. Il disco è quasi pronto. È il più strano che abbia mai inciso.

Se all'inizio aveva avuto in mente un arrangiamento un po' più elaborato, strada facendo cambia idea. A un certo punto deve avere avuto un ripensamento, visto che dopo le prime due session fece ascoltare i master a Robbie Robertson, il chitarrista della Band. Voleva proporgli di fare qualche sovraincisione. Robertson rifiutò. Forse la stima di Dylan se l'è conquistata così, mettendo la sincerità sopra il suo interesse: era l'occasione per rimettere mano a un disco di Dylan, magari per dimostrare che gli elementi della Band potevano funzionare anche come musicisti da studio. Ma Robertson disse di no: i pezzi gli sembravano già perfetti così.

Che Dylan potesse nutrire dei dubbi su quello che stava facendo è comprensibile. I pezzi nuovi erano completamente diversi da quelli di Blonde On Blonde. Potevano in un certo senso somigliare a un ritorno all'ordine, al folk del periodo acustico: e molti critici e militanti si precipitarono a leggerli in tal senso. Ma a ben vedere erano qualcosa di completamente diverso. A me piace pensare che Robertson abbia sentito qualcosa di pericoloso in quei solchi, qualcosa a cui era meglio non avvicinarsi. "Una casa con ventiquattro finestre, e un volto di donna in ognuna".

Carrà 1914.
Di John Wesley Harding nessuno osa parlar male. Molti preferiscono non ascoltarlo neppure - i numeri di Spotify lasciano intravedere un abisso tra gli ascolti di Blonde On Blonde e quelli di JWH. Siamo entrati nella tarda classicità, una zona grigia in cui la critica lo difende ancora ma lo ascolta meno volentieri. I barbari a ben vedere sono già arrivati, alcuni militano nelle legioni dell'Impero. Se anche non sapessimo nulla dell'incidente in motocicletta (in effetti non ne sappiamo un granché), ugualmente non potremmo che concludere che tra i due dischi dev'essere successo qualcosa di grave, una catastrofe, una malattia. Qualcosa è finito per sempre - banalmente, è scomparso l'organo di Kooper, che da Like a Rolling Stone a Blonde On Blonde era diventato la cifra del suono di Dylan. Qualcos'altro sembra riaffiorare dal passato: tornano le ballate, le buone vecchie tradizioni (i fan che fischiavano ai concerti potevano dirsi soddisfatti), eppure sono illuminate da una luce diversa, onirica, che ci fa dubitare di quello che sentiamo. Qualcuno nottetempo ha creato una città falsa affinché ci svegliassimo convinti di abitarci da sempre, ma ha sbagliato qualche dettaglio, magari i nomi delle statue. John Wesley Harding non è un eroe, Sant'Agostino non è un martire, Tom Paine non è Tom Paine, queste ballate non sono vere ballate, questo passato è un'impostura.

JWH mi fa sempre venire in mente un quadro di Carrà, Le figlie di Loth. È un'opera neoprimitiva, neomedievale, proto-metafisica, che indugia nell'ambiguità e nel mistero - con quel titolo biblico che forse serve solo a dare un tono. Più che un quadro che racconta della Grande Guerra, è l'opera di un reduce che ne porta i segni. Cinque anni prima Carrà era partito per la trincea interventista e baldanzoso: i quadri che dipingeva fino al 1914 erano tripudi futuristi di movimenti e di colore. Le figlie di Loth per confronto sembra il vaneggiamento estatico di un mutilato in un sanatorio. C'è sempre la possibilità che il pittore fosse solo un furbacchione che sapeva annusare il vento: dopo Caporetto nessuno voleva più sentir parlare di futurismo, mentre questa metafisica e questi valori plastici promettevano bene.

Carrà 1919.
Allo stesso modo, può anche darsi che la profondità di John Wesley Harding sia completamente accidentale: che si tratti soltanto un disco inciso in fretta e furia per evitare di pagare una penale. Nella peggiore delle ipotesi, Dylan non aveva materiale e arrivò a Nashville con una manciata di testi brevi e sconclusionati, costruiti intorno a uno schema metrico convenzionale. Ci applicò i primi giri di chitarra che riuscì a trovare, registrò e mandò alla Columbia con preghiera di promuovere il disco il meno possibile (uscì due giorni dopo Natale, apparentemente un suicidio commerciale). Aveva così poche canzoni che riciclò anche una ballata western che non era riuscito a finire. Per nascondere la sua natura di riempitivo mise il brano in cima alla scaletta, e siccome non aveva nemmeno trovato un nome per il disco, la Columbia usò proprio il titolo della ballata abortita, John Wesley Harding.

Stavo scrivendo una ballata su... tipo magari uno di quei vecchi cowboy, sai... una di quelle ballate davvero lunghe. Ma a metà della seconda strofa mi sono stancato. Avevo una musica, e non volevo sprecarla, era una melodia carina, così ho soltanto scritto una terza strofa rapida, e l'ho registrata... sapevo che la gente avrebbe ascoltato la canzone e avrebbe detto che non capiva quel che stava succedendo, ma se avessero fatto uscire quella canzone più tardi, se non avessimo chiamato l'album John Wesley Harding e non avessimo dato tanta importanza alla canzone, così che la gente cominciasse a farsi domande, la canzone sarebbe saltata fuori e la gente avrebbe detto che era un rifiuto. (Intervista a "Rolling Stone", 1969)

Nemmeno Dylan poteva immaginarsi che un disco del genere diventasse un successo tanto clamoroso. Divenne disco d'oro molto prima di Blonde On Blonde. I primi a farselo piacere furono i critici: dopo 18 mesi senza un disco ufficiale erano in crisi pesante, si erano ridotti ad accaparrarsi i fumosi bootleg della cantina. In confronto JWH era un prodotto di nitore smagliante: e non c'è dubbio che i testi, per quanto ambigui, siano molto evocativi, e che gli arrangiamenti, così puliti ed essenziali, lo rendano uno dei dischi di Dylan che teme meno il tempo. Potrebbe essere stato inciso in un momento qualsiasi tra il 1960 e oggi. È un album senza età e senza apparente senso, in cui tutti hanno trovato tutto. Ci sono in giro teorie di ogni genere, alcune seducenti (le iniziali di John Wesley Harding alluderebbero al tetragramma biblico), altre un po' tirate per i capelli: vedi l'impegno con cui i critici cercavano di trovare riferimenti alla guerra del Vietnam in un disco che rifiuta qualsiasi contatto con la contemporaneità ed è ambientato in un Far West metafisico. Per Alessandro Carrera John Wesley potrebbe alludere a Lee Harvey Oswald, l'assassino di Kennedy.

John Wesley Harding era un amico dei poveri. Ma quando mai. John Wesley Hardin (senza g) era un maledetto ragazzino che sparava per capriccio e una volta uccise un tizio solo perché russava, nella sua stanza d'albergo. Voleva solo svegliarlo, disse. E così sparò. In aria? No, sparò alla parete. Un colpo? No, un tamburo intero. Lo svegliò? Non per molto. Anni dopo, quando saltava fuori la storia, lui si difendeva così: dicono che ho ucciso sei uomini perché russavano, beh, non è vero. Ne ho ucciso uno soltanto. Nella sua autobiografia si attribuiva altri 40 omicidi. Stime più oggettive stanno sotto la trentina. "Ma che si sappia non ha mai colpito un onest'uomo", scrive Dylan. Stronzate. Sta confondendo uno dei pistoleri più insensatamente violenti di tutta la storia del West con un Robin Hood. Perché lo fa? Siamo in un qualsiasi momento del 1967, Dylan è a Woodstock. Il tempo che non lo passa in famiglia lo trascorre a lezioni di pittura da un vicino di casa, o a improvvisare con la Band. I testi che butta giù nel periodo non sono molto definiti, sembrano tutti brogli funzionali a mandare avanti la musica, in attesa di trovare parole più ispirate. Magari "John Wesley Harding" all'inizio era solo un nome che gli ronzava in testa. Magari dopo la prima stesura avrebbe sostituito il nome con uno meno ingombrante. Non è la prima volta che si improvvisa cantastorie del West e si mette a raccontare la saga di un fuorilegge dal cuore d'oro: per la Witmark aveva già inciso la ballata di "Rambling, Gambling Willie", giocatore d'azzardo amico dei poveri e degli oppressi. John Wesley Harding, la canzone, avrebbe potuto fare una fine molto simile: registrata in cantina, archiviata, perduta, ritrovata quarant'anni dopo. Quello che la trasforma nella title track di un nuovo disco di Dylan è un evento misterioso e paradossale. Dylan si blocca sulla seconda strofa. Come un'epifania al contrario: perde la parola. Forse si domanda: ma cosa sto scrivendo? Perché racconto delle storie, delle leggende, delle bugie? È questo, davvero, il mio mestiere?

Quel che avviene dopo, nessuno ce l'ha mai raccontato.

Compaiono all'improvviso nove brani. Non può che averli scritti nel 1967, ma non sappiamo quando: sappiamo invece che non li volle mai provare con la Band, anche se ci suonava quasi tutti i giorni. E che li compose senza avere una musica, una cosa che in seguito sosterrà di non aver mai fatto né prima né per molti anni a seguire. Sette seguono uno schema ritmico convenzionale, la Common measure delle vecchie ballate: a un verso di quattro giambi (There MUST be SOMEthing OUT of HERE) ne segue uno di tre (Said the JOker TO the THIEF). È lo stesso distico del Poema del vecchio marinaio di Coleridge, di Amazing Grace, di As I Walked Out One Evening di Wystan H. Auden. È un metro che Dylan non si va a cercare: se lo porta dietro dalla scuola, dalle letture che ha fatto, da qualche vecchio disco che ha preso in prestito. I sette brani hanno un numero fisso di versi: tre strofe di quattro distici, trentasei versi (il 36 è una cifra di una certa importanza nella Bibbia). Una simile regolarità è insolita non solo per Dylan, ma in generale per qualsiasi cantautore o autore di musica leggera. Ai giornalisti spiegherà, tradendosi un poco, che stava cercando di diventare sintetico, di togliere i versi riempitivi, di scrivere l'essenziale: un'implicita autocritica per i deliri torrenziali di Blonde On Blonde? Ma ha l'aria di una giustificazione a posteriori.

Rimane la suggestione letteraria: i sette testi, accostati, sembrano formare una plaquette, una breve corona di poesie come avrebbe potuto pubblicarla un poeta modernista della prima metà del Novecento. Si tratta per lo più di visioni oniriche: partono da un dettaglio che sembra realistico e rapidamente allargano il quadro finché non compare qualcosa di dissonante, di paradossale, che ci porta al risveglio. Potrebbe averli scritti tutti in una notte: potrebbero essere sette sogni, intervallati da sette brevi risvegli. Il primo e l'ultimo sembrano funzionare come chiave.

As I Went Out One Morning comincia come una passeggiata "dalle parti di Tom Paine": siccome Paine è un rivoluzionario e Padre Fondatore, siamo portati a immaginarlo come una statua in un parco. Proprio da quelle parti Dylan vede una fanciulla in catene: appena le offre una mano, appena lei gli afferra il braccio, si rende conto che gli farà del male. Tenta di scrollarsela di dosso, ma lei non si stacca, lo implora, vuole scappare con lui a Sud. Finché non arriva Tom Paine in persona a imporle di sottomettersi, e a chiedere scusa: Tom Paine chiede scusa a Bob Dylan. È il momento di svegliarsi, e rammentare quella vecchia figuraccia che Dylan aveva rimediato tre anni prima, quando aveva maldestramente parlato dell'assassinio di Kennedy mentre saliva su un palco a ritirare un premio... il Tom Paine Award.

"Ho sognato che vedevo Sant'Agostino vivo come te o come me". I sogni di JWH non sono immersi in nessuna nebbia onirica, di quelle che convenzionalmente vengono sparse sui set cinematografici. Sant'Agostino, per qualche secondo, è vivo come noi: proprio come succede alle immagini dei sogni veri e non ricostruiti in laboratorio. JWH è un disco inquietante che non fa il minimo uso degli strumenti convenzionalmente adoperati per inquietare l'ascoltatore, o anche solo per segnalare che si trova davanti al tipico oggetto misterioso: niente riverberi e bisbigli, niente settime diminuite, solo basso batteria chitarra e armonica. Ogni canzone che comincia potrebbe parlare di amore o di disoccupazione o di semine e raccolti, e invece ecco appare un Santo con le sue profezie di sventura. Cerca le anime già vendute. Non ha pietà per re o regine. È davanti al martirio, e all'ultimo istante Dylan si rende conto di stare tra la folla che lo condanna. "Oh, mi svegliai nell'ira, così solo e terrorizzato. Misi le dita sul vetro, chinai il capo e piansi".

Di All Along the Watchtower avremo occasione di parlare altre volte, se non altro perché si tratta della canzone che Dylan ha eseguito più volte dal vivo. C'entra senza dubbio Jimi Hendrix, ma non sottovaluterei il fatto che sia facilissima da suonare (gli U2, impertinenti, la impararono in una sera e la registrarono subito). In questo caso il problema di trovare una musica per un testo già pronto venne risolta con una soluzione che nel 1967 doveva sembrare incredibilmente minimale: un riff di tre accordi, la minore - sol - fa - sol - la minore, martellati per tutta la canzone. L'hard rock comincia anche qui. Il testo è un altro quadretto metafisico: dei torrioni, una muraglia, due misteriosi personaggi (il Joker e il Ladro) che discutono, indovinate, della fine del mondo. Che è inevitabile e forse non deve preoccuparci, dice il Ladro, perché "ci siamo già passati, e non è il nostro destino". La terza strofa (coi cavalieri che si avvicinano alle mura) potrebbe essere la prima, il quadretto non ha un inizio e una fine, tutto si raggela in un solo istante. Magari è una coincidenza, ma Dylan sta anche imparando a dipingere.

The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest non fa parte delle sette ballate uguali: ha la stessa struttura, ma è molto più lunga, un ritorno di Dylan al racconto in versi. È anche una delle cose più misteriose che abbia scritto (continua sul Post)
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Memorie dal seminterrato

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The Basement Tapes (The Bootleg Series vol. 11, 2014).
The Basement Tapes (1974)
Great White Wonder (1968).

(Il disco precedente: The "Royal Albert Hall" Concert.
Il disco successivo: John Wesley Harding).

Cari dylaniti, ci siamo.
Mi aspettavate al varco, vero?

Per mesi mi sono preso gioco delle vostre ossessioni: munito di poco più che Wikipedia e Spotify ho attraversato con impeto sbarazzino le vostre regioni più sacre: lungo le tappe del mio piccolo viaggio organizzato ho profanato il Dylan acustico, ho liquidato in un mese quello elettrico, non c'era un capolavoro che non si potesse visitare in settimana. E vi immagino, sornioni, mentre mi lasciate passare e sotto le barbe ghignate, va' pure, va' pure, povero illuso, impiccati alla tua lunghissima corda. Credi di aver capito Dylan perché sei sopravvissuto al 1965, al 1967? Va' pure avanti, vediamo come te la cavi col Grande Deserto del 1967. Ed eccoci qui.

Ai Basement Tapes.

Dove nessun non-dylanita è mai giunto vivo.
O almeno, nessuno è sopravvissuto per raccontarlo.
Ce la posso fare?
No, vero?

Beh, intanto bisogna spiegare all'amabile comitiva che mi ha seguito fin qui cosa sono i Basement Tapes, (Ahahah, non ce la farai mai. Ma perché non hai scelto i Pink Floyd? Se a dicembre partivi coi Pink Floyd, a quest'ora avevi già finito. T'avanzava anche un po' di posto per i progetti solisti). Zitti voi.

Diconsi Basement Tapes i nastri che Dylan convalescente registrò con la sua band (in seguito nota come Band, con la B maiuscola) in un paio di seminterrati dalle parti di Woodstock; registrazioni rudimentali che non avrebbero dovuto essere pubblicate, ma costituire materiale d'archivio per la neonata casa di edizioni musicali (la Dwarf Music) che Dylan era convinto di possedere al 100%, ignorando di aver firmato la cessione del 50% al suo manager, Grossman. Incisioni che venivano stampate su effimeri 45 gradi di acetato e inviate per posta ad altri artisti, dalle quali effettivamente nacquero alcuni singoli di successo: addirittura un pezzo in cima alla top10 inglese (The Mighty Quinn, nella versione dei Manfred Mann). In sostanza, durante il suo ritiro a Woodstock, Dylan riscopre quell'attività collaterale di compositore-esecutore che lo aveva portato negli anni precedenti a incidere acetati per case editrici musicali, prima la Leeds Music e poi per la Witmark: la differenza è che anche questo tipo di registrazioni semi-private, ora, voleva farle con una band. Era anche un modo per tenersi impegnato i pomeriggi, e per tenere impegnata la Band, che era rimasta sotto contratto anche dopo che Dylan aveva sospeso il tour. Queste registrazioni sono convenzionalmente note come Basement Tapes, e ne dovrei parlare oggi.

Senonché (ahahah, qui ti aspettavamo) stavolta i compiti non li ho fatti. I Basement Tapes non li ho ascoltati. Non tutti.
Perché voi sì?
Eh, appunto.

I Basement Tapes hanno una storia, per usare un eufemismo, complessa. In principio fu forse una raccolta di almeno 14 pezzi che circolava nell'ambiente musicale già nell'autunno 1967: lo scopo promozionale delle registrazioni impediva che potessero rimanere private a lungo. Dylan le incideva con la Band per farle sentire agli artisti, ma non poteva impedire che gli artisti le facessero ascoltare agli amici e agli amici degli amici, tutti in crisi d'astinenza perché il loro beniamino non faceva uscire un disco nuovo, rendetevi conto, ormai da quindici mesi. Riuscite immaginare 15 mesi senza un nuovo disco di Dylan? L'inferno sulla terra, dai - non importa che fosse l'anno più cruciale della storia del rock, il 1967: a esordire in quell'anno, tra gli altri, Jimi Hendrix, i Doors, i Pink Floyd, i Velvet Underground: se però non eri il tizio che segue le novità, in circolazione c'erano comunque Beatles, Stones, Who, Kinks, Small Faces, e stavano tutti rinnovando completamente il loro repertorio, sperimentando cose nuove e memorabili. Ma Dylan non c'era. Fino a ottobre, silenzio di tomba - nel frattempo era finalmente uscito nelle sale Don't Look Back, un documentario che risaliva ai tempi del Dylan acustico, due anni prima, un'eternità: ma era un mattone importante del monumento che si stava chiudendo intorno a lui. Finalmente in autunno si scopre che il Genio sta registrando qualcosa. È roba strana, ma piace immediatamente a tutti i privilegiati che riescono ad ascoltarla. Passa di mano in mano, come l'erba. E come l'erba non è che debba essere sempre per forza genuina: un pacco capita a tutti e se sei in compagnia fai finta di niente, l'importante è stare assieme, no? "Buona vero?" Buonissima.

"Non c'è bisogno di registrarla, Garth... è solo nastro sprecato" (Hills of Mexico).

Nell'estate del 1968 arriva nei negozi il primo disco della Band. Si rifaceva esplicitamente all'esperienza dei Basement Tapes e si intitolava Music from the Big Pink. La "Grande Rosa" era la casa nel bosco che la Band aveva preso in affitto, in cui era stata registrata la maggior parte dei Tapes. Dylan nel loro disco non compariva, un po' perché i ragazzi volevano dimostrare di reggersi sulle loro gambe, un po' per questioni contrattuali: la Band aveva firmato per la Capitol, lui restava alla Columbia. In compenso aveva dipinto la copertina, una delle prime testimonianze (abbastanza oscene) del suo periodo di apprendista Chagall. Il disco conteneva almeno tre suoi brani importanti: Tears of RageI Shall Be Released e This Wheel's On Fire: roba buona, che piacque immediatamente ai critici: ma ancora più che l'album, piaceva a tutti pensare che da qualche parte Dylan stesse registrando privatamente coi suoi amici della grande musica, di cui ci arrivavano per vie irregolari soltanto le briciole. "Rolling Stone" lanciò un appello: il Basement Tape dev'essere pubblicato. Al tempo pensavano ancora che ce ne fosse uno solo. Che teneri.

Di lì a poco sette miseri pezzi arrivarono davvero nei negozi, all'interno di un doppio 33giri in una busta tutta bianca; in seguito qualcuno cominciò a stamparci sopra la scritta Great White Wonder, perché negozianti e clienti ormai avevano iniziato a chiamarlo così: la Grande Meraviglia Bianca. Nessun'altra indicazione, perché si trattava di un disco abusivo, un bootleg, uno dei primi in assoluto. Ne sarebbero seguiti tantissimi. I 33giri riprendevano la struttura bifronte di Bringing It All Back Home e degli ultimi show di Dylan: un lato acustico, uno elettrico. Il due lati acustici venivano da vecchie registrazioni domestiche dei primissimi anni, sparite dalla casa di un amico di BD in seguito a un furto. I due lati elettrici contenevano anche brani dei Basement Tapes. Great White Wonder arrivava in un momento in cui, anche a causa del ritiro dalle scene, l'interesse del pubblico per Dylan sembrava più vivo che mai - l'effetto Battisti, per capirci. Più dei brani in sé, destava stupore la direzione completamente inattesa: era musica che non assomigliava né a Blonde On Blonde - (estate 1966) né a John Wesley Harding (dicembre 1967), né al Dylan un po' più country ma anche 'commerciale' di Nashville Skyline, che le radio AM programmavano con piacere in quell'estate 1969, con quella voce tanto diversa, più calda. Acclamare al capolavoro per due facciate di registrazioni sporche in cantina, magari, era un po' da fanatici, ma serviva anche a dare un messaggio preciso: rivogliamo il vecchio Dylan sporco e arruffato, con la sua voce nasale - anche se a ben vedere non assomigliava così tanto al 'vecchio' Dylan. Ma neanche a quel bel faccino che sorrideva sulla copertina di Nashville.

A questo e ad altri appelli, per molto tempo Dylan non rispose, per una serie di motivi che possiamo con un po' di margine ricostruire: (1) non credeva troppo in quel materiale: lo considerava impubblicabile, per una mera questione di resa del suono, ma anche perché inferiore agli standard delle sue uscite ufficiali. (2) In realtà gli standard si stavano già abbassando, e anche i critici avrebbero smesso di gridare al capolavoro per qualsiasi cazzatina Dylan mettesse su disco, ma a quel punto pubblicare i Tapes del 1966-67 avrebbe significato ammettere che da lì in poi l'ispirazione aveva avuto una flessione, per non dire un crollo. C'è anche da dire che (3) non si trattava di un nastro solo, ma di una massa di scatoloni pieni di bobine che già cominciavano ad ammuffire, e riascoltarli per capire cosa si poteva riutilizzare avrebbe richiesto più tempo che incidere un nuovo disco dal niente (un po' come i Beatles, che piuttosto di riascoltare i nastri del progetto Get Back! si misero a incidere Abbey Road. I nastri li riascoltò Phil Spector, e ci tirò fuori Let It Be). Dylan poi non si stava nemmeno preoccupando troppo della conservazione di quella robaccia, custodita dai membri della Band in vecchi scatoloni. Forse perché (4) era materiale della Dwarf Music, il che significa che Grossman ci avrebbe guadagnato il 50%, e dopo aver scoperto la fregatura Dylan era tutt'altro che ansioso di arricchire un altro po' Grossman. Piuttosto, davvero, preferiva incidere altre cose. Magari nello stesso stile dei Tapes, se davvero alla gente piacevano i Tapes. Ma alla gente piacevano davvero? Come facevano a saperlo? Ne avevano ascoltati molto pochi.

Dopo aver a lungo nicchiato, risolta la causa con Grossman, Dylan acconsentì a pubblicare un po' del materiale nel momento in cui meno ne avrebbe avuto bisogno, ovvero nel 1974, all'indomani del successo di Blood on the Tracks. Galvanizzati dal ritorno alla forma del loro idolo, i dylaniti corsero a comprarlo e... decisero che era un capolavoro, che altro avrebbe potuto essere? Si videro per l'occasione critici musicali inclinati secondo angoli imbarazzanti. Per il NYTimes era "uno dei più importanti dischi della musica popolare americana", figurati gli altri. Per Robert Christgau, che tanto criticherà altri sforzi di Dylan, era il disco dell'anno 1974 (addirittura), ma avrebbe potuto anche essere il disco dell'anno 1967: avete presente che razza di dischi erano usciti nel 1967? Sgt. Pepper, Are You Experienced, Velvet Underground and Nico, The Doors, Forever Changes... Christgau in quel momento preferiva una raccolta di scarti incisi in cantina da Dylan.

Questa supervalutazione, alla lunga, non avrebbe giovato alla carriera di BD - che senso aveva preoccuparsi di scrivere materiale nuovo e di arrangiarlo in modo originale, se critici e pubblico si accontentavano di roba amatoriale registrata in un seminterrato? Ma non era del tutto colpa loro. Erano giovani, ricordiamocelo, tutti giovani: la critica rock era persino più giovane del rock, le mancavano un sacco di errori da cui imparare. Aveva desiderato i Tapes per così tanto tempo che ormai non riusciva ad ascoltarli, era così felice anche solo di averli in mano. Era euforica, come il bambino mentre scarta il regalo. Solo dopo ripetuti ascolti qualcuno osò ammettere che, insomma, qualcosa non tornava. Belli i pezzi, per carità. Ma non aggiungevano molto a quello che si era già sentito nella Meraviglia Bianca, e inoltre... dov'era The Mighty Quinn? Dov'era I Shall Be Released? Dov'era Bob Dylan? In otto pezzi su ventiquattro non compariva nemmeno. In effetti chi aveva curato l'edizione del 1974 dei Tapes aveva evidentemente potuto lavorare su pochi nastri: gli unici in condizioni decenti, o magari l'unico scatolone che era già saltato fuori. Per allungare un brodo che i dylaniti conoscevano già, Robertson - il chitarrista della Band, responsabile dell'edizione del 1974 - aveva aggiunto qualche brano dalle session di Music from the Big Pink. Ma in generale tutti i brani erano stati rieditati, ripuliti, corretti: in particolare erano state aggiunte quelle armonie vocali che erano diventate col tempo uno dei marchi di fabbrica della Band, e che le registrazioni rudimentali della Grande Rosa avrebbero documentato in una fase ancora molto embrionale (in tutto il tour del 1965, l'unico a cantare qualcosa era Danko, che armonizzava con Dylan la parola "Behind" in One Too Many Morning. Nella Ain't More Cane del 1974 sembrano un affiatatissimo quartetto vocale. In un seminterrato? Con i microfoni presi in prestito a Peter, Paul e Mary? Quando glielo facevano notare, i critici rispondevano che, beh, uhm, effettivamente qualcosa non tornava, però... non è bella Ain't More Cane? E allora qual è il problema?

DYLAN: "Richard, canta una strofa".
MANUEL: "Che canzone è?"
DYLAN: "Non importa, canta una strofa" (Bring It Home).

Per molto tempo i Tapes del 1974 sembrarono essere gli unici che si sarebbero mai ascoltati. Ma i dylaniti non si davano per vinti e lentamente il muro di omertà cominciò a sgretolarsi. Qualche brano inedito venne stampato qua e là. Nel 2007 uno dei pezzi più strani dei Tapes, I'm Not There, uscì nella colonna sonora del film a cui dava il nome, il bizzarro biopic di Dylan di Todd Haynes. E poi nel 2014 uscì l'undicesimo volume della serie ufficiale dei bootleg di Dylan, interamente dedicato ai Basement Tapes, riesumati dagli scatoloni, ripuliti e rimasterizzati. Sono sei cd. Centotrentotto pezzi, di cui centodiciassette inediti. Sono una testimonianza inestimabile di uno dei periodi fondamentali della carriera di Bob Dylan.

E io... non li ho ascoltati (continua sul Post!)
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L'uomo che urlò "Giuda" a Dylan, forse

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Live 1966 "The Royal Albert Hall Concert" (The Bootleg Series, vol. 4, 1998).
The Real Royal Albert Hall 1966 Concert (2016)
(L'album precedente: Blonde On Blonde.
L'album successivo: The Basement Tapes).

Questa è la versione ufficiale
(NON del concerto di Londra).
Sì, ti vedo sul davanzale della tua finestra, ma non saprei dire quanto tu sia lontana dall'orlo. E comunque, farai solo urlare e saltare un sacco di gente - perché vuoi fare una cosa del genere? Tanto lo so che lo sai che lo so che lo sai che qualcosa ti sta strappando la testa... dimmi mamma, che cos'è? cosa c'è che non va stavolta? (Tell me, momma).

In un altro universo l'estate dell'anno scorso è stata l'occasione per celebrare la tragica scomparsa di Bob Dylan, il geniale cantautore americano che in poco più di quattro anni si impose come il portavoce della sua generazione prima di sfracellarsi in moto, sul Glasco Turnpike, il 29 luglio del 1966. Il coro dei commossi colleghi superstiti (Joni Mitchell, Joan Baez, Phil Ochs, Neil Young) è stato una volta in più interrotto dalla vecchia linguaccia di John Lennon: Ok, (ha detto, più o meno), era un grande, era persino mio amico, però sarebbe bello se la gente lo ricordasse ascoltandone le canzoni, invece di raccontare le solite storielle - avvistamenti nel Village, era lui! - o rifriggere teorie del complotto. C'è ancora chi dà la caccia agli oltranzisti folk, chi cerca di inchiodarli agli indizi. Confessa! Eri tu che lo fischiavi a Londra, anzi no era Manchester, eri tu che lo chiamavi Giuda, ammettilo! Sei tu che gli hai manomesso la moto! Come se la gente andasse davvero in giro ad ammazzare i cantanti che la deludono. E non è neanche stato Grossman, di certo un figlio di puttana come tanti altri manager: no, non lo mise sotto perché aveva paura che Bob si accorgesse di aver firmato contratti discutibili. Non fu nemmeno la moglie ad avvelenarlo, lo volete sapere davvero perché è morto? Perché guidava di merda, da ragazzino era il terrore di Hibbing Minnesota, una volta aveva quasi ruotato un bambino. E poi, insomma, in quel periodo era continuamente fatto, io me lo ricordo bene. Era un genio, mi fa impazzire pensare a che canzoni avrebbe potuto scrivere dopo Blonde On Blonde, magari avrebbe eclissato pure noi Beatles, non scherzo... ma ogni volta che raccontate di qualche complotto massone-giudaico-folk me lo uccidete per la seconda volta. Tutta quella paranoia che mi è venuta qualche anno dopo - lo sapete, non sono uscito di casa per quindici anni, cazzo - è colpa vostra: prima avete perso Gesù, poi ne avete sentito la mancanza e avete cominciato a cercarlo in noi musicisti. Allora ho una notizia per voi (stronzi): noi non resuscitiamo.

Un mese dopo l'Accademia di Svezia ha dichiarato che intendeva insignire del premio Nobel per la letteratura Leonard Cohen. Nel suo discorso - che non ha fatto in tempo a pronunciare, è morto in novembre anche in quell'universo - Cohen ha citato, tra i suoi ispiratori, anche Dylan: senza di lui sarei rimasto un romanziere qualsiasi, ha spiegato. È stato lui a convincermi che potevo usare una chitarra.

In quell'universo, Dylan è più famoso che nel nostro, anche se non ha mai scritto Knocking on Heavens Door, né Forever Young, né Tangled Up in Blue, né Hurricane. È il primo morto illustre del rock anni '60 - tre anni in anticipo su Brian Jones. Il primo a mostrare che il gioco si stava facendo difficile, quando ancora molti credevano che si trattasse soltanto di una cosa da ragazzi, pace amore e capelli lunghi. Quel che più affascina gli ascoltatori di ogni età è la consapevolezza con cui Dylan aveva abbracciato il suo destino, corteggiando la morte in tutti i suoi dischi, in tutti i suoi concerti. In quell'universo il live del 17 maggio 1966 al Free Trade Hall di Manchester è di gran lunga il suo disco dal vivo più celebre e venduto. È l'ultimo. Dopo il funerale Grossman era disperato - un tour di quaranta date in giro per il mondo da annullare - non restava che recuperare tutte le registrazioni dei concerti e pubblicarne una all'anno, tenendo viva la fiamma del genio prematuramente scomparso. La registrazione amatoriale di Manchester era quasi migliore di quella supervisionata da Bob Johnston il 26 maggio al Royal Albert Hall di Londra: quando sarebbe comparso il bootleg, nel 1970, Grossman lo avrebbe fatto sequestrare per poi farne ristampare un'edizione un po' ripulita dalla Columbia qualche anno dopo.

In quell'universo i dylaniti si sarebbero gettati immediatamente sulla testimonianza più drammatica dell'ultimo tour, cercando tra i solchi gli indizi della tragedia imminente. Di cosa parlava l'inedito che non fece in tempo a incidere, Tell Me Momma? Chi è la ragazza sull'orlo del davanzale, incerta se dare un po' di spettacolo? Era già così stanco della vita, l'uomo che aveva smesso i panni di leader del movimento folk per una Telecaster e due occhiali da sole da rockstar? E perché al tizio che lo chiama "Giuda"!, prima di attaccare la sua ultima Like a Rolling Stone, Dylan rispondeva: "Non ti credo, sei un bugiardo?" Un fanatico, forse, un maleducato, senz'altro, ma perché un bugiardo? A qualcuno che vi accusa di tradimento, rispondereste mai: non ti credo? È quasi un'ammissione, non trovate? C'è gente che ha passato anni a farsi domande del genere - magari anche John Lennon.

La copertina di un bootleg.
(NON del concerto di Londra).
Nel nostro universo invece è successo qualcosa, non sapremo mai cosa. Un ripensamento all'ultimo istante, un riflesso condizionato, una svolta, una frenata. Fatto sta che Bob Dylan il 29 luglio 1966 non è morto. Rotta qualche vertebra, dice lui. Secondo alcuni non si è nemmeno fatto male - nessuno lo ha mai visto in ospedale. Ma una serie di concerti programmati negli USA, Grossman dovette cancellarli davvero, e non fu che l'inizio. Dylan non andrà più in tour per otto anni: la seconda fase della sua carriera è finita. Malgrado sia l'epoca classica, quella che più di ogni altra definisce la figura pubblica di Bob Dylan, è durata pochissimo, e a momenti non finiva in tragedia. In effetti, è strano che non sia andata a finire nel modo peggiore. Le premesse c'erano. Dylan è sopravvissuto al suo mito, cresciuto in modo così rapido e incontrollato che rischiava di soffocarlo. Tutto quello che ha fatto da quell'estate in poi in fondo è stato sopravvivere. Ci è riuscito egregiamente.

In questo universo il concerto di Manchester è stato per anni uno dei suoi bootleg più famosi, anche se nessuno lo sapeva. Una registrazione di discreta qualità era stata spacciata, sin dagli anni Settanta, come una testimonianza del concerto al Royal Albert Hall del 26 maggio. Dylan ha acconsentito a pubblicarne una versione ufficiale solo nel 1998 - è stata la seconda uscita della sua Bootleg Series. Persino questa uscita mantiene il nome "The Albert Hall Concert", anche se tra virgolette, perché ormai i dylaniti lo conoscono così e a tirare in ballo Manchester rischiavano di confondersi. Poi, un paio di mesi fa, quando avevo già cominciato la mia dylaneide, la Columbia ha pubblicato in un'edizione limitatissima tutte le registrazioni di tutti i concerti del 1966, giusto in tempo per evitare che dopo 50 anni i diritti di qualche scoreggia di Dylan e degli Hawks non diventassero di dominio pubblico. Sono 36 cd. L'unico disco in edizione non limitata, e disponibile anche su Spotify, è quello relativo al vero concerto alla Royal Albert Hall, che si chiama appunto The Real Royal Albert Hall 1966 Concert. Tutto questo succedeva due mesi fa, dopodiché la Columbia ci ha fatto sapere che Dylan aveva pronto un nuovo disco di cover, triplo. Da quando ho iniziato a scrivere un pezzo su ogni disco di Dylan, lui ne ha pubblicati quasi una quarantina. Comincio a capire come si sente Achille mentre la tartaruga si allunga.

Il concerto di Londraa, quello vero.
Ricapitolando: quello tra virgolette ("The Albert Hall Concert") non è quello inciso all'Albert Hall, anche se tutti lo hanno pensato per così tanto tempo che ormai è come se fosse vero; invece quello sottolineato (The Real Royal Albert Hall Concert) è stato inciso davvero all'Albert Hall da Bob Johnston, e infatti la qualità audio è un filo superiore, ma Dylan è anche un po' più stanco e scazzato: all'inizio più che suonare She Belongs to Me sembra che voglia sbagliarla, che voglia tirarla da una parte o dall'altra finché non diventa un'altra canzone. Quanto agli Hawks, forse erano emozionati perché fino a pochi mesi prima suonavano nelle balere del Jersey, quando andava bene. Ed eccoli al Royal Albert Hall, pieno zeppo di inglesi. Che li fischiano. Con protervia e maleducazione. È una cosa che si vede meglio nei video su youtube, spezzoni di quel documentario che Dylan non riuscì mai a montare. Sembrano proprio intolleranti, e cattivi. Vattene a casa Bob, dicono. Stacca l'amplificatore. Lui è al pianoforte cerca di cominciare Ballad of a Thin Man, ci prova per qualche minuto, ma loro vanno avanti (non è successo né a Londra né a Manchester, ma da qualche parte è successo). Sembra che abbiano pagato il biglietto per quello: per venire a fischiare Dylan. Come ai tempi delle serate futuriste, il pubblico è al contempo il vero artista e il villain della storia che sarà raccontata negli anni a venire: perché la storia la vincono i vincitori e Dylan ha vinto - o perlomeno è sopravvissuto meglio dei suoi detrattori. Già nei primi Settanta, i pionieri della critica rock salutarono l'apparizione del bootleg come un quinto vangelo: il migliore rock dal vivo mai sentito, scrivevano. In effetti ai tempi non è che ci fossero molti live decenti in circolazione - i Beatles, com'è noto, non riuscirono a inciderne uno, troppi urletti: per i Rolling Stones si dovette aspettare il tour del 1970.

Un'altra copertina di un altro bootleg
(ma è sempre Manchester).
Ma Dylan suonava in ambienti più raccolti, per un pubblico, almeno in teoria, più qualificato: gente abituata a sciropparsi tre quarti d'ora di set acustico applaudendo soltanto a fine canzone, cioè in media ogni otto minuti. Questo fece di lui da subito l'artista più piratato, quando ancora portarsi in teatro un registratore a bobine non doveva esser poi così semplice: ma finché si trattava di registrare voce e chitarra, il risultato valeva quasi sempre la pena. Anche i set elettrici e modo loro funzionavano, e proprio per il motivo opposto: fischi e applausi andavano a fondersi con gli arpeggi di Robertson e le scariche di Mickey Jones, in un rudimentale muro del suono che l'edizione ufficiale del 1998 ha parzialmente sgretolato. Ora voce e strumenti si sentono meglio e forse anche un po' di mito è venuto via col rumore di fondo - mi chiedo chi oggi ascoltando "The Royal Albert Hall" per la prima volta oserebbe ancora definirlo il miglior disco rock dal vivo. Voglio dire: è ancora roba di prima qualità, brillante, pioneristica. Non assomiglia a nessun gruppo rock inglese, e nemmeno al blues americano - con una mossa autolesionistica, man mano che procedevano nel tour, Dylan e gli Hawks avevano accantonato tutti i blues degli ultimi due dischi, i brani più facili. Quella che viene eseguita è una musica con solide radici nella tradizione musicale americana, ma con fiori e frutti completamente nuovi. Più duttile del blues, meno immediata del nuovo rock. Non molti erano pronti ad ascoltarla nel 1966: senz'altro non i cultori folk che avevano comprato il biglietto nella speranza di riascoltare The Times They Are A-Changin' o Hattie Carroll. Ma sul serio era il migliore rock in circolazione? Il punto di arrivo della carriera di Dylan? I critici riascoltano i dischi rimasterizzati e dicono di sì, il pubblico pagante fischiava, gli Hawks tornarono a casa piuttosto avviliti (Levon Helm, il batterista e leader, era stato il primo a dare forfait), Dylan pur di non proseguire combinò un incidente in moto. E se il pubblico non avesse avuto tutti i torti? Se la strada era davvero quella giusta, perché Dylan non ha proseguito in quella direzione?

Nel 1999 un giornalista è riuscito a scovare il cattivodi tante leggende dylanite, l'Accusatore di Manchester: l'uomo che fu registrato e filmato mentre gridava: "Judas" (continua sul Post).
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Dylan finge proprio come un uomo

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Blonde On Blonde (1966)
(L'album precedente: The Cutting Edge 1965-1966
L'album successivo: The "Royal Albert Hall Concert").

Ti suonano se provi a filar dritto
ti suonano come ti avevan detto.
Ti suonano se resti in casa, dunque
stai solo, ma ti suonano comunque. 
Ma non c'è neanche più da lamentarsi: 
Tutti quanti devono suonarsi.

Ci dev'essere stato un errore al negozio di dischi - eppure sulla label del singolo c'è proprio scritto BOB DYLAN. Che abbiano sbagliato a stamparlo? O è uno scherzo? Insomma, c'è una banda che suona. Non una band elettrica: è proprio una banda di ottoni. E però c'è anche... l'armonica, e adesso... questo è proprio lui. Mio dio, ma sul serio? Questa cosa è l'ultimo singolo di Bob Dylan? E dopo questo, cosa?

Ti suonano se tieni la tua rotta,
ti suonano se provi a tener botta,
ti suonano finché non vai al tappeto,
poi strisci a casa e ti suonano dietro.
Ma non ha davvero senso lamentarsi:
tutti quanti devono suonarsi. 

È il febbraio del 1966. Blowin' in the Wind è uscita appena quattro anni prima. Il nuovo singolo si chiama... non ha un vero nome, è uno di quegli irritanti titoli a caso che Dylan tira fuori quando è su di giri, Rainy Women #12&35. Ormai lo abbiamo capito, Dylan dà i numeri quando vuole sembrare misterioso, ogni cifra è una bugia. Qui ce ne sono due. E un gioco di parole abbastanza triviale sul termine "stoned", che da qualche mese nello slang giovanile non significa più "ubriaco", come nei vecchi dischi di Ray Charles, ma "fumato". Ma soprattutto c'è una specie di banda di ottoni. Non si sono mai sentiti gli ottoni in un disco di Dylan. In generale, non ci sono bande di ottoni nei dischi dei babyboomers bianchi. Neanche i Beatles ci hanno ancora provato (Got to get you out of my mind uscirà su Revolver in primavera). Dopo Rainy Women diventeranno, per qualche tempo, necessari. Una banda manderà a casa i perplessi ascoltatori del prossimo disco dei Rolling Stones, Between the Buttons (Something Happened to Me Yesterday). E una banda, naturalmente, prenderà il posto dei Beatles dopo il primo ritornello di Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band. Tutta questa deriva orchestrale non sarebbe stata possibile se Dylan non avesse dato il la: la fase bandistica del pop-rock anni Sessanta comincia a Nashville. Di tutti i posti al mondo.

Sappiamo che Dylan è andato in Tennessee dopo una serie di session frustranti a New York, su suggerimento del produttore Bob Johnston, per poter lavorare con professionisti disciplinati, onesti operai del country. Appena arriva fa una serie di mosse abbastanza disorientanti - col senno del poi, si direbbe che vuole semplicemente mostrare che è il boss. Prima mossa: devastare il luogo di lavoro, facendo abbattere le tramezze tra i box dei musicisti: devono tutti suonare nello stesso open space, guardarsi in faccia, come a New York. Seconda mossa: dare appuntamento agli operai alle sei di sera per incidere un pezzo, tenerli alzati per una notte intera perché il pezzo non è ancora pronto, per poi arrivare, alle quattro del mattino, con gli accordi e il testo di Sad-Eyed Lady of the Lowlands: la leggenda dice che cominciarono a suonarla senza sapere che sarebbe durata più di dieci minuti; che a un certo punto temevano che sarebbe durata per sempre e non sapevano più come continuare il crescendo, finché alla fine Dylan non fu sazio e fu buona la prima - non è vero, la registrarono almeno tre volte, abbiamo le prove, ma i dylaniti preferiscono le leggende. Terza mossa: portare in sala un po' di fumo e qualche cassa di alcolici, perché ha appena scritto una canzone sullo stonarsi e deciso che gli onesti operai l'avrebbero suonata stonati, scambiandosi gli strumenti. Come ai tempi di Another Side, quando aveva registrato Black Crow Blues ubriaco al pianoforte: lo stesso metodo applicato a un'orchestra (anche questa forse è una leggenda, alcuni dei musicisti sostengono di non aver visto né alcol né altre sostanze ricreative).

Aveva senso spostarsi centinaia di chilometri più a sud; scritturare altri session men, per poi trattarli come pupazzi? Evidentemente un senso c'era, i risultati arrivarono. Rainy Women salì al secondo posto della Top100 di Billboard, eguagliando il record di Like a Rolling Stone. So che è difficile da accettare, ma è la canzone di Dylan che ha più influenzato l'immaginario pop italiano: anche chi non ha mai ascoltato Blowin' in the Wind conosce l'espressione Ti tirano le pietre. Il pezzo verrà poi inserito all'inizio del nuovo 33 giri, Blonde On Blonde, che a mezzo secolo di distanza continua ad avere uno degli attacchi più memorabili della storia del rock: ti aspetti batteria e chitarre, parte un trombone (qualcuno ancora si aspettava chitarra folk e armonica: BD era due stanze più in là). Se Dylan si metteva a usare il trombone, veramente qualsiasi cosa era possibile. Proseguendo nell'ascolto con questo approccio, si può anche restare delusi: più che per sperimentare, Dylan è venuto a Nashville per limare, togliere il superfluo, mettersi a fuoco (proprio lui che durante le session di New York aveva scelto, per la copertina, uno scatto sfuocato). La scelta tra pianoforte e organo non era più procrastinabile. Nell'unico brano salvato dalle session newyorkesi, One of Us Must Know, senti ancora Al Kooper e Paul Griffin (o Garth Hudson?) che si sfidano, improvvisando fughe in ogni spazio vuoto. Una polifonia simile imperversava anche nelle esibizioni live, che venivano fischiate magari per altri motivi, ma insomma a un certo punto qualcuno deve essere riuscito a convincere Dylan che una tastiera sola bastava. E anche stavolta, tra il dilettantismo di Kooper e il buon senso, Dylan sceglie Kooper. Il suo organo sgargiante e indisciplinato, che aveva già reso peculiare Like a Rolling Stone, diventa la seconda voce del nuovo disco: un contrappunto per la voce di Dylan, più onnipresente dell'armonica. Vogliamo dirla tutta? Alla lunga può stancare. I pezzi di Highway avevano tutti un loro suono peculiare, erano tutti esperimenti diversi. Quelli di Blonde hanno melodie più originali (Dylan sta quasi troncando il cordone ombelicale col blues), ma il sound è più uniforme. Fanno tutti parte dello stesso esperimento, riuscitissimo, per carità: ma è una direzione sola.

È quel "thin wild mercury sound" che Dylan avrebbe descritto più di dieci anni dopo in una famosa intervista a Playboy come la cosa più vicino al suono che aveva in testa. Un'ammissione importante: dopo Blonde On Blonde Dylan avrebbe avuto a disposizione musicisti ancora più bravi, e ancora più tempo e denaro, senza riuscire mai più ad arrivarci - in molti casi non avrebbe nemmeno perso tempo a tentare. I traduttori italiani poi s'ingegnano come possono, e per molti anni io ho continuato a leggere qualcosa come "un suono sottile e selvaggio come il mercurio". Ultimamente invece va di moda tradurre "mercuriale", benché per il Sabatini Coletti significhi soltanto "Tariffario, listino ufficiale dei prezzi medi correnti delle merci, emanato dalle camere di commercio", o "Di preparato farmaceutico contenente mercurio". Ma credo che i traduttori abbiano in mente il dio Mercurio/Hermes, messaggero alato e criptico, e non si decidano a tradurre "ermetico" per timore che Dylan sia accostato al primo Quasimodo o al secondo Ungaretti. Io nel frattempo ormai non ci posso fare niente, le vecchie traduzioni mi sono entrate sottopelle, il mio Holden continua a dire "compagnia bella", e se socchiudo gli occhi mentre ascolto Blonde On Blonde continuo a vedere le palline grigie di mercurio che si squagliavano e ricompattavano quando rompevi un vecchio termometro. Cosa c'entra esattamente col suono di Blonde? Forse è la melodia che si scompone e si ricompatta nei fraseggi di Kooper? Non saprei. Senza quel continuo lavoro di scomposizione della melodia, le canzoni più lunghe (Stuck Inside the Mobile, Visions, Sad Eyed Lady), sarebbero monotone; e però è anche vero che quell'organo alla lunga stucca. Il prezzo da pagare per una messa a fuoco è una certa perdita di freschezza. Meno imprevisti, meno sorprese. In Highway Dylan si trovava ancora al crocicchio tra tante diverse possibilità: in Blonde ha fatto le sue scelte. Inevitabilmente, ha rinunciato a qualcosa.

Ora il ciarlatano mi diede due medicine, e mi disse: buttati. Una era un filtro texano, l'altra grappa da vagabondi. E io, come un pazzo, le ho mischiate, e mi hanno stritolato il cervello: e ora la gente è diventata più brutta, e ho perso il senso del tempo - oh mamma, ma vuoi vedere che questa è davvero la fine? Un'altra volta bloccato nel fiume Mobile, col blues di Memphis?

Oggi entrambi i dischi sono unanimemente considerati capolavori - Highway ha il grosso vantaggio di contenere Like a Rolling Stone. Ai tempi il giudizio medio, di fronte a Blonde, era più prudente. Non c'era dubbio che Dylan si stesse evolvendo, ma Blonde non suggerisce l'idea di essere un punto d'arrivo, anzi. Fu l'incidente in moto, a pochi giorni dall'uscita dal disco, a rendere definitivo un assetto che non era stato concepito come tale. E pensare che è uno dei dischi meno escatologici di Dylan: il pensiero della morte, così ossessivo in Highway, è quasi scomparso. È buffo dopo tanti anni rileggere quel che scriveva Fernanda Pivano nella prefazione alla prima traduzione italiana dei testi, e scoprire che per lei e per molti suoi coetanei Blonde era stata la svolta commerciale: è un'ingenuità che può far sorridere, l'idea di Dylan che si mette sul mercato incidendo sette minuti di criptiche Visions of Johanna o altri sette di Stuck Inside the Mobile. Può anche destare un po' d'invidia, una generazione le cui svolte commerciali producevano oggetti di valore come Blonde On Blonde;  Bisogna anche dire che nel 1965 Lyndon Johnson aveva iniziato un bombardamento sistematico del Vietnam del Nord; Malcolm X era stato assassinato; Martin Luther King era riuscito a portare il suo popolo a piedi a Selma (Joan Baez era presente) e a far approvare una legge federale antisegregazione. Di tutto questo Dylan aveva improvvisamente smesso di parlare, ma almeno in Highway aveva continuato a insistere su certi temi familiari ai suoi ascoltatori impegnati: la morte, la decadenza, tutto quell'armamentario esistenzialista che a sinistra va bene su tutto, come il nero.

Blonde On Blonde invece comincia con una fanfara ubriaca, l'unica reazione riservata ai vecchi fan traditi che lo fischiano ai concerti - si capisce che non è più la stessa persona avvelenata dei tempi di Positively, che quello che qualche mese prima lo tormentava ormai è solo un pretesto per farsi due risate. I brani nuovi sono sempre più orecchiabili, alcuni sembrano veramente scritti con in testa la classifica (I Want You!), il blues per la prima volta dai tempi della svolta elettrica è minoritario. Nella facciata elettrica di Bringing, cinque pezzi su sette erano blues. In Highway cinque su nove. In Blonde, cinque su quattordici. Gli altri sono nove pezzi originali, nove progressioni armoniche una diversa dall'altra: uno sforzo di composizione senza precedenti per lui. Addirittura in alcuni brani ci sono gli incisi, i middle-eight - una soluzione tipicamente pop che Dylan non aveva mai usato in tutta la sua carriera (alcuni sono tra i momenti più memorabili di tutto il disco: c'è bisogno di ricordare in che canzone a un certo punto Dylan dice: It was raining from the first and I was dying there of thirst so I came in here?)

Dylan è un uomo ormai, Dylan ha messo su famiglia... (continua sul Post).
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Nessuno sbaglia come Dylan

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The Cutting Edge 1965–1966 (The Bootleg Series Vol. 12, 2015).

(L'album precedente: Highway 61 Revisited
L'album successivo: Blonde On Blonde).

Siede nella tua camera (la tua tomba) con un pugno pieno di puntine, tutto preso dai suoi propositi di vendetta. Maledice i morti che non possono rispondergli: lo sai che non ha nessuna intenzione di guardare dalla tua parte, se non per dirti che ha bisogno di te per testare una sua qualche invenzione... Per favore, perché non te ne sgusci dalla finestra? Con le tue braccia e le tue gambe, non ti farai male. Come fai a dire che ti mancherà? Potrai tornare da lui quando ti pare.  

Qual è il pezzo di Dylan che ascoltate più spesso? No, non quello che vi piace di più. Non Like a Rolling Stone - è una canzone importante, nessuno nega che abbia cambiato la storia della musica, ma dopo un po' è normale che uno non abbia tutta questa voglia di riascoltare Like a Rolling Stone. Il pezzo di Dylan che ascoltate più spesso non è nemmeno il titolo che sparate quando vi chiedono il brano preferito, cercando di non sembrare né troppo scontati (Blowin' in the Wind) né troppo hipster (Blind Willie McTell): e niente Hurricane, per carità bellissima Hurricane, ma quante volte in macchina l'avete riascoltata davvero, l'avete riascoltata tutta? 15 anni fa Nick Hornby scelse la sincerità: la canzone di Bob Dylan che resisteva meglio sulla sua autoradio era Can You Please Crawl At Your Window. Sul serio? Io ci credo.

Può sembrare una scelta snob - di tutti i singoli del '65, si tratta di quello che non è mai stato ripubblicato in nessun Greatest Hits, il che equivale a una specie di sconfessione: Dylan l'ha suonata in un solo concerto e poi l'ha dimenticata, o ha voluto che ce la dimenticassimo. Ci siamo quasi riusciti: Can You Please è un pezzo che è stato rimosso dalla memoria del pubblico. È un fenomeno abbastanza curioso; per esempio, in alcune biografie si accenna al fatto che nell'entourage di Andy Warhol Like a Rolling Stone venisse considerata una specie di caricatura del Maestro. Ma Like a Rolling Stone parla di una ragazza ricca che si ritrova a vivere per strada, non sembra c'entrare molto con la factory di Warhol: ed è anche abbastanza improbabile che in quel momento Dylan conoscesse già l'ereditiera Edie Sedgwick, modella e attrice nei film di Warhol, e si immaginasse un futuro così disastroso per lei. Can You Please invece è stata scritta qualche mese dopo; somiglia a Like a Rolling Stone al punto di sembrare un ripensamento, una parodia; il ritornello ha la stessa progressione, anche se accelerata (I-IV-V) e ancor più simile alla Bamba o a Twist and Shout; persino l'arrangiamento è un ritorno senza vergogna alle soluzioni già sperimentate di Rolling Stone, con l'organo di Kooper sempre più scatenato: e soprattutto è una canzone che invita una ragazza a sgusciare dalla finestra, ad abbandonare uno strano tizio pieno di sé che ha bisogno di lei soltanto per "testare le sue invenzioni". Magari non è Warhol, ma non è così strano che a Warhol fischiassero le orecchie: e a quest'altezza la Sedgwick era già il grado di separazione tra le due celebrità. Ma poi che succede? Can You Please non viene più ripubblicata, non viene più suonata, sparisce negli scatoloni dove i dj e i dylaniti ammucchiano i 45 giri, e dieci o vent'anni dopo i reduci si confondono: tutto quello che si ricordano è che Warhol si sentiva preso in causa da un singolo di Dylan nel '65, e nel '65 Dylan ha pubblicato Like a Rolling Stone; così Like a Rolling Stone si sostituisce a Can You Please nella memoria collettiva.

Sembra così sincero, è così che si sente, mentre cerca di pelare la luna ed esporla. Con la sua rabbia da uomo d'affari e i suoi levrieri accucciati... se ha bisogno di un terzo occhio, se lo fa crescere. Ha bisogno di te soltanto per parlare, o perché gli allunghi il gessetto, o glielo raccogli quando lo butta via... ma perché non sgusci via dalla tua finestra? 

Forse sarebbe stata dimenticata ancora di più se gli stessi biografi non l'avessero legata a un aneddoto drammatico; è la canzone che fece litigare Dylan con Phil Ochs, nel più cinematografico dei modi. Erano in limousine - magari era semplicemente un taxi, ma sapete come funziona coi ricordi - Dylan gliela fece ascoltare in anteprima, Ochs non fu abbastanza svelto a salutare l'ennesimo capolavoro del genio, Dylan in crisi d'astinenza di autostima lo fece smontare dal mezzo apostrofandolo col peggiore degli insulti: non sei un songwriter, sei un giornalista. Ochs ci restò molto male e dieci anni e cinque dischi dopo si suicidò - c'è chi ha veramente scritto questa cosa, che il suicidio di Ochs comincia quella sera. Pensateci bene perché magari pure a voi è capitato di avere uno screzio con un tizio che dieci anni dopo si è tolto la vita: pensate come la prendereste se ogni tanto qualche giornalista buttasse lì che lo avete ammazzato voi. Con questo tipo di stronzate Dylan convive da quando è maggiorenne, insomma la sua diffidenza per i cronisti è parzialmente giustificabile.

Can You Please forse non era una canzone su Warhol; di sicuro non era una canzone su Ochs anche se col tempo è diventato impossibile non pensarci - e forse è il motivo per cui Dylan preferiva lasciarla in fondo al cassetto. È certamente uno di quei brani a cui si riferisce quando racconta di essersi accorto solo dopo l'incidente che molti "He" o "They" delle sue canzoni in realtà erano riferiti a sé stesso. Il tizio pieno di sé e di trucchi da cialtrone, che "se ha bisogno di un terzo occhio se lo fa crescere", magari non nasce come caricatura del Dylan superstar del 1965, ma funziona benissimo anche in questo senso. È anche complementare a un altro brano interessante e accantonato nello stesso periodo, She's Your Lover Now; è il primo vero triangolo affettivo che incontriamo in una sua canzone, il che anticipa una situazione canonica di Blonde On Blonde. È insomma un brano che col tempo è stato eclissato da altri simili che funzionavano meglio. In fondo alla fine del '65 Dylan compone soltanto due tipi di canzoni: i cari rassicuranti blues e le progressioni ascendenti-discendenti sulla falsariga di LikePositively è Rolling Stone 2 la vendettaCan You Please è Rolling Stone col sorriso e il 50% di Bamba in più, hai visto mai che alle radio piacesse (non piacque).

Perché lui sembra sempre nel giusto, mentre tu cambi faccia? Ti fa paura la scatola in cui ti tiene? Mentre i suoi matti da genocidio e gli amici risistemano il loro Culto delle Dieci Piccole Donne che darà loro autorevolezza, ma la tua faccia mostra le contusioni... coraggio, il buio sta arrivando, per favore, puoi sgusciare dalla tua finestra?

Però proprio il fatto che non sia piaciuta molto né al pubblico né allo stesso Dylan, ha fatto sì che un quarto di secolo dopo Hornby la potesse incontrare quasi per caso e trovare fresca: l'unico brano del 1965 che per vent'anni non si era ascoltato quasi nessuno, che nessuna radio classic rock aveva ritenuto necessario programmare, l'unica su cui non si era depositata la polvere. Nello stesso periodo, Dylan si decide ad aprire i suoi archivi e fa una scoperta forse per lui un po' deprimente: il primo volume di The Bootleg Collection vende meglio dei dischi che sta facendo in quel periodo. Dunque non è vero che la gente non ha più voglia di ascoltare pezzi nuovi da Dylan; il problema è che vuole pezzi nuovi del giovane Dylan, non del Dylan cinquantenne che pure nel frattempo è riuscito a riconquistare l'attenzione dei critici. Non è nemmeno un problema insormontabile, dopotutto nei cassetti ha ancora un sacco di roba di quegli anni che, se proprio la gente insiste, si può ripubblicare.


Dopo una vita che guardi la foto sfuocata
sulla copertina di Blonde On Blonde, ti sembra
assurdo che quel mattino le persone potessero
essere a fuoco
The Cutting Edge, uscito solo nel 2015, non è l'ennesimo ripescaggio nel cassetto del 1965-1966: è il cassetto intero. Nella sua versione più estesa (18 cd) contiene tutto quello che Dylan ha registrato in studio in quei due benedetti anni, comprese le finte partenze. Io non ho nessuna intenzione di ascoltarla: la vita è breve già così. Neanche la versione deluxe in appena sei cd. Forse, dico forse ho ascoltato quella ristretta in due cd; su Spotify c'è una scelta di appena settanta minuti. Come Hornby, ci tengo a prendere le distanze dai dylaniti di stretta osservanza, quelli che si ascoltano venti take diverse di Rolling Stone anche se alla fine Dylan ha pubblicato la settima - e quindi per favore, non dite che vi serve a capire come ha fatto ad arrivare alla versione perfetta: non c'è nessuna versione perfetta, e la migliore è arrivata quasi subito, le altre erano una perdita di tempo anche per lui, figuratevi per voi che le riascoltate.

Ho un'altra cosa in comune con Hornby, ovvero: anche a me Can You Please Crawl Out piace un sacco. Probabilmente è il pezzo di Dylan che riascolto più spesso, e se fossi stato su quella limo con Ochs gli avrei detto, amico, sei matto? Questa spacca, questa è persino meglio di Like a Rolling Stone, ha più tiro, più passaggi dal maggiore al minore, è un po' meno stronza e un po' più piaciona, questa è la svolta ragazzi! E almeno io sulla limo ci sarei rimasto, ma in breve tempo Dylan avrebbe cominciato a fidarsi meno di me che di Ochs.

Non è che posso lottare con la storia: se Can You Please è piaciuta di meno, evidentemente c'è un motivo: e però continuo a riascoltarla più volentieri. La progressione delle strofe non assomiglia a nient'altro, se non anticipa certe soluzioni indie-rock di trent'anni; è più beffarda e meno cattiva di Like; se la interpreti come un'autoparodia, è la dimostrazione importante di come Dylan sapesse osservarsi da fuori e prendere le misure dello stronzo che era. La rabbia di Positively 4th Street è passata, ha lasciato il posto a una smorfia beffarda: quando nel finale auto-cita l'attacco di Positively ("You've got a lot of nerve to say you are my friend, if you don't crawl at your window"), capisci che non ce l'ha più con nessuno, non è il motivo per cui vuole che quella ragazza lo raggiunga in strada. Forse sto continuando a difendere questa mia idea di un Dylan allegro, uno che nei versi mortiferi di Highway 61 non ci crede davvero, uno che si diverte a far ritmare la sua Twist and Shout col campanaccio (il cowbell!) Can You è particolarmente fracassona, la testimonianza gioiosa di quelle session di fine '65 con gli Hawks che avrebbero dovuto produrre un album nuovo e invece convinsero Dylan a spostarsi a Nashville, dove avrebbe registrato Blonde on Blonde, per farla breve il suo disco più grande. Anche qui abbiamo pianoforte e organo che vanno per i fatti loro, è una gara a chi fa più casino e il risultato è che si annullano a vicenda (spunta molto più la chitarra di Robertson).

Potete vivere senza un intero CD
 di prove scartate di Like a
Rolling Stone?
Io posso.
Come ormai sappiamo, tra gennaio 1965 e giugno 1966 Dylan inventa un suo stile elettrico, qualcosa che non aveva precedenti e che lui stesso non riuscirà in seguito a replicare in laboratorio. Comincia da una posizione di handicap: a gennaio ancora non è in grado di suonare con una band. Prendete una qualsiasi delle versioni di Subterranean (anche quella incisa in Bringing) e provate a canticchiare la linea del basso, che è semplicissima e dovrebbe tenere insieme la canzone: Bom, Bom, Bom, bombobom Bom Bom Bom bombombom eccetera. Vedete che non c'è proprio verso di tenere il tempo, Dylan sbaglia gli attacchi, è abituato a misurare il tempo con la sua voce e non riesce a cedere il ruolo a una sezione ritmica. Fortuna che alla consolle c'è Tom Wilson che lo rincuora e gira qualche manopola per occultare i problemi peggiori. Rapidamente BD impara quel minimo di disciplina necessaria a non far impazzire i musicisti che lo accompagnano. A maggio sta già usando lo studio per comporre: Like a Rolling Stone all'inizio era un valzer suonato sui tasti neri del pianoforte. Il motivo per cui diventa un pezzo rock - il più importante pezzo rock, secondo la rivista omonima - è che i valzer ancora per un po' non riuscirà a suonarli con un gruppo, il quattro quarti è l'unica cosa che funziona e appena si allontana dalla struttura del blues i rischi si moltiplicano. Posso dire un'eresia? Passando ai quattro quarti, Like a Rolling Stone ha perso qualcosa (continua sul Post).
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saluti dalla forca, vostro bob

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Highway 61 Revisited (1965)

(L'album precedente: No Direction Home
L'album successivo: The Cutting Edge 1965-1966).

Vendono cartoline dell'impiccagione.

Esiste un modo migliore di cominciare una canzone, o qualsiasi altra cosa? Funzionerebbe persino su internet: VENDONO CARTOLINE DALL'IMPICCAGIONE. Non clicchereste? Ok, voi magari no, ma fidatevi, sarebbe virale in cinque minuti. Dopo un inizio così puoi scrivere veramente qualsiasi cosa. Dylan ci scrisse Desolation Row, che in effetti è abbastanza vicina al concetto di "qualsiasi cosa". Contiene Caino, Abele e il gobbo di Notre Dame; Casanova ucciso dal Fantasma dell'Opera con un'overdose di autostima; Ezra Pound e T.S.Eliot che fanno a pugni sulla plancia del Titanic, e cose persino più interessanti; ma non filerebbe così bene se non cominciasse con quel colpo di fulmine: da qualche parte hanno impiccato qualcuno, e sono talmente soddisfatti che hanno scattato foto e le spediscono come cartoline. Sembra il far west distopico della Lotteria di Shirley Jackson. Un incubo in un verso. Che genio visionario che è Bob Dylan, pensi.

Anni dopo, oziando su Internet, scopri che fino agli anni Venti negli USA le cartoline dalle impiccagioni esistono davvero: non negli incubi, ma anche nel Minnesota di Bob Dylan, uno Stato del Nord che non era mai stato schiavista. Nel 1920 tre operai neri di un circo appena arrivato a Duluth erano stati fermati con l'accusa di aver stuprato due ragazze. Siccome né la polizia né i medici riuscivano a trovare prove per un processo, ai bravi cittadini radunati fuori dalla prigione fu concesso di estrarre dalla prigione i tre colpevoli e appenderli a un albero. Poi i bravi cittadini si misero in posa per le foto. Dylan è nato a Duluth, vent'anni dopo, quelle foto le ha viste sicuramente. "Il circo è in città", canta, nella stessa strofa. Da Duluth passa l'autostrada 61, quella che attraversa il paese da nord a sud collegando la regione dei Grandi Laghi con la valle del Mississippi fino a New Orleans: quella che incontra la 49 in quel mitico crocicchio in cui si racconta che Robert Johnson vendette l'anima al diavolo in cambio del privilegio di suonare il blues. È solo una leggenda: quel che è vero è che nel '37 in quello stesso tratto morì in un incidente la cantante Bessie Smith. Aspettava soccorsi, ma in un ospedale per bianchi non l'avrebbero presa.

Adesso mi piacerebbe scrivere una melodia così semplice che potesse trattenere la vostra signora dalla pazzia; che potesse calmarvi, tranquillizzarvi, farvi passare il dolore della vostra consapevolezza inutile e insensata. La mamma sta in fabbrica, non ha le scarpe. Il babbo è per strada, cerca il fusibile. Io sono in cucina coi miei blues lapidari. 

Abbiamo lasciato BD confuso e amareggiato a Newport, il 25 luglio. Era andato a scandalizzare i finti poveri del folk festival, si era preso i fischi. Quattro giorni dopo è di nuovo in sala di registrazione. Incide un singolo, Positively 4th Street, una ringhiosa recriminazione contro quella scena del Village che ormai lo considera un traditore, e inizia a lavorare ai primi brani del prossimo album. Con lui c'è più o meno lo stesso gruppo di musicisti che gli ha aiutato a partorire Like A Rolling Stone. Compreso Al Kooper, il pianista che si era intrufolato nello studio e poi era riuscito a suonare un riff di organo che a Dylan era piaciuto. Invece non c'è più Tom Wilson, che quel riff avrebbe preferito nasconderlo nel missaggio. Dylan pensa di poter fare a meno di lui e forse non ha tutti i torti. Ma non aveva tutti i torti nemmeno Wilson, quando faceva presente a Dylan che Kooper non era un professionista dello strumento (non l'aveva mai suonato prima di allora). Lo stesso Kooper era convinto di partecipare a un esperimento, non di incidere la versione più famosa del brano rock più celebrato: sta seguendo gli altri strumenti, durante la strofa è sempre una frazione di secondo in ritardo. Per Dylan andava bene così. È l'eterna lotta tra il rock e il professionismo. Per Wilson quell'organo era una barbarie, per Dylan era l'elemento dissonante che faceva la differenza, che rendeva quella canzone diversa da tutte le altre.

Forse l'aveva capito ascoltando i Beatles. Persino nei primissimi dischi, con una strumentazione ridotta all'osso, i Beatles riescono sempre a mettere in ogni pezzo qualcosa che lo rende immediatamente riconoscibile, dopo pochi istanti di ascolto alla radio. Può essere un coretto, un riverbero, un accordo imprevisto: è la sigla dell'intera canzone, la firma che la rende diversa già al primo ascolto. In Bringing It All Back Home Dylan non ha ancora imparato a firmare i suoi pezzi elettrici: ogni strumento fa il suo dovere e il tappeto sonoro è abbastanza uniforme. In Highway 61 ci sono alcuni istanti tra i più inconfondibili di tutta la carriera di Dylan: l'attacco dell'organo di Like a Rolling Stone, il fischietto di Highway (preso in prestito dal nuovo accondiscendente produttore, Bob Johnston), l'introduzione pianistica di Ballad of a Thin Man (subito contrappuntata dall'organo di Kooper, che anche qui ha carta bianca e fa quello che gli pare), e in Desolation Row i fraseggi flamenco di Charles McCoy, il primo dei tanti musicisti di Nashville che suoneranno nei dischi di Dylan. Altre cose un po' meno note ma ugualmente meritevoli: la spinta assurda di Tombstone Blues, con la chitarra acustica e la batteria che ci danno dentro come dannati mentre la chitarra di Bloomfield accompagna il canto calmissima, come un bluesman che si fa i fatti suoi su un vagone merci che sferraglia nella campagna; o la chitarra lievemente scordata di Queen Jane Approximately di cui forse Dylan non si è accorto; o l'ha lasciata perché era stufo di registrare; o perché le chitarre accordate si assomigliano tutte, mentre quella approssimativa di Queen Jane si ascolta solo in Queen Jane.

Quando tua madre ti rispedisce indietro tutti i tuoi inviti, e tuo padre spiega a tua sorella che sei stanca di te stessa e di tutte le creazioni, mi verrai a trovare, Regina Giovanna?

Highway 61 è un collage di tutte le cose che Dylan credeva di aver capito e che adesso non hanno più nessuna importanza: nomi vuoti che diventano filastrocche. C'è tutto un catalogo di persone che non dovrebbero essere lì (come nella copertina di Sgt. Pepper); non si capisce proprio cosa ci facciano: la bandita Belle Starr, Jack lo Squartatore, Giovanni Evangelista (c'è anche nell'ultimo dei Baustelle), Galileo, Dalila, Cecil B. De Mille, Ma Rainey e Beethoven che dividono la stessa tenda. E siamo solo a Tombstone Blues. Dylan ha inventato il namedropping ossessivo, il riciclaggio pop di una cultura alta/media/bassa che spunta fuori dai versi come le foto dai giornali che non si sono del tutto squagliate nel macero della cartapesta.

Ma Rainey, madre del Blues.
Highway 61 Revisited è l'unico disco di Dylan che io abbia comprato in vinile. Per qualche tempo per me la coolness coincideva esattamente con l'accovacciarsi in un angolo, guardando l'interlocutore con un'aria di sfida. Se ti guarda fissa così, evidentemente anche tu ti sei accovacciato. Ti sta ipnotizzando. Quando cominciano i vostri ricordi a colori? I miei genitori ricordavano tutto il loro passato in bianco e nero: colpa di tv e cinema. Io stesso ho sognato in bianco e nero per tutte le elementari. Gli anni della mia infanzia hanno i colori sfalsati dei filtri di instagram; gli anni Sessanta me li immagino in bianco e nero. Il colore comincia con due copertine di 33 giri: Sgt. Pepper Highway 61 (il che significa che gli americani arrivano al colore due anni prima, e tutto sommato ci sta). La storia dell'umanità acquisisce il colore direttamente dalla camicia di Bob. Il mio vicino di casa produceva camicie simili, le compravo a metà prezzo, ho accecato tutti i miei compagni di liceo e ora è un po' troppo tardi per scusarsi, facciamo che è colpa di Bob Dylan.

(Nel centro secco e impolverato di Modena c'è un vicolo che, senza che BD ne abbia alcuna responsabilità, si chiama Squallore. È nel cuore del Ghetto, ma in quegli anni cosa potevo saperne. Lo scovai in una delle mie prime gite in cerca di negozi di dischi, e all'inizio avevo un po' paura ad entrare, anche perché è uno dei pochi vicoli ciechi. Un giorno che aspettavo la corriera presi il coraggio a piene mani e mi addentrai. In fondo al vicolo c'era un tizio che si faceva, senza dubbi, una pera. D'altronde, che potevo mai aspettarmi in fondo a un vicolo cieco nel centro di Modena a metà anni Ottanta? Era una piazza di una certa importanza, i tossici di tutta l'Emilia venivano tutte le mattine col treno a farsi da noi. Però immaginatevi di essere un ragazzino che ascolta Dylan e trova un Vicolo Squallore e dentro c'è gente poco più grande di lui che si fa le pere. Ci scrissi una canzone, che altro potevo fare? Voi avreste fatto lo stesso).

È molto difficile scrostare i miei ricordi da Highway, e rendersi conto che è un disco molto diverso da quello che credevo di ascoltare io. Era un momento della mia vita luccicante, colorato, ogni giorno una promessa diversa e tuttora non riesco a convincermi che Dylan non fosse allegro mentre incideva Highway. Tanto poco facevo caso ai testi. Non avevo l'attenzione o la necessità di accorgermi che è l'allegria di un naufrago, di un condannato al patibolo, di un candidato suicida. Ogni solco parla di morte. "Ho bisogno di una ruspa, baby, per tenerla a bada". È dappertutto, lo insegue sull'autostrada dal Minnesota, lo aspetta a casa - anche la sua ragazza è pronta a stendergli il sudario sulla testa. Sulla cima della collina, nel deboscio per turisti di Juarez, nel vicolo Desolazione, la morte è dappertutto. Persino la title track, l'apocalisse più scherzosa che Dylan abbia mai messo in musica, è più inquietante di quel che può apparire al primo ascolto. Dio disse ad Abramo: uccidimi un figlio. Abe disse a Dio: mi stai prendendo in giro? Potrebbe essere il primo riferimento esplicitamente biblico di Dylan. Ma anche il primo riferimento al padre, che si chiamava Abraham. Dio Disse, ehi Abe. Abe disse: beh? Dio disse: puoi fare come vuoi, ma la prossima volta che mi vedi ti conviene metterti a correre. Abe disse: questo sacrificio, dove lo vuole? Dio disse: sull'Autostrada del Sole. 


Un mese dopo il disco è pronto, ma Dylan è in California. Like a Rolling Stone si è fatta strada in classifica, ma non riesce ad arrivare alla prima posizione. Non ci sarebbero motivi per prendersela, se al primo posto non ci fosse Eve of Destruction, una canzone di protesta, una canzone contro la guerra nucleare! Una di quelle canzoni che Dylan aveva smesso di scrivere perché, tra le altre cose, voleva vendere di più. Una canzone, peraltro, che sembrava scritta da un discepolo del Bob Dylan acustico, uno che aveva preso molti appunti e ci aveva aggiunto poca fantasia. Si chiamava P. F. Sloan e prima di conoscere Dylan scriveva surf music. Portatemelo, dice Dylan. Ormai è abituato a comportarsi da boss. Il timido Sloan viene condotto all'Hollywood Sunset Hotel, al cospetto del Maestro Bob Dylan. Il Maestro in persona gli fa ascoltare Highway 61 Revisited in anteprima assoluta. Sloan è al settimo cielo, e quando ascolta Ballad of a Thin Man si rotola in terra dal ridere. Anche Bob ride. Che buffo questo Mr Jones che non capisce quel che sta succedendo. Alla Columbia credono che sia una canzone da comunisti, dice Bob. Poi esce perché è arrivato David Crosby dei Byrds.


Sloan rimane solo. Dalla stessa porta entrano due ragazze in topless (continua sul Post)
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Dylan sgozza il maiale sul palco del festival vegano di Newport

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No Direction Home: Movie Soundtrack (The Bootleg Series, vol. 7, 2005)

L'album precedente: Bringing It All Back Home
L'album successivo: Highway 61 Revisited

Il proposito originale era ascoltare tutti gli album di Bob Dylan in ordine cronologico, e sopravvivere per raccontarlo. A mettersi in mezzo, oltre al buon senso, gli impegni professionali, gli affetti, la famiglia che preferisce ascoltare Baustelle e/o lo Zecchino d'oro, c'è Dylan stesso che è riuscito a incasinare la propria discografia come nessun altro. Per esempio, un album come No Direction Home va senz'altro ascoltato - contiene materiale inedito di un certo rilievo - ma quando?

Ero tentato di metterlo per primo, perché comincia con due pezzi registrati nel 1959/60 da Robert Zimmerman - o forse si faceva già chiamare "Bobby Dillon" - ai tempi di Hibbing, Minnesota. Sono le registrazioni più antiche che abbiamo della sua voce e sono emozionanti, soprattutto la prima (When I Got Troubles). Dylan quanti anni ha, 18? Maneggia la chitarra in modo rudimentale, ma ha già un'idea molto personale di come cantare il blues. Si intuisce un lungo apprendistato accanto a un giradischi gracchiante a 78 giri. Il ragazzino è già stato iniziato a uno dei misteri della musica nera, quella blue note estromessa dal pentagramma occidentale, né diesis né bequadro, uno spazio impossibile tra un tasto nero e uno bianco del pianoforte. Canta quasi sottovoce, da crooner, lasciando insoluto l'enigma: è vero quel che racconta la sua fidanzata di Hibbing, che prima di una bronchite mal curata nel 1960 la sua voce era diversa, più calda, meno nasale (simile a quella che avrebbe usato ai tempi di Nashville Skyline?) È difficile capire.

La raccolta poi prosegue con alcune preziose registrazioni del periodo acustico, qualche scarto interessante del biennio 1965-66, e alcune versioni dal vivo (tra cui l'unica versione live acustica di Chimes of Freedom). Allora ho pensato che se avessi ascoltato No Direction Home per primo mi sarei rovinato l'effetto sorpresa. Un'altra possibilità era ascoltarlo verso la fine, tenendo conto dell'anno in cui è stato pubblicato, il 2005. Siamo tra Love and Theft e Modern Times: in un momento in cui Dylan riscrive la sua storia, pubblicando il suo primo (e fin qui unico) volume di memorie, Chronicles, e affidando a Scorsese il materiale del film che voleva realizzare nel 1966 ma non era mai riuscito a montareScorsese utilizzerà qualche spezzone per un documentarioNo Direction Home, di cui questo disco è la colonna sonora. Siamo insomma nella fase in cui il 60enne Dylan rovista nei solai alla ricerca dei ricordi di giovinezza, occultando i più imbarazzanti e incorniciando quelli che si accordano con l'autobiografia che si sta costruendo (e di cui Chronicles I è soltanto una sfaccettatura). In questo senso non sarebbe del tutto sballato ascoltare No Direction Home così tardi: acquisirebbe il sapore di una gita in solaio, appunto. Ma se si tratta di un'operazione revisionista, non rischio di avallarla? Se c'è qualcuno di cui bisogna diffidare quando studi Bob Dylan, è il vecchio Bob Dylan. Se pretende che io unisca i puntini in un certo modo, sicuramente vuole che appaia qualcosa e che non si veda qualcos'altro. Ma io non sono qui per aiutarlo a scolpirsi il monumento.


L'idea sarebbe smontare, decostruire, insomma alla fine ho preferito inserire No Direction Home all'undicesimo posto, in quello spazio strettissimo che sta tra due dischi importanti come Bringing It All Back Home (registrato nel gennaio 1965 ma pubblicato soltanto a fine marzo) e Highway 61 Revisited (nei negozi a fine agosto). Basterebbero questi due termini per rendere il 1965 un anno cruciale. Ma in questi quattro mesi succedono almeno altre due cose fondamentali, di cui si può parlare mentre si ascolta No Direction Home:

1. Like a Rolling Stone. Il brano di Bob Dylan più popolare, più venduto, più ascoltato in streaming, viene composto in maggio, registrato il 16 giugno e pubblicato il 20 luglio. Su No Direction Home c'è una famosissima versione live, quella del concerto di Manchester del 1966, su cui torneremo. Ma intanto abbiamo una scusa per cominciare a parlare di Like a Rolling Stone.

2. Il debutto dal vivo con una band, nel luogo forse meno indicato al mondo: il Newport Folk Festival, il tempio degli hipster 100% acustici. Dylan verrà sonoramente fischiato, ma in un certo senso aveva cominciato lui. Su No Direction Home c'è il primo brano dei tre che riuscì a suonare, Maggie's Farm, ed è una cosa notevole. Per essere la prima canzone che suona dal vivo con chitarra elettrica ed amplificatori, Dylan sembra molto promettente.

E dunque ci siamo. ora Dylan diventa una rockstar. Sembra facile: basta scrivere il pezzo giusto al momento giusto, la cosa che la gente voleva sentire. Peccato che sia completamente il contrario. Like a Rolling Stone non è il pezzo giusto, ed è il contrario di quello che sia i suoi fan sia il pubblico mainstream avrebbero voluto sentire. Al punto che la Columbia stava per buttarlo via: un singolo di sei minuti? Mai visto, ridicolo - e poi il cantante qui esagera, altro che blue note, sembra che stoni proprio: c'è un certo tipo di irruenza a fine strofa a cui oggi siamo abituatissimi, ma nel 1965 no. Poi una sera Shaun Considine, un responsabile delle uscite alla Columbia, racconta di essere entrato da Arthur, un club appena aperto sulla 54esima strada dalla prima moglie di Richard Burton, e di aver chiesto al dj di suonare l'acetato: vediamo come va, vediamo se la gente balla. Il pezzo viene chiesto e richiesto finché l'acetato non si consuma. Ok, quindi forse funziona. Però è veramente troppo lungo: così lungo che in un solo lato di un 45 giri non ci sta, la prima versione promozionale per le radio esce con due strofe sul lato A e due strofe sul lato B. Scelgano i dj quale lato programmare, ma di sicuro nessuno vorrà farla ascoltare per intero, no? I dj saranno costretti a mixare i due lati perché sì, il pubblico la voleva ascoltare intera. Primo paradosso: il più grande successo commerciale di Bob Dylan è una delle mosse meno commerciali che abbia mai fatto (e ne ha fatte tante), un brano che non rientra in nessun genere prestabilito: il sound di Like a Rolling Stone non esisteva prima di Like a Rolling Stone. Nessuno aveva mai suonato l'organo come in quel brano Al Kooper (nemmeno Al Kooper). La canzone che la radio programma di più è la canzone meno radiofonica. Per arrivare al secondo posto della classifica ci metterà qualche settimana: nei primi dieci posti ci resterà per tre mesi. Niente male, per un pezzo di vomito.


Perché all'inizio Like a Rolling Stone era questo: un pezzo di vomito, uno sfogo senza capo né coda rigettato su una decina di fogli di carta al Chelsea Hotel, al ritorno dal tour acustico in Inghilterra. Laggiù era successo qualcosa che nessuno ci ha mai davvero raccontato. Sappiamo che si era comportato male con la Baez: lei ogni sera si aspettava di essere chiamata sul palco, certe notti pensava di essere ospite gradita nella suite e non sapeva che Bob viveva già con un'altra persona, Sara. Sappiamo che BD non era contento di quello che stava facendo, che era stanco del suo repertorio - piuttosto vasto, in realtà, e in costante evoluzione: ma evidentemente gli andava stretto. Non ce la faceva più a presentarsi sul palco con chitarra e armonica, ad atteggiarsi a menestrello e cantante di protesta (e se riascoltiamo i primi brani acustici di No Direction Home e li confrontiamo con l'ultimo live al Philharmonic ce ne accorgiamo, che l'ingenuità di Song to Woody ha ceduto il posto a una certa stanchezza: ormai non arpeggia più, stravolge le melodie, morde il freno, si annoia). Sappiamo che stava meditando un ritiro dalla scena e che in un certo senso Like a Rolling Stone parla di questo. Secondo paradosso: la canzone che permette a Bob Dylan di comprarsi una bella villa in campagna... parla di una persona fallita, decaduta, ridotta a vivere per strada. Forse è lo stesso personaggio dell'ultimo brano del disco precedente, It's All Over Now Baby Blue, quello che ora invidia ai barboni i vestiti che aveva regalato. Dylan ora la chiama "Miss Lonely", quindi è una ragazza: ma forse è solo un modo per sottolinearne la fragilità. Chiunque sia, si è rovinata. Ma chi è? Dylaniti e semplici gossippari sviscereranno ogni verso alla ricerca di un indizio. È la Baez, è la Sedgwick, la Rotolo, è un suo collega che continua a far girare il cappello nelle cantine mentre Dylan gira in limousine, è il suo manager che gli sta facendo firmare contratti capestro? Può essere chiunque, va bene, ma a chi stava pensando Dylan davvero? Perché sembra impossibile scrivere una canzone così diretta e cattiva senza pensare a una persona reale.

Qualche anno più tardi BD taglierà il nodo gordiano delle interpretazioni nel modo più elegante. Mi sono accorto, spiegherà in un'intervista su Playboy, che tutti quei "lui", quei "lei", quei "loro" che usavo nelle canzoni erano camuffamenti: che in realtà erano tanti "io". Forse era l'unico modo per ritirare alcune offese - perché è difficile pensare che il fiume di parole poi condensato in Like a Rolling Stone sia stato eruttato senza l'intenzione di offendere qualcuno (e poi a ben vedere non usa "lui" o "lei", almeno in questo pezzo: usa il "tu"). Si era persino immaginato questo nemico "nuotare nella lava". Vomito, lava, c'è qualcosa di vischioso in Like a Rolling Stone. Ci avrebbe messo anni a capire che quel naufrago era lui, e forse erano gli anni necessari a costruirsi una pietosa bugia. Ma voglio prenderla per buona, perché di tutte le piste possibili è la meno pettegola e la più interessante. Al termine del tour inglese, Dylan è esausto del suo personaggio. È tentato di buttare all'aria la sua carriera, ovvero l'unica cosa a cui si è dedicato dal liceo in poi. La sola prospettiva che lo renderebbe libero è una prospettiva di miseria. E BD conosce la miseria. C'è già passato. I primi mesi a New York potrebbero essere stati più brutti di quanto raccontano i biografi canonici; il "mystery tramp" che propone un affare osceno a Miss Lonely potrebbe essere un ricordo imbarazzante che la rockstar non riesce a liquidare. C'è qualcosa di vero e di vissuto nella materia che prende fuoco in Like a Rolling Stone. È questo la rende un oggetto così vischioso. Dev'essere orribile cadere nella lava, ma chi ti vedesse non riuscirebbe a distogliere lo sguardo.

Terzo paradosso: Dylan conquisterà le classifiche americane con una canzone che racconta il contrario di quello che gli americani vogliono sentire di solito. E sappiamo tutti cosa vogliono sentire: un tizio che viene su dal nulla e grazie al suo talento, alla sua dedizione e alla fede in sé stesso, diventa famoso. Un secolo fa li chiamavano rags-to-riches (dagli stracci alla ricchezza), erano un genere letterario, di libri del genere ne usciva uno alla settimana. Oggi ne escono meno, in compenso in tv ci sono i talent. Per quanto irregolare, la storia raccontata dai brani di No Direction Home è un ottimo rag-to-riches: all'inizio c'è solo un ragazzino di Hibbing con una voce particolare e una chitarra approssimativa, alla fine c'è una delle più grandi rockstar del mondo. In mezzo ci sono solo sei anni (oggi in sei anni, per dire, i Baustelle fanno due dischi). Eppure, in fondo a questa storia perfetta, c'è una canzone che racconta la storia opposta: c'era una volta una ragazza che si vestiva così bene, era generosa coi barboni, non è vero? E adesso guarda come si ridotta, guarda come si è conciata, guarda con chi si accompagna. Riches-to-rags. Dalle stelle alle stalle, diciamo in Italia: notate bene, non diciamo il contrario, non ci viene spontaneo.

Sei stata nelle scuole migliori, ok, Miss Solitaria, ma lo sai che ci andavi solo per farti annaffiare? Nessuno ti ha mai insegnato a vivere in strada, ma adesso dovrai farci l'abitudine...

Forse è per questo che Like a Rolling Stone piace così tanto sia ai fan accaniti che a quelli occasionali, e persino a Bob Dylan (una volta lo ha proprio dichiarato: "Like a Rolling Stone piaceva persino a me"). Mentre tutti puntano verso l'alto, è un brano che guarda coraggiosamente verso il basso. Non per indurre a pietà: per contemplare inorriditi l'inferno dal quale si proviene, nel quale si era tentati di ricadere. Con disprezzo puritano, e un'ombra di rimpianto. Perché verso la fine della requisitoria c'è pure lo spazio per un sospetto: forse chi vive sulla strada senza più segreti da difendere è più libero di chi ci torna in limousine e ha paura di riconoscere i vecchi amici.

Quarto paradosso: nel bel mezzo dell'iperbole degli anni Sessanta, proprio quando tutto comincia ad accelerare e le immagini in bianco e nero cedono al colore, proprio quando Pace e Amore sembrano eclissare ogni pensiero negativo, Dylan strappa il fondale fiorito e occupa la scena con un puro atto di rabbia egotica. Altro che Amore, qui c'è gente che dà via il corpo per campare. Altro che Pace, il mondo si divide in leccaculo e in estranei che ti prendono a calci - no, aspetta, sono le stesse persone quando finisci i soldi. Mentre tutti insistono a cercare in Mr Tambourine Man qualche incitazione a drogarsi, nessuno sembra far caso al fatto che Dylan scrive davvero di droga, e non per raccontare di espansione della coscienza, di comunioni mistiche o altre stronzate, ma della paranoia degli spacciatori (Subterranean Homesick Blues) e della miseria disperata dei tossici. Un baratro vischioso che ci ha attirato tutti a un certo punto.

Dopo Like a Rolling Stone, Dylan smette di scrivere poesie, o almeno così racconta in seguito. (C'è anche da dire che Tarantula stava venendo una vera schifezza, ma il contratto con l'editore andava onorato). Smette di pensare a un comunque impossibile ritiro dalle scene. Ha capito cosa vuol essere: vuol essere la persona che scrive e canta pezzi come Like a Rolling Stone. Giudicare ed essere giudicato. E vuole fare un baccano tremendo. A fine estate lo aspettano a Newport, per il solito festival di gente di città a cui piace la musica di campagna. È la terza volta che lo invitano, perché ancora nel 1962 lui non era nessuno: il suo primo disco non gliel'aveva comprato neanche la mamma (del resto lui al tempo diceva ai giornali di essere orfano). Nel 1963 era la giovane mascotte di Joan Baez. Nel 1964 era già il nome più importante in cartellone, ma tra gli organizzatori c'era già chi borbottava: il tizio si sta montando la testa, ora parla solo di sé stesso, non scrive più quei bei brani di protesta come... sei mesi fa. Nel 1965 si può dire che lo aspettassero al varco. Non tutti, ma qualcuno lo avrebbe fischiato a prescindere. Perché insisteva con testi disimpegnati e incomprensibili, perché aveva già pubblicato un mezzo disco non acustico, perché aveva in top10 un brano rock vagamente simile alla robaccia inglese d'importazione, quelle boyband come gli Animals, i Beatles o i Rolling Stones. Perché insomma, si era venduto. Di fronte all'eventualità di essere contestato dai duri e puri, Dylan decide di essere più duro di loro. Farà così tanto baccano che i fischi non si sentiranno. Un attacco preventivo. Guiderà un gruppo rock al festival folk di Newport. Non aveva mai suonato dal vivo con un gruppo, sin dai tempi di Hibbing - solo in sala di registrazione era riuscito a intendersi, e forse si era illuso che il gioco fosse abbastanza facile. Non è un piano lungamente elaborato: come molte decisioni importanti che prenderà, è una questione di pochi minuti. Il festival faceva parte di una manifestazione musicale più grande; c'era anche un padiglione blues, dove suonava la band di Mike Bloomfield, il chitarrista che aveva suonato nella session di Like a Rolling Stone. Grossman, il manager di Dylan, era lì per capire se il gruppo avesse potenzialità commerciali. A presentare c'è Alan Lomax, il musicologo che tanti dischi fondamentali aveva fatto ascoltare a Dylan (la sua segretaria era la sorella di Suze Rotolo). Si fa scappare qualche ironia di troppo al microfono: Grossman se la prende, si mettono le mani addosso. A quel punto Dylan ha un'idea, e la gira a Bloomfield: domani suono al folk festival, ho l'ultimo set. Perché non ci suoniamo con un gruppo? Forse si aspettava che la band di Bloomfield fosse a sua disposizione. Senz'altro pensava che fosse tutto facile, com'era stato facile tutto sommato registrare Bringing. Bloomfield si mise a provinare musicisti a tarda notte. Al Kooper fu arruolato solo perché era già al festival. Kooper era il pianista che si era intrufolato nello studio durante la registrazione di Like a Rolling Stone e si era inventato il riff d'organo (uno strumento che non aveva mai suonato prima d'allora). Il giorno dopo hanno appena il tempo di suonare un paio di strofe per il soundcheck. Non c'è il tempo per regolare i volumi, ma Dylan non se ne preoccupa: è la sua prima volta, magari nemmeno sa come funzioni, un soundcheck. L'importante è suonar forte. Nel film di Haynes, il sipario si apre e il pubblico di hipster tutti pace&amore vengono presi a mitragliate da una rock'n'roll band in giacca di pelle. Come tutte le Storie, anche quella del rock la scrivono i vincitori (continua sul Post)
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Dylan prende e porta a casa

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Bringing It All Back Home (1965)

(L'album precedente: Concert at Philharmonic Hall
L'album successivo: No Direction Home).

Stavo a bordo del Mayflower, quando scorsi un po' di TerrAH AH AH AH AH AH
Ricominciamo - Uh Uh Uh Uh 
Aspetta un momento - Ah Ah Ah Ah 
Vabbe', Take Due.

Se per descrivere Dylan potessi scegliere un solo disco, ovviamente opterei per Bringing It All Back Home, anche se non è il migliore. Se dovessi scegliere un solo minuto di tutto il disco, credo che mi terrei l'inizio di Bob Dylan's 115 Dream, quello in cui si accorge che il resto della band non è partita con lui e si mette a ridere col produttore Tom Wilson. Buffo. Il momento più rappresentativo del disco più rappresentativo è quello in cui Dylan fa una cosa rarissima per lui: ride. Nello studio di registrazione. Ci sono compagne che non l'hanno visto ridere per anni interi. Negli studi, poi, deve aver tenuto il broncio a tutti per decenni. Ma tra 1965 e 1966 succedono cose miracolose. Tutto gli riesce bene al primo colpo, come in un sogno che si interromperà bruscamente e malgrado tutti gli sforzi BD non sognerà mai più. In quel momento magico basta aver voglia di suonare una canzone, ed essa prende forma. Le parole, gli accordi, è tutto stranamente liquido, si accomoda in qualsiasi recipiente che poi si scopre essere il migliore possibile. Un giorno Bob e Tom si dicono: e se questi pezzi li provassimo con una band? Magari non suonerebbe come la solita lagna (è il quinto disco in tre anni, dopotutto). In precedenza Wilson aveva già provato ad aggiungere alle tracce di Dylan un accompagnamento amplificato - è lo stesso metodo di lavoro con cui porterà in classifica The Sound of Silence - ma senza ottenere risultati apprezzabili. Il mattino seguente mette assieme un po' di musicisti tra quelli che stanno circolando nei pressi dei corridoi della CBS/Columbia. Sono anni senza cellulari, se sei a casa con 37 di febbre può capitarti di non finire nel fondamentale disco di Bob Dylan. Verso le due BD arriva, saluta, spiega due cose del tipo "vorrei un blues di 16 battute in la", e si comincia. Vada come deve andare.

È la svolta. Dylan ne ha fatte tante, ma per qualche motivo questa sembra a tutti la più importante: dalla chitarra acustica a quella elettrica. Se paragoniamo la sua carriera alla storia della cultura occidentale (lo so che è ridicolo, ma funziona), la fase acustica è l'età arcaica, con le sue reminiscenze di antiche culture orali, preistoriche; e Bringing è la transizione a una rapidissima era classica, due anni in cui Dylan definisce i canoni del rock per tutte le generazioni di lì a venire, e poi si fa invadere dai barbari. La frattura col passato arcaico è netta, ed è segnalata con quell'elemento che più rimpiango dei vinile (e delle musicassette): il Cambio di Lato. Che per quanto scomodo creava una frattura, una struttura. Il primo lato di Bringing è "elettrico" - ovvero accompagnato da una band amplificata; il secondo è un breve ritorno alla forma acustica, pur con qualche supporto dei musicisti impiegati nel primo lato (negli anni '90 lo avremmo definito il primo unplugged, ma temo che il termine sia già stato dimenticato). Qualche artista aveva mai usato la struttura a due facce del LP in modo altrettanto drammatico? Non è una domanda retorica, è proprio che non mi vengono in mente altri esempi. Di lì a poco in Inghilterra sarà tutto un fiorire di concept album e rock opera, ma è tutto cominciato con la splendida asimmetria di Bringing: sette pezzi elettrici, quattro lunghe ballate acustiche. Schizofrenia programmata. Dylan ancora non lo sa, ma i suoi show presto prenderanno la stessa forma: un set acustico e uno elettrico, un tempo per gli applausi e un altro per i fischi. Quella che diventerà una tragedia itinerante, e lo porterà quasi all'altro mondo, comincia adesso: il 14 gennaio del 1965 alle 14:30. Comincia benissimo. Wilson trova tre chitarre, due bassi, un piano e una batteria, in tre ore e mezza incidono Love Minus Zero/No Limit, Subterranean Homesick Blues, Outlaw Blues, She Belongs to Me e Bob Dylan's 115th Dream. Le ascoltiamo volentieri ancora oggi. È pazzesco, soprattutto se conosci Dylan, hai un po' di esperienza nel suonare in un gruppo, e quindi lo sai che non è affatto facile suonare con uno come Dylan.

Non era neanche la prima volta che provava a registrare con un gruppo. Succede sempre così: a ogni svolta radicale scopriremo che non è affatto radicale, che a guardar bene BD se la portava dentro da sempre. Another Side sembrava una svolta intimista, ma in effetti era un ritorno a certi temi di The Freewheelin'. Anche Bringing in certi punti riprende l'attitudine sbruffoncella e disinvolta di Freewheelin'. A saper cercare probabilmente tutto Dylan è già compreso in Freewheelin', come l'universo nel punto del big bang. Comunque, già ai tempi di quel primo (in realtà secondo) disco, John Hammond aveva provato a portare altri musicisti in studio con Dylan. Non aveva funzionato. Avevano persino inciso un singolo, poi dimenticato e nascosto. Solo Corrina Corrina era riuscita a entrare nella scaletta finale dell'album. Da lì in poi Dylan aveva preferito cristallizzare la sua identità di menestrello con chitarra, armonica e porta-armonica fatto a mano. Molto più semplice da gestire: si possono registrare dischi interi in un giorno solo. Ma appena l'abito comincerà a stargli stretto, scopriremo che il rock'n'roll elettrico se lo portava dietro sin dall'infanzia; che il sedicenne Robert Zimmerman cantava in una band al Liceo che veniva scritturata per aprire gli spettacoli pubblici a Hibbing, Minnesota. Già ai tempi aveva notato che i musicisti tendevano a mollarlo e andare a suonare per qualcun altro, e non capiva il perché: in fondo aveva una bella voce, non suonava male, perché lo mollavano?

subterraneanÈ un indizio interessante: quando scrive Chronicles, Dylan sembra ancora non aver capito cos'è che lo rende un solista complicato. Quella voce oggettivamente difficile da gestire, quel suo stravolgere le canzoni senza avvertire nessuno, saltando ogni tanto una mezza battuta come se per basso e batteria fosse la cosa più normale al mondo - nel 1965, nello studio di una major, il professionista Dylan ancora si comporta così, e miracolosamente i musicisti gli vanno dietro. Quando qualcuno si perde - come biasimarlo? - Wilson gli abbassa il volume dello strumento in attesa che si rimetta in riga, e via che si va. Se l'ascolti in cuffia, Subterranean è piena di rammendi. Il basso dovrebbe reggere tutto l'impianto, che in teoria è semplicissimo: quattro note, roba da dilettanti. Salvo che Dylan va per i fatti suoi. In fondo era già da due dischi che aveva operato la sua rivoluzione copernicana: se ascolti The Times They Are A-Changin'Another Side e i live coevi, ti rendi conto che Dylan ha un'idea precisa del ritmo, ma lo misura con la voce. Non è il canto ad andare dietro alla chitarra, al massimo il contrario. Ora la stessa cosa dovrebbe succedere con quattro strumenti, che problema c'è? Miracolosamente quel giorno non c'è nessun problema. Un chitarrista, Bruce Langhorne, ha riferito che era tutto molto semplice e intuitivo. A Daniel Kramer, il fotografo che lo ritrarrà sulla copertina, sembrava che BD stesse componendo un puzzle: lo vedeva rimbalzare da un musicista all'altro, tentare una qualche spiegazione al piano, cambiare tempo o accordi a seconda degli stimoli. Ma a volte non contava nemmeno fino a quattro prima di partire: ai professionisti toccava raggiungerlo in corsa. La risata di 115th Dream è l'annuncio di una falsa partenza: "Ero a bordo del Mayflower", canta: poi si guarda attorno, la ciurma lo ha lasciato solo. Ah ah ah, vabbe', ripartiamo. Una sciocchezza, lasciata nel missaggio forse per mantenere quell'idea di ruvido artigianato che la svolta elettrica rischiava di appannare. Ma anche qualcosa di completamente nuovo: certo, l'anno successivo i Beatles si permetteranno di cominciare Revolver con qualche colpo di tosse, e di lì in poi in sala di registrazione succederà di tutto. Ma il primo a mettersi a ridere invece di continuare una canzone è stato Bob Dylan, chi lo avrebbe mai detto.

È un periodo magico. C'è uno studente di cinema che ogni tanto lo riprende con la cinepresa, Dylan gli ha dato il permesso, mal che vada avrà qualche filmino da proiettare con gli amici quando tutta questa follia sarà finita. Dont Look Back diventerà uno dei documentari più importanti della storia del rock, e contribuirà in modo determinante a diffondere l'immagine del Dylan Elettrico, che è ancora l'icona più diffusa e riconoscibile del musicista: un ventenne ricciolone e scostante che prende in giro i giornalisti e ignora le fans che si schiacciano ai finestrini. Un giorno in albergo gli viene un'idea per i titoli di cosa, la propone al regista: vuole farsi riprendere mentre mostra dei cartelli sincronizzati con il testo di Subterranean Homesick Blues. È quasi uno scherzo; c'è anche Allen Ginsberg che si fa inquadrare: sta per nascere il videoclip moderno, l'ha inventato Dylan quel mattino. Sembra tutto così maledettamente facile.

Ho parlato di musicassette, prima? È tempo di confessarlo: di Bringing ho proprio la cassettina, che peraltro in Europa non si chiamava così, bensì Subterranean Homesick Blues. Qualcuno alla Columbia doveva aver pensato che il titolo originale potesse dispiacere ai fieri acquirenti europei. In effetti l'espressione "porta a casa", che in italiano si adopera per dileggiare lo sconfitto, negli USA viene impiegata nello stesso ambito sportivo, ma in un modo molto diverso: si "riporta a casa" una vittoria, quando ci spetta di diritto - quando si è vincenti per tradizione e per lignaggio. E io in effetti ho pensato per anni che Dylan avesse qualche ferita da leccarsi, che si stesse portando a casa qualche rogna da risolvere, mentre Bringing It All Back Home è il titolo più sbruffone che abbia mai scelto: sto riportando a casa il rock'n'roll, perché è roba nostra. Gli inglesi lo avevano solo preso in prestito (e poi diciamolo, hanno un soul di gomma). Un'altra interpretazione: sto tornando a casa, e la mia vera casa è il rock. Il folk è stata un'impostura, un modo per farmi strada anche se non ero ancora riuscito a imparare un quattro quarti decente. Ora che ho succhiato tutto quello che la scena del Village e dei festival folk poteva offrirmi, tanti saluti baby blue. Bringing sarà il primo dico di Dylan ad arrivare in top ten. Venderà molto, molto di più dei pur celebrati album acustici. Lo comprerò persino io - ok, 20 anni più tardi. E poi continuerò a fraintendere Dylan per altri 20.

Quella risata, per esempio. Per molto tempo ho pensato che fosse l'ultimo sfregio al folk. Sul finire del lato A, Dylan intona alla chitarra un pezzo che, se togli l'accompagnamento elettrico, è identico a Motorpsycho Nightmare. Sembra tornato all'ovile, salvo che... dopo otto battute si mette a ridere, e la band riparte a srotolare il tappeto blues dei brani precedenti. Mi sembrava una cosa simbolica, studiata a tavolino: ah ah ah, il vecchio sound acustico, che ridere. Vabbe', facciamola seriamente adesso. Take due, via. Che alla Columbia avessero inciso una risata così, perché a Dylan era sfuggita, senza nessun piano o strategia, negli anni '80 mi sembrava impossibile. Ai miei tempi anche i colpi di tosse passavano dal sintetizzatore.
Bernacca

Bringing è uno dei dischi che faccio più fatica a riascoltare: tra i microsolchi sono rimasti appiccicati così tanti ricordi che non si vede più Dylan. Subterranean è forse il mio brano di Dylan preferito, salvo che ci ho messo vent'anni a capire che parlava di spacciatori di metanfetamine (Johnny's in the basement, mixing up the medicine) - e mi tocca pure ringraziare Francesco De Gregori e Breaking Bad. Per me era soltanto un bellissimo tappeto di parole senza un senso, o con tutti i sensi del mondo. Mi piaceva il modo in cui le sillabe riempivano i versi, mi piaceva che le sillabe dessero il tempo e che persino gli strumenti dovessero adeguarsi. I'm on the pavement, thinking about the government. Nulla sapevo della paranoia di chi cuoce codeina in un seminterrato, e in ogni rumore del pavimento teme di sentire i passi degli uomini del governo. ("Il telefono comunque è controllato, Maggie dice che molti dicono che si farà la retata ai primi di maggio, ordini del dipartimento"). Per me era un enigmatico capitolo del Libro dei Proverbi: qualunque cosa dicesse parlava di me, che magari stavo davvero disteso sul pavimento a pensare al governo De Mita. Sta' attento a quelli che arrivano con la pompa antincendio (sono gli agenti antisommossa, ci avrei messo 15 anni a capire). Non hai bisogno del colonnello Bernacca per sapere dove tira il vento. Try hard, get barred, get back, write braille, get jailed, jump bail, join the army if you fail. Non era chiaro nulla, a parte che a un certo punto dovevi scrivere in braille e se andava male c'era sempre l'esercito. Ma soprattutto: "non seguire i leader, guarda i parchimetri". Il più grande verso di Dylan, se me lo chiedevate. Ma per molto tempo ho pensato che fosse in un qualche modo ironico, del tipo: non hai bisogno di un leader, guarda i parchimetri, se ce la fanno loro non puoi anche tu? C'è da dire che ai nostri tempi i parchimetri erano attrezzi smilzi, allineati, potevano sembrare un esercito sull'attenti. E poi nasci, ti tieni al caldo, calzoncini, prime cotte, impari a ballare, a vestirti, a farti benedire, cerchi di essere un successo, di piacere a lei, a lui, compri regali, non rubi, non scippi, e con vent'anni di scolarizzazione magari ti mettono nel turno di giorno. Il tutto in 16 battute, vi sfido a scrivere qualcosa di più pregnante nel doppio del tempo. Non vuoi essere un fallimento? Sarà meglio che mastichi gomma. La pompa non funziona perché i vandali si sono presi le maniglie. Uno dei miei grandi rimpianti è che non ho mai cominciato a capire il rap. Mi mancavano troppi riferimenti, ho perso troppi treni, ma forse ero sconfitto in partenza, Subterranean mi aveva viziato.

suckcess
Una terza ipotesi per il titolo: Dylan è davvero "homesick", ha voglia di riportare tutto a casa, ma la casa dov'è? Durante il tour inglese andrà a trovare John Lennon. Scoprirà che si era sistemato con la moglie in un bel sobborgo di Londra, una bella villa con sei camere da letto. Di ritorno negli States se ne comprerà una più grande, nei dintorni di Woodstock, dove già abitava il suo manager Albert Grossman. Quando la racconta nelle interviste sembra un capriccio, invece sarebbe stato un investimento abbastanza oculato - se solo Dylan fosse riuscito a stare fermo. Ci andrà a vivere con Sara, ex modella (Playboy, Harper's Bazaar), poi assistente di direzione (Time-Life) che aveva divorziato dal suo primo marito, il fotografo Hans Lownds un anno prima; e Maria, la figlia treenne di Sara che Bob aveva praticamente adottato. Ma New York è a 600 km di distanza, quindi Dylan quando è fuori casa non torna a dormire. Continua a farsi vedere al Village, a frequentare altre modelle, tra cui Edie Sedgwick, l'ereditiera protagonista del corto di Andy Warhol Poor Little Rich Girl. A un certo punto, verso novembre, gli amici cominceranno a chiedergli se è vero che si è sposato. Lui negherà categoricamente. Si era sposato. Ma per molto tempo nessuno ancora saprà di Sara, a tutt'oggi non è così facile trovare sue fotografie (notevole, per una ex modella).

Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ha la pelle scura, ma io l'amo lo stesso (Outlaw Blues).

Arnolfini
Arnolfini dettaglioNon doveva essere poi così banale per un cantante bianco accennare a una "brown-skin woman" in un disco del 1965. Dylan sta scrivendo una specie di libro di prose poetiche dedicato ad Aretha Franklin, Tarantula, una cosa nata per scherzo che poi dovrà terminare davvero perché nel frattempo Grossman aveva firmato il contratto con un editore. La donna languidamente semisdraiata in copertina è la moglie di Grossman, grande amica di Sara. Col suo vestito rosso attira l'attenzione, e la svia dai dettagli (il gemello sul polsino di Bob è un regalo di Joan Baez, cantante di origini messicane con la quale per la stampa ha ancora una relazione). Da qualche parte ci sono le copertine dei vecchi dischi, tra cui Freewheelin': il che significa che da qualche parte c'è ancora l'italamericana Suze Rotolo. Intorno al cuore ci sono insomma tante donne tranne Sara, di Sara non si pronuncia il nome. Sally fa da donna-schermo stilnovista, anche se la foto di Kramer è ispirata al ritratto degli Arnolfini, il capolavoro quattrocentesco del fiammingo Van Eyck (non sarà l'unica volta, lo vedremo, che Dylan confonderà tredicesimo e quindicesimo secolo). Qualcosa di stilnovista, magari filtrato da Ezra Pound, precipita in Love Minus Zero / No Limit (l'unico brano del Lato A che non sia riconducibile neanche vagamente al blues), dove più che di una donna che finalmente gli ha dato la pace, Dylan sembra voler descrivere una forza più astratta, un Amore sincero che illumina in controluce tutta la falsità circostante: la gente porta rose, pronuncia promesse di poche ore, ma il mio Amore non ha bisogno di protestare la sua fedeltà. È sincero come il ghiaccio, come il fuoco: e non si compra con una valentina.

Nei magazzini e alle stazioni la gente parla di situazioni. Leggono libri, ripetono citazioni, tracciano sul muro le loro conclusioni. Alcuni parlano del futuro: il mio Amore parla con dolcezza. Sa che non c'è successo come il fallimento, e che il fallimento non è per niente un successo (Love Minus Zero / No Limit)

She belongs to me è un'impossibile metà strada tra il blues e la canzone d'amore: chiunque sia la protagonista ("è un'artista, non si guarda indietro"), è chiaro che Dylan la possiede per modo di dire. Anche se cerchi di rubarne le visioni, finisci miseramente in ginocchio, a spiarla dalla serratura. È la Baez (porta un anello egizio, al suo cospetto sei un'antichità che cammina)? È Sara? È l'Ispirazione? Potrebbe anche essere la piccola Maria: ad Halloween regalale una trombetta, a Natale un tamburino. Tutto qui, ma assume un senso particolare nel bel mezzo di un disco che trabocca caos. I testi di Bringing mostrano una crescente insofferenza per l'assurdità metropolitana: la scena bohemienne che aveva dato un tetto e nutrito il giovane Bob di colpo appare come un cumulo di stravaganze intollerabili.

Be' mi sveglio alla mattina, ho ranocchie nelle scarpe. Tua madre si è nascosta nella ghiacciaia, tuo padre entra travestito da Napoleone. E tu mi chiedi perché non vivo qui, devi proprio? Vado ad accarezzare la tua scimmia, mi spacca la faccia. Chiedo: ma c'è qualcuno nel camino? Tu rispondi che è Babbo Natale. Entra il lattaio con in testa una bombetta, e tu mi chiedi perché non vivo qui, sul serio? Ho una fame da lupi, chiedo un boccone, mi rifilano riso integrale, alghe e un wurstel lurido. Il mio stomaco sparisce in un buco, e tu mi chiedi perché non vivo qui? Ma sei ben strana. Tuo padre nasconde una sciabola in un bastone; tua madre venera figurine incollate alla tavola; qualsiasi cosa ho nelle tasche, me lo frega tuo zio, e tu davvero mi chiedi perché non vivo qui? C'è una rissa in cucina, c'è da mettersi a piangere. Entra il postino, anche lui prende parte al combattimento. Pure il maggiordomo deve dimostrare qualcosa. E tu mi chiedi perché non vivo qui? E tu perché non te ne vai?  (continua sul Post)
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Il lungo addio alla zingara

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Bob Dylan Live 1964, Concert at Philharmonic Hall (The Bootleg Series, Vol. 6, 2004).

(L'album precedente: Another Side of Bob Dylan
L'album successivo: Bringing It All Back Home).

Quanto alla Regina dei folksinger, non poteva che essere Joan Baez. Joan aveva la mia stessa età e il nostro futuro sarebbe stato unito, ma a quell'epoca sarebbe stato risibile perfino pensarlo. C'era un suo disco su etichetta Vanguard intitolato semplicemente Joan Baez e l'avevo vista alla televisione, in un programma di musica folk della Cbs, prodotto a New York e trasmesso in tutta la nazione. [...] Non riuscivo a smettere di guardarla, non volevo nemmeno battere le palpebre. Aveva qualcosa di assassino nell'aspetto, lucidi capelli neri che le scendevano fino alle agili curve dei fianchi, lunghe sopracciglia un po' sollevate, non era esattamente Raggedy Ann, la bambola di pezza. Mi bastava vederla per sentirmi eccitato. E poi c'era la sua voce. Una voce che cacciava via gli spiriti maligni. Era come se fosse scesa da un altro pianeta (Chronicles I).

A tutti i suoi coetanei dev'essere successo di innamorarsi di una celebrità in bianco e nero vista in tv. Ma a Dylan poi è successo di incontrare la stessa persona qualche anno dopo a New York, in carne e ossa e colori, e farle una pessima impressione, (perché sei ancora uno strimpellatore senza fissa dimora e soprattutto senza un bagno dove docciarti, né questo ti impedisce di provarci con la sorella quindicenne). Da un disastro del genere nemmeno Hollywood saprebbe tirare fuori una storia d'amore, che invece in un qualche modo c'è stata. Nel giro di pochi anni Dylan è passato dall'ammirare la regina del folk in tv a scaricarla come una zavorra. Dev'essere difficile mantenere l'oggettività, dopo una storia del genere. Dylan sapeva di dover incontrare la Baez - la sua strada passava per di lì, aggirarla sarebbe stato impossibile, la ragazza attirava ogni cosa intorno a sé. Ma Dylan sapeva anche che avrebbe dovuto passare oltre. Lei ci avrebbe messo di più a capirlo, ma ascoltando il concerto al Philharmonic la situazione è già abbastanza chiara.

Bob_Dylan_-_The_Bootleg_Series,_Volume_6Quando si presenta al più famoso auditorium di New York, la notte di Halloween, Dylan è il tizio con cui Joan Baez fa coppia abbastanza fissa ai concerti, nonché un affermato folksinger con tre dischi all'attivo (più il primo già ampiamente dimenticato), di cui due usciti proprio in quel 1964: il manifesto del folk di protesta (The Times They Are A-Changin') e il disco in cui ha preso le distanze dal folk di protesta (Another Side of Bob Dylan). Ci sarebbe insomma già abbastanza per rendere lo show vario e interessante. Invece, in un'ora e mezza netta di esibizione, Dylan canterà appena tre pezzi di The Times, cinque da Another Side, tre da The Freewheelin'. Tutto il resto della scaletta consiste in brani inediti: otto! Ci sono alcuni scarti di cui non si riesce a liberare: addirittura è tornata in circolazione la vecchia Talkin' John Birch, con una strofa nuova in cui l'anticomunista paranoide se la prende col postino. Il pubblico ride. C'è Who Killed Davey Moore, il rap anti-pugilato di cui vuole forse ribadire la paternità dopo che è stato inciso da Pete Seeger. C'è già insomma ben chiara nella mente di Dylan l'idea che l'artista dal vivo debba spiazzare il pubblico, e non confortarlo con la riproposizione dei soliti pezzi.

Così, con due dischi ancora freschi di stampa nei negozi, Dylan a ottobre 1964 è già proiettato verso il prossimo, su cui offre scorci notevolissimi: il pubblico applaude e sembra prenderla bene, ma nulla poteva prepararlo alle giaculatorie allucinate di Gates of Eden e It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding), al delirio deliberato di Mr Tambourine Man. Tra brani del genere e With God On Our Side c'è un abisso: l'idea che li abbia scritti lo stesso ragazzo e a distanza di pochi mesi è inverosimile. Se ci fossero arrivati sotto forma di spartiti anonimi, in una capsula del tempo, non ci verrebbe mai in mente di attribuirli allo stesso autore, così come non attribuiremmo versi brechtiani a un emulo di Rimbaud o Blake. A furia di sentirsi chiamare poeta, Dylan ha cominciato a fidarsi e ora riempie le sue strofe di libere associazioni senza una logica che non sia quella del sogno. Gates of Eden sembra modulata sulla melodia di un inno sacro, ma il surrealismo del testo la trasforma in una parodia di Chimes of Freedom. In quel brano, l'ultimo vero inno acustico di Dylan, nel ritornello le campane ricordavano a ogni derelitto che in cielo qualcuno li osservava, qualcuno li aspettava; anche in Gates of Eden, ("ninna nanna sacrilega", la definisce) al termine di ogni strofa viene menzionata un'autorità trascendente (i Cancelli del Cielo), ma solo per ribadirne l'assoluta indifferenza. Aladino e gli eremiti d'Utopia in sella al Vitello d'oro ti promettono il paradiso e nessuno ride - salvo che oltre i Cancelli del Cielo. Contratti di proprietà si aggiornano in attesa della successione al trono, ma non ci sono troni al di là dei Cancelli del Cielo. La madonna nera in moto (regina zingara a due ruote) tallona il nano di flanella grigia che piange per i predatori che gli piluccano le briciole del peccato, ma non c'è peccato dentro i Cancelli del Cielo. Cosa sta dicendo? 

tzaraC'è un metodo dietro a questa pazzia, ed eccezionalmente Dylan lo descrive nell'ultima strofa: "all'alba il mio amore viene da me e mi racconta dei suoi sogni. Non ci prova nemmeno a interpretarli uno per uno. A volte penso che non ci sono altre parole per raccontare quel che è vero". Insomma è entrato nel periodo surrealista, così, di colpo (solo Hard Rain poteva far pensare a un'evoluzione del genere, e infatti è rimasta in scaletta). Il bardo che si ispirava alle notizie sul giornale per cantare del naufragio del Picnic al monte Orso o della morte di Hattie Carroll, da qui in poi si servirà degli stessi giornali per realizzare dei collage dadaisti (o dei cut-up alla Burroughs, Dylan si tiene aggiornato). Se vi fate poeti dadaisti, ed estraete parole a caso da un sacchetto, diceva Tristan Tzara, esse comporranno una poesia che "vi somiglierà": e non c'è dubbio che le immagini buttate a caso da Dylan in Gates It's Alright Ma somiglino a lui, e al mondo saturo di simboli in cui vive. Qua e là galleggiano grumi di senso, aforismi che probabilmente gli ronzavano già in testa e che sono poi i versi che tutti amano citare: "Chi non è impegnato a vivere è impegnato a morire"; "Cristi di carne fosforescente", "Anche il Presidente degli Stati Uniti a volte deve comparire nudo", "Il denaro non parla: bestemmia". Tutto intorno una cascata di immagini che assomiglia al vaniloquio di un chitarrista che butta fuori parole provvisorie sulla melodia che sta provando. Una forma funzionale di scrittura automatica, portata agli estremi in It's Alright Ma. Sono i testi che danno meno soddisfazione ai dylaniti non anglofoni: anche chi riesca a correre dietro al senso del verso, rischia di perdere la visione di insieme (ma c'è un insieme?): quanto alle traduzioni, sembrano davvero collage dada, non c'è niente che abbia un senso slegato dal suono. Buio allo scocco del mezzogiorno, ombre anche nel cucchiaio d'argento, la lama fatta a mano, il pallone del bambino eclissa sia il sole sia la luna per comprendere (lo sai) troppo presto che non ha nemmeno senso provarci. Eeeeh? Però in inglese fila. Al Philharmonic Dylan snocciola una versione che è più o meno la stessa che inciderà in studio qualche mese più tardi, con qualche variante d'autore e una sola papera, in nove minuti di esecuzione: una volta composto il collage non si tocca più. Se Gates of Eden è una parodia di inno sacro, It's Alright è un talking blues capovolto, verboso e in minore. Dylan spara questi due brani nuovissimi quasi in sequenza dopo venti minuti di concerto: e se questa non fosse una sorpresa sufficiente, come intermezzo tra i due deliri propone in anteprima qualcosa di completamente diverso e (all'apparenza) meno dirompente: If You Gotta Go, Go Now. 

If_You_Gotta_Go,_Go_NowLa suona come tutte le altre, con chitarra e armonica, ma anche così è chiarissimo che non è un pezzo folk. È in quattro quarti: è un rock'n'roll. Persino se non l'hai mai ascoltata (non è un brano così famoso, nel 1965 uscì come singolo soltanto nei Paesi Bassi), ti viene comunque l'impulso di battere le mani. Mia cara, non voglio farti pressione, ma tra un po' qui sarà buio e non riuscirai a trovare la porta, per cui se vuoi andare vattene... ma vattene adesso. Sennò ti tocca restare tutta la notte. Il pubblico ride di gusto, doveva essere una situazione divertente al tempo, insolita. O forse era insolito che qualcuno ne parlasse, ci ridesse su. Dopo un'ora di concerto, il pubblico del Philharmonic sa cosa aspettarsi dal suo divo per il 1965: surrealismo e rock'n'roll, sarà un'annata interessante. Ma prima bisogna congedarsi dal passato. Sul palco è attesa Joan Baez.

FarewellAngelinaBaezDylan l'aveva già evocata all'inizio del concerto, coi due brani di Another Side più direttamente ispirati a lei. Il primo è Spanish Harlem Incident: sì, secondo me la zingara è Joan. Non è che possa dimostrarlo, ma si tratta della prima canzone d'amore non perduto, non frustrato, che Dylan abbia mai inciso. Fino a Spanish Harlem l'amore era quello dolente e smarrito del blues. E a parte la rilevante eccezione di Girl of the North Country, questa perdita era espressa con una buona dose di rancore, riversato il più delle volte sulla povera Suze Rotolo. Spanish Harlem è al di là di tutto questo. La zingara ha mani e piedi ardenti (Joan si esibiva a piedi nudi), ha occhi di perla e denti che brillano al buio come diamante ("Avevo paura a incontrarla. Magari mi avrebbe affondato le zanne nella nuca", scriverà in Chronicles). La zingara può leggere il destino di Dylan nel suo palmo irrequieto - in almeno una conferenza stampa, per tagliar corto sulla sua relazione, lui la definì la sua "cartomante". La zingara lo ha inghiottito. Lo ha sventrato, la zingara lo ha messo al mondo ("You have slayed me, you have made me"): la zingara può circondarlo e renderlo reale. Una cosa che non può fare, è perderlo: non è proprio in discussione. Dylan sarà geloso di molte donne, ma non della Baez. Spanish Harlem è il brano in cui si dichiara suo figlio e suo trastullo: la canterà solo quella sera, non risultano altre esecuzioni dal vivo in cinquant'anni.

To Ramona invece è il brano in cui Dylan prende congedo da lei, dispensandole lezioni di vita: non ha mai smesso di cantarla, sul sito ufficiale risultano 373 esecuzioni. Sei prigioniera di un mondo che non esiste, di schemi vuoti, personaggi che ti fanno pensare che devi essere come loro, e soprattutto del tuo pensarti colpevole. E potrei dirtene tante altre, ma presto le mie parole si contorcerebbero in un anello insensato, l'immagine che vi verrà in mente ogni volta che vi capiterà ritornare sullo stesso argomento nel corso di un litigio (il paradosso di Dylan, un tizio taciturno che vive di parole; che in cento e mille strofe ribadisce quanto le parole siano inutili). Così, nel giro di pochi minuti, su Another Side e durante il concerto, Dylan è stato partorito e si è emancipato dall'ingombrante genitrice. Resta un problema: lei è ancora lì dietro le quinte, si aspetta di cantare nel secondo tempo.

Anche il pubblico probabilmente se lo aspetta, era diventato un momento fisso nei concerti di entrambi. Di solito la Baez lo introduceva dopo aver cantato Blowin' in the Wind, un brano che Dylan neanche mette più in scaletta (è uscito da appena un anno, è già passato remoto). Lui aspetta ancora un po', riporta il pubblico ai lidi più rassicuranti della canzone di protesta con una toccante versione di Hattie Carroll - e poi la fa salire senza troppi complimenti, per farsi dare una mano con un altro pezzo inedito, Mama, You Been On My Mind. Inspiegabilmente escluso dalla scaletta di Another Side, il brano sarà registrato dalla Baez nell'anno seguente. È una specie di seguito di Don't Think Twice (anche la progressione è molto simile), una coda all'addio, e non c'è bisogno di spiegare come certi adii diventino lunghissimi, quasi "meaningless ring": a volte guardo il disco del sole al mattino e mi ritorni in mente. Non è più un pensiero geloso, non è più rabbia né necessità erotica, non è nulla e non vale la pena di disturbarti, non vorrei dirti nulla, non pretendo un sì o un no; mi domando soltanto se tu possa vederti così chiara come ti vedo io quando mi torni in mente. Se era una canzone ispirata alla Rotolo, la Baez non ha comunque esitato a impossessarsene. Lei canta "Daddy", Dylan canta "Mama", non è un vero e proprio duetto e non è un'armonizzazione. Dylan va per i fatti suoi, ma è la Baez che si ricorda meglio il testo. Non è soltanto per una questione di diritti che nessun brano cantato in coppia fu inciso al tempo: il pubblico è felice di vederli assieme, ma la prestazione in sé è inferiore alla somma degli addendi. Dylan è imprevedibile, non sei mai sicuro di come canterà il prossimo verso, qualche minuto prima aveva completamente storpiato Don't Think Twice probabilmente perché l'aveva attaccata sulla nota sbagliata. A volte capita, ma Dylan aveva continuato a cantarla così anche al verso successivo, e alla strofa successiva, strozzandosi e stravolgendola. È il modo in cui compone: sbagliando le canzoni che conosce già. La Baez non compone, la Baez esegue: ci mette il cuore ma ha bisogno di punti fermi. È sempre professionale, può duettare con chiunque, ma la voce di Dylan non si impasta bene con nulla. In una coppia mista ti aspetti un soprano squillante e basso caldo, al limite un baritono; Dylan non è virile in quel modo.

Tutta la sua storia con la Baez è una sfida agli stereotipi di genere, non solo di quegli anni (continua sul Post)
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Dylan vuole che restiamo amici

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Another Side of Bob Dylan (1964).

L'album precedente: The Witmark Demos.
L'album successivo: Philharmonic Hall

Sono nella media, un tipo comune; sono come lui, sono come te. Sono il fratello o il figlio di chiunque, non sono diverso da nessuno. Non ha senso parlare con me: sarebbe come parlare con te stesso (I Shall Be Free No. 10)

Più tardi nell'estate, dopo aver incontrato Dylan durante il loro primo tour americano, i Beatles sarebbero tornati ad Abbey Road per incidere un altro album, il quarto in due anni. In ottobre era pronto - nel frattempo si erano rimessi a fare concerti. Non era un brutto disco, Beatles for Sale, ma sin dal titolo metteva le cose in chiaro: si trattava di un 33giri messo assieme alla svelta, per esigenze contrattuali. Un po' inferiore alla loro media. Per riempirlo avevano dovuto ricorrere al vecchio repertorio, cover di rock'n'roll e qualche scarto dei dischi precedenti. La Beatlemania era al culmine, nel Regno e negli USA, ma i Beatles continuavano a incidere e suonare in fretta e furia.

Per quante volte la senti raccontare, la storia dei Beatles rimane qualcosa di inverosimile. In otto anni, dodici LP di studio, due centinaia di composizioni originali. Poi uno si stupisce che siano durati poco, ma è incredibile che abbiano resistito così tanto: e quegli anni valevano almeno il triplo di quelli di adesso, succedevano cose continuamente. Cosa sono otto anni al giorno d'oggi? Il 90% degli artisti che ascolti oggi incidevano già nel 2009 (persino Fedez, capite? Anche lui ha già alle spalle più anni di carriera dei Beatles). In dieci anni i più prolifici fanno quattro, cinque dischi al massimo: e il mercato è già saturo così. Ma i gruppi di ventenni che fiorirono a metà degli anni Sessanta, sulla scia dei Beatles, firmavano contratti che prevedevano in media due uscite all'anno. Del resto chi ascoltava i Kinks non poteva fare molto altro che aspettare un altro disco dei Kinks. La generazione dei baby-boomers, appena uscita dal liceo con in tasca la paghetta dei genitori o il primo stipendio, era già diventata il segmento più importante del mercato. Non avrebbero comprato i dischi che piacevano ai genitori: e gli artisti coetanei erano ancora molto pochi, dovevano darci dentro come dannati per soddisfare la domanda di canzoni nuove. È evidente che le major stavano spremendo quei poveri ragazzi; i quali non sembravano comunque così dispiaciuti di spremersi. Poteva finire tutto da un momento all'altro: oggi non ci pensiamo ma nel '64 doveva essere un'idea abbastanza condivisa. Era già successo tante volte. Il blues aveva avuto il suo momento, il bebop aveva avuto il suo momento, i crooner andavano e venivano - anche Sinatra se l'era vista brutta a un certo punto. Persino Elvis dopo il militare aveva perso il suo smalto e adesso recitava in film imbarazzanti. Nel '63 i Beatles e Dylan avevano fatto il botto, ma quanto poteva durare ancora? Fino al '65, al '66, e poi? Poi sarebbe arrivato qualcun altro, qualcos'altro, funzionava così. Bisognava picchiare sodo finché il ferro era caldo. Registrare e suonare, suonare e registrare.

Qualche mese prima, il 9 giugno, Dylan era entrato in sala di registrazione col produttore Tom Wilson e una cassa di beaujolais. La Columbia voleva un album nuovo e lo voleva subito. The Times They Are A-Changin', un signor disco imbottito di pietre miliari, tutte firmate dal titolare, era uscito appena sei mesi prima, ma ora ne serviva un altro. Per un po' era stata considerata l'idea di pubblicare un live (At Carnagie Hall), ma alla fine fu accantonata - che senso aveva incidere di nuovo le stesse canzoni con qualche applauso alla fine? Servivano pezzi nuovi, serviva carne fresca. E Dylan gliela diede.

In fondo che ci voleva? In una sola sessione, sei ore, svuotò almeno un paio di bottiglie e incise undici brani originali (di cui solo tre già provati dal vivo). Tutto intorno gli amici, qualche collega, persino dei bambini. Il risultato di tutto questo è Another Side of Bob Dylan. Non è un brutto disco. Magari se fosse stato registrato qualche sera prima, e innaffiato con un vino diverso, avrebbe tutt'un altro sapore, ma è andata così. Another Side rappresenta comunque un momento fondamentale in quel rapido processo di metamorfosi che BD sta vivendo. Nel giro di un anno avrebbe cambiato pelle come un serpente: da folksinger del Movimento dei diritti civili a poeta rock decadente. Another Side cattura la prima fase di questo processo di desquamazione: il rock per ora non si vede (lo avverti in lontananza, in qualche blues stravolto e idiosincratico), in compenso è già scomparso l'impegno politico.

Si è sciolto all'improvviso, come neve al sole, sei mesi dopo l'uscita del suo disco più militante, The Times... Nel frattempo Kennedy è stato ucciso, ufficialmente per mano di un attentatore comunista - magari è solo una coincidenza, ma dopo la figuraccia alla premiazione del Tom Paine Award in dicembre, Dylan non parteciperà più per molto tempo a manifestazioni, marce, concerti benefici. L'episodio è rivissuto in due momenti del disco. In My Back Pages Dylan prova per l'ennesima volta a giustificarsi - il problema è che più si spiega meno si capisce, il linguaggio è tornato immaginoso come ai tempi di Hard Rain. Sono stato troppo ingenuo, troppo dogmatico, memorizzavo paroloni e mi ergevo a giudice ma in realtà stavo giocando a fare il pirata e non capivo che stavo per diventare il mio nemico - ah, ma ero vecchio a quei tempi: sono più giovane di così, adesso. È un ritornello giustamente famoso, lo cantano tutti i dylaniti ai compleanni per consolarsi del tempo che passa. Dylan l'ha scritto al momento giusto, a 23 anni: già un trentenne che canta "I'm younger than that now" suona ridicolo.

Motorpsycho Nightmare invece è tutto un nuovo tipo di blues, che prelude alle cavalcate elettriche di là a venire: Dylan conserva la rassicurante progressione armonica del blues ma la usa per raccontare, per la prima volta, una storia vera e propria. Il protagonista parla in prima persona, è un moderno Huck Finn che cerca un tetto per la notte da qualche parte nel Midwest. Casca male: si trova davanti un contadino col fucile in mano che assomiglia pericolosamente al paranoico di Talkin' John Birch Society. Sulle prime cerca di ingraziarselo: ehi, sono un bravo ragazzo, sono un dottore, sono stato anche al college. Ma poi si mette in mezzo Rita, la figlia che sembra arrivata direttamente dalla Dolce Vita (in italiano nel testo). E di nuovo come in Boots of Spanish Leather assistiamo a un'inversione degli eterni stereotipi di genere: è la ragazza a introdursi furtiva nella camera del ragazzo e tentare, come la moglie di Poffarre con Giuseppe, un'opera di seduzione: ma adesso più che ad Anita Ekberg somiglia a Norman Bates, il matto di Psycho! Per trarsi d'impiccio, Dylan non trova di meglio che urlare: "Mi piace Fidel Castro e la sua barba!" La figlia scappa, il contadino sale con lo schioppo, Dylan si ritrova "on the road again". È solo una storiella. Pensavate che Castro, che Cuba mi piacessero sul serio, quella sera in cui dicevo di sentirmi Oswald? No, mi trovavo in impiccio e ho detto la cosa più spiacevole che mi venisse in mente. Tutto spiegato adesso, no? Possiamo passare ad altro?


La perplessità di alcuni protagonisti della scena folk più politicizzata è abbastanza comprensibile. Il titolo del disco, saggiamente proposto da Wilson (a BD non piaceva) è un modo per attenuare lo choc: anche se non ci sono più canzoni di protesta non dovete pensare a un nuovo Dylan che tradisce il precedente; è solo "un altro lato" dello stesso Dylan. Un lato, peraltro, già intravisto in The Freewheelin': il ritorno del cantautore intimista (e possessivo, sbruffone, rancoroso). Si era solo temporaneamente nascosto. Da qualche parte aveva continuato a ammucchiare strofe della sua I Shall Be Free, cambiando le parole a seconda del momento, al punto che quando la incide di nuovo è diventata I Shall Be Free no. 10. Nell'originale gli faceva una telefonata il presidente Kennedy, adesso è il turno di Barry Goldwater, candidato alle primarie repubblicane. ("Ehi, io sono un liberal, ma fino a un certo punto. Pensate che io possa permettere a Barry Goldwater di trasferirsi nel mio quartiere e sposare mia figlia? Mi credete un pazzo? Non lo farei per tutte le fattorie di Cuba"). Dylan è tornato il giovinastro che ci delizia coi suoi simpatici guai: ha una ragazza che gli mette il bubblegum nelle pietanze, ha un amico che fa a pezzi le sue fotografie con un coltello e mostra di vomitare ogni volta che sente il suo nome ("Eh, ne ho un milione, di amici"), ha un invito per leggere poesie in una confraternita di educande ("I am a poet! I know it! Hope I don't blow it!"), e si carica allo specchio boxando contro un Cassius Clay immaginario. Ti ridurrò la faccia come la mia, dice. Neanche la mamma ti riconoscerà. Una cosa interessante che si può fare mentre si ascolta Another Side è cercare di mettere in fila le canzoni a seconda del gradiente alcolico. Non ha molto a vedere col contenuto della canzone. My Back Pages è un brano importante, ma si capisce che BD durante l'esecuzione è semplicemente stanco. I don't believe you  è poco più di uno scherzo, ma BD è in forma smagliante, quest'ennesima recriminazione su un amore perduto sembra la cosa in cui crede di più in tutto il disco. La musica non sembra più presa in prestito a nessuno, c'è un breve riff che si arrovella intorno a un chiodo fisso: mi fa la fa re#, mi fa la fa re#, Dylan prova a uscire da sopra e da sotto ma ritorna sempre lì: lei fa finta che non ci siamo mai incontrati. Il finale è un nonsense dal vago sapore lennoniano: "E se ti chiedono se è facile dimenticare, beh, si fa molto presto: tu prendi qualcuno e fai finta che non l'hai mai conosciuto" (I Don't Believe You).

L'alcool ha sicuramente la sua parte di responsabilità in Black Crow Blues. È la prima volta che BD usa il pianoforte in un pezzo di studio ed è inspiegabile che un produttore raffinato come Wilson gli abbia permesso anche solo di avvicinarsi allo strumento. Dylan col tempo svilupperà uno stile pianistico abbastanza peculiare, ma per ora lo pesta come un ubriaco al bordello, e non ha neanche niente di così interessante da cantare. È uno dei primi esempi di autoboicottaggio più o meno consapevole, qualcosa con cui ci familiarizzeremo col tempo. La gente si aspetta canzoni di protesta alla chitarra e lui incide blues sguaiati al pianoforte. Qualche anno dopo si cospargerà di whisky e si farà trovare mezzo incosciente in un supermercato, per il puro gusto di danneggiare la propria immagine. Quella sera Dylan avrebbe potuto incidere Mama You Been On My Mind: era già pronta, che gli costava? Avrebbe potuto lavorare un po' di più su un abbozzo strano che si intitolava già Mr Tambourine Man; dietro il vetro c'era Ramblin' Jack Elliot più che desideroso di dare una mano. Invece butta giù vinaccio e incide Black Crow Blues. Avrebbe potuto fare un disco molto migliore, ma a che scopo? Dì lì a qualche mese la Columbia ne avrebbe comunque preteso un altro. (Continua sul Post...)
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Chiunque canta meglio di Bob Dylan

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The Witmark Demos: 1962–1964 (Bootleg Series, vol. 9, 2010).

(L'album precedente: The Times They Are A-Changin'
L'album successivo: Another Side of Bob Dylan).

Ah quindi io non sarei uno scrittore?
Canterò una canzone non molto lunga, su un uomo che di male non fece mai nulla. Di cosa sia morto nessuno lo sa: lo trovarono morto un mattino in città. La gente che passava, al sorger del sole notò i vestiti strappati e i buchi alle suole. È lì disteso sul marciapiede, la gente si volta appena lo vede. Arriva il poliziotto a fare il verbale: "Svegliati vecchio, ti porto in centrale". Col manganello lo toccò, e in strada il vecchio rotolò. E.... Gesù, non... ho perso l'ultima strofa. (Man on the Street).

Grazie ai suoi contatti alla Columbia, Dylan poté ascoltare in anteprima i blues di Robert Johnson in un LP che non era ancora stato pubblicato, quello che in seguito fece impazzire Eric Clapton, Keith Richards, Jimmy Page e tutti gli altri. Oggi sappiamo che il fenomeno Robert Johnson è anche frutto di un equivoco: la vecchia etichetta che gli aveva fatto incidere una ventina di pezzi, prima che finisse avvelenato, era abituata a inciderli un po' accelerati, per far ballare la gente. Dunque il vero Robert doveva avere un tono più basso - più simile a quello di altri bluesmen del Delta, e una tecnica un po' meno mostruosa. Ma Dylan non lo sapeva, mentre copiava i blues a Johnson. Sonny Boy Williamson glielo aveva pur detto, che suonava troppo veloce. (Sonny aveva suonato con Johnson la notte in cui rimase ammazzato) (è un episodio troppo significativo per non sospettare che Dylan se lo sia inventato).

E il tuo orologio si fermerà alla porta di San Pietro. Tu gli chiederai l'ora, lui ti risponderà: "È troppo tardi". In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai (I'd Hate to Be You on That Dreadful Day).

"Che copertina elettrizzante, diversa da tutte le altre!
La guardavo incantato" (Chronicles 1).
Il modo migliore di ascoltare i 47 Witmark Demos (registrati tra '62 e '64, non solo alla casa editrice musicale Witmark), è immaginare Dylan come uno dei suoi vecchi idoli in bianco e nero molto sgranato; quelli che registravano un po' di pezzi e poi scomparivano nel nulla misterioso da cui erano emersi. Se di Bob Dylan conoscessimo soltanto il nome e i Witmark Demos, sarebbe comunque una già una leggenda, come Johnson. Dopotutto c'è Blowin' in the Wind, c'è Hard Rain, c'è Don't Think Twice, c'è The Times They Are A-Changin' (al pianoforte!), c'è Mr Tambourine Man. E poi ci sono almeno 15 pezzi misteriosi mai più incisi dal suo autore: se non conoscessimo nient'altro di Bob Dylan, comunque ne avremmo abbastanza per costruirci su di lui la leggenda di un musicista vagabondo in giro per l'America rurale a rimorchio dei treni. Anche Robert Johnson era probabilmente un performer molto più vario di quello che ci suggeriscono le sue incisioni: quando lo invitavano alle feste sapeva suonare qualsiasi cosa. Ma i bianchi discografici volevano sentire il blues, e lui incise quasi soltanto del blues.

E il vino scorrerà a fiumi, a cinque cents al bicchiere: così ti frugherai le tasche e scoprirai che ti manca giusto un cent. In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai. 

Subito dopo la realizzazione del primo disco, John Hammond, il talent scout di Dylan lo aveva messo in contatto con la Leeds Music, una casa editrice che era interessata a pubblicare le sue composizioni, in spartiti sciolti o in un libro. Pochi mesi dopo Grossman, il suo nuovo manager, lo convinse ad annullare il contratto con la Leeds e passare alla M. Witmark & Sons. Abbiamo già notato che a volte le performance di Dylan sembrano più partiture che esecuzioni vere e proprie: questo è vero soprattutto per i Witmark Demos, registrazioni che non erano concepite per essere incise su disco, ma ascoltate da un trascrittore che ne avrebbe ottenuto uno spartito. Fu così per esempio che Blowin' in the Wind fu divulgata sulle pagine di Sing Out! prima che Dylan la incidesse per The Freewheelin'. Ma il vero mercato della Leeds e della Witmark era l'ambiente musicale: gli spartiti venivano inviati per posta agli artisti. Chi manifestava il proprio interesse per un pezzo poteva domandare alla Witmark l'invio di un disco in acetato con l'esecuzione dell'autore. Questi acetati naturalmente non dovevano essere divulgati al grande pubblico, un po' come le copie dei film che oggi le major inviano ai critici, ah ah ah.

Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po' cosa farai quando il diavolo eccetera, ehi dimmi un po', eh, cosa farai? (Watcha Gonna Do).

Che gli i pezzi di Dylan, per quanto oscuri o irregolari, potessero avere un potenziale commerciale, era chiaro sin da quando Peter, Paul e Mary avevano inciso la loro Blowin' in the Wind. Per ottenere un'altra hit bisognerà aspettare il '65, quando i Byrds raccatteranno Mr Tambourine Man e la useranno per inventare un nuovo sound californiano. Nel frattempo, a New York, Dylan si arrangia, scrive di tutto e di tutti, incide quello che gli viene in mente. A un certo punto lo sentiamo dire: proviamo pure questa, giusto per ("Just for kicks"). Qui non sta cantando e suonando per il pubblico, ma per un trascrittore che deve saper riconoscere al volo note e parole. È insomma più importante scandire bene gli accordi e i testi, senza virtuosismi o eccessi teatrali. Il pianoforte può essere più comodo della chitarra, certo non per Dylan che lo suona in modo rudimentale (sui tasti neri) ma per chi deve trascrivere gli accordi. È anche consentito fermarsi e correggersi, o spiegare al tecnico che non si ricorda più il testo della prima strofa ma gliela farà avere più tardi. Il fascino dei Demos è anche nell'approccio intimo che Dylan sembra instaurare col suo ascoltatore: la libertà di mollare un pezzo a metà perché, insomma, "l'ho già cantato così tante volte" (Let Me Die In My Footsteps).

Un uomo è morto per un pugnale affilato, un altro per la pallottola di una pistola. Un uomo è morto col cuore spezzato nel vedere il linciaggio di suo figlio. Tanto tempo fa, lontano lontano... Queste cose non succedono più al giorno d'oggi, non è vero? (Long Ago, Far Away).

È tutto meravigliosamente estemporaneo e irregolare: e ai dylaniti piacciono le cose estemporanee e irregolari. Veramente tanto. Sennò non amerebbero Dylan - c'è sicuramente in giro gente che canta meglio, che incide meglio, che arrangia meglio. Il che non significa che Dylan sia un protopunk, che canti male apposta, o che non si preoccupi della resa delle sue canzoni in sede di registrazione. C'è un grande malinteso di base tra Dylan - che si considera un musicista rigoroso, a modo suo, e che ha sempre cercato di incidere canzoni che considerava belle con arrangiamenti che considerava necessari - e i suoi fan, che a volte danno la sensazione di volerlo sentire suonare male per il gusto di. Questa cosa lo tormenterà per anni, lo vedremo. Ma per ora non lo sa, è convinto di suonare soltanto per un tizio che trascrive. Il pubblico dovrebbe restare fuori da tutto questo. Noi non dovremmo saperne niente (continua sul Post).
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Kennedy è morto, Dylan ubriaco

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The Times They Are A-Changin' (1964).

(L'album precedente: Live At Carnegie Hall
L'album successivo: The Witmark Demos)

Quando William Zantzinger irruppe nell'Emerson Hotel era passata da un po' la mezzanotte dell'otto febbraio. A voi sarebbe sembrato ridicolo, un ventenne con un bastone giocattolo da un quarto di dollaro, col quale già al ristorante aveva scimmiottato Fred Astaire e bastonato qualche cameriere. Ma era figlio di un piantatore di tabacco, era a Baltimora per spassarsela e non c'era modo di fermarlo. Si aggirava nella hall ubriaco e continuava a prendere i neri per birilli. Colpì un facchino, poi un'inserviente. La prima cameriera che chiamò "negra" scappò in lacrime. La moglie, che cercava di calmarlo, finì al tappeto. Zantzinger si ritrovò al banco del bar dove lavorava quella sera la povera Hattie Carroll. 51 anni, madre di otto figli (alcuni dicono dieci). Dammi un bourbon, negra.
"Subito signore".

Lo stava ancora versando quando Zantzinger cominciò a colpirla sulla schiena e in testa. Sbrigati brutta nera figlia di puttana. Hattie continuò a servirlo e poi si ritirò in cucina, mentre Zantzinger ricominciava a tirar calci alla moglie. Hattie si sentiva svenire, lo disse ai colleghi: mi sento male, quell'uomo mi ha così tanto turbato ("that man has upset me so"). Morì in ospedale otto ore dopo: emorragia cerebrale. Era ipertesa, forse non lo sapeva.

Ma voi che filosofate sulle disgrazie, e criticate tutte le paure, tenete ancora a posto i fazzoletti. Questo non è il momento delle lacrime.

Hattie Carroll
La moglie in seguito dichiarò: nessuno tratta bene i negri
come mio marito, qui da noi
Il tredici dicembre dello stesso anno (ma è stato un anno lungo e pazzesco, i Beatles hanno fatto due dischi, Kennedy è stato ammazzato) il giovane promettente folksinger Bob Dylan irrompe a una cena di gala dove qualcuno (non ha neanche capito chi) ha intenzione di premiarlo. È ubriaco e nervoso perché tutti portano lo smoking. Si era portato degli amici per farsi coraggio, ma non li hanno fatti entrare, non erano vestiti abbastanza bene. Quando gli passano il microfono, lui sa che non può cantare. Deve fare un discorso, ringraziare per il premio. È questo che lo rende nervoso? Parte a ruota libera, a volte funziona; quella sera no. Se la prende coi commensali, scherza sulla loro età e le loro calvizie, si dichiara orgoglioso di essere giovane ("ci ho messo molti anni a diventarlo"). Dice che accetta il premio ma che non lo accetta; afferma con forza che non esistono più né Sinistra né Destra ("solo Su e Giù"); spiega che ha molti amici "negroes" ma che non gli piacciono le uniformi, di nessun tipo. A proposito di amici, spiega che anche Phillip Luce è uno dei suoi e che vuole ritirare il premio anche per lui. Luce è un membro del Progressive Labour Party, una scheggia maoista fuoriuscita dal partito comunista americano. In quei mesi organizza viaggi studio a Cuba (in seguito ammetterà di aver trafficato armi e organizzato covi sovversivi a Harlem). Dylan forse non se ne rende conto, ma sta parlando a una cena di autofinanziamento del movimento per i diritti civili. Sta dicendo a dei liberal rispettabili - gente che dopo il dessert dovrebbe metter mano al portafoglio - di rassegnarsi alla pensione, e che non c'è niente di strano se la gente vuole andare a Cuba. Non gli resta che tirar fuori un bastone e cominciare a menar colpi a caso. O può far di peggio?

Pochi secondi dopo, il disastro sociale che è Bob Dylan decide di spiegare che lui si sente un po' come Oswald, il cecchino di fede comunista che aveva freddato Kennedy a Dallas (una pedina dei cubani?) "Ho visto qualcosa di lui in me stesso", farfuglia. "Non pensavo che saremmo arrivati a questo punto, ma... devo avere il coraggio di ammettere di aver sentito le cose che lui sentiva... beh non al punto da sparare". Dall'attentato non era passato neanche un mese, nessuno aveva smesso di pensarci. Qualcuno comincia a fischiare, lui invoca la Costituzione, il diritto di parola e ringrazia per il premio anche a nome di quelli che vanno a Cuba. "O Dio", scriverà in seguito in una lettera di scuse, "cosa avrei dato per non essere lì" (qualcuno ancora si domanda come mai a Dylan non piacciano le premiazioni?)

Qualche anno fa successe una cosa del genere a Cannes. Lars Von Trier, all'apice della sua carriera, di fronte a un plotone di giornalisti, circondato da Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst, cominciò a spiegare che per anni aveva pensato di essere ebreo, ma adesso era diverso, adesso un po' capiva Hitler, come doveva essersi sentito "seduto nel suo bunker, alla fine..." Fu cacciato dal festival del cinema. Era stato un altro esperimento? Aveva voluto testare la tolleranza di uno dei circoli culturali più progressisti del mondo? O era stato punito da un superego capriccioso che gli rimproverava il successo mondano, che da sempre cerca di sabotarlo? ("Feci uscire tutto quello che avevo in testa e dissi: sii onesto, Dylan, sii solo onesto").

William Zanzinger, che a 24 anni
possedeva 200 ettari di piantagione di tabacco; 
e genitori facoltosi che lo proteggevano,
e amici altolocati nello Stato del Maryland,
si fece arrestare scrollando le spalle.
Imprecava e scherniva, e mostrava la lingua,
e fu fuori su cauzione, in pochi minuti.
Ma tenete ancora a posto i fazzoletti.
Questo non è il momento delle lacrime.


Quando assesta il primo colpo di bastone alla sua reputazione di cantante di protesta, Dylan ha un un disco pronto. Uscirà in gennaio. Sarà il suo disco più politico: i tempi stanno per cambiare. Niente più buffonate, niente talking, appena due canzoni d'amore, ma tristi, asciutte, rassegnate. Niente cover, tutti testi originali. Anche le musiche, tutte di Bob Dylan - o almeno così sarà scritto in copertina, e chi non sarà d'accordo se ne farà una ragione. Sarà il disco definitivo per il folk di protesta: nessuno potrà più farne uno migliore. Sarà il suo disco più impegnato: ma, ecco, cos'è l'impegno per Dylan? Come funziona, a cosa serve? A suscitare indignazione per la morte solitaria della cameriera Hattie Carroll, per l'assassino dell'attivista Medgar Evans, per la povertà che spinge Hollis Brown a uccidere i suoi figli, per i minatori disoccupati di North Country Blues, vittime precoci della globalizzazione? ("Dicono che è molto meno caro giù in Sudamerica, dove i minatori lavorano quasi per niente"). O serve a capire gli assassini, a sentirsi nei panni di Hollis Brown, di Zantzinger, di Oswald? Bisogna entrare nelle persone, cercare di capirle da dentro, o non sarà meglio osservarle da lontano, a una distanza prudente? Dylan il problema se lo è posto. È da anni che ci lavora.

Una cosa che a questa altezza ha già scartato senza rimpianti è la satira. Lo abbiamo visto cimentarcisi con Talkin' John Birch Paranoid Blues, un brano in cui aveva creduto così tanto da cercare di proporlo in diretta televisiva. Se in seguito gli avvocati della Columbia gli avevano impedito di inciderlo nel secondo disco, ora le cose erano davvero cambiate. Blowin' in the Wind era stata una bomba, The Freewhelin' aveva venduto bene, Dylan stava diventando importante e nessuno gli impediva di cambiare qualche riga del testo e inserirlo nel nuovo disco. Non ci pensa nemmeno. In John Birch aveva preso di mira l'uomo comune del Midwest; aveva descritto le sue paure come paranoie, ridicole ossessioni di un ignorante. Ma Dylan è un uomo del Midwest. È lì che si è formato, è quel mondo che gli interessa recuperare. Le sue radici individuali, rimosse nei primi dischi, riaffiorano finalmente in North Country Blues. La paura di morire in un olocausto nucleare - o soffocato in un rifugio antiatomico - Dylan la conosce per esperienza diretta: era la stessa che le maestre gli avevano infuso a scuola durante le lezioni e le prove di evacuazione. Il razzismo non è un problema astratto, un virus esotico isolato nel Sud del Paese: Dylan lo ha sperimentato a Hibbing, Minnesota, quando ancora si chiamava Robert Zimmerman ("A Hibbing, i finlandesi odiavano i boemi, i boemi odiavano i finlandesi e praticamente tutti odiavano gli ebrei"). Per ridere di tutto questo dovrebbe ridere di sé stesso. Ma se ride di sé stesso, chi lo prenderà più sul serio? Dylan rideva degli anticomunisti, finché un comunista non ha sparato al Presidente. Dovrebbe fingere che non è successo, che le cose a questo punto non cambiano?

My name it is nothin',
My age it means less.
The country I come from
is called the Midwest...

Un'altra possibilità rapidamente scartata è la canzone indignata: quella che punta il dito contro un male del mondo, più o meno specifico. Anche qui non mancano esempi di precoci tentativi: una delle sue prime canzoni, The Death of Emmett Till, era il racconto indignato di un altro fatto di cronaca, la storia vera di due buzzurri razzisti che avevano ammazzato un bambino afroamericano e l'avevano fatta franca, sulle note di House of the Rising Sun. È un pezzo efficace per quanto ingenuo (ma non lo sono tutti i pezzi di protesta? Non lo sono tutti i pezzi folk?) Dylan avrebbe potuto cantarlo a Washington senza imbarazzi. Invece se ne è sempre vergognato. Non tanto dell'ingenuità dei versi, quanto di aver pensato di poter scrivere una canzone del genere. Dalla morte di Emmett Till a quella di Hattie Carroll il passo sembra breve. Ma qualcosa è successo. Qualcosa che non ti aspetteresti da un folksinger con robuste radici nel tessuto culturale americano. Dylan ha scoperto Bertolt Brecht.

("Hai letto molte cose di Brecht?"
"No, però l'ho letto").

Dylan è un autodidatta, in molti sensi. Il modo con cui si confronta con la cultura, in cui impara le cose è del tutto particolare, pre-moderno in un certo senso. In Chronicles dà l'impressione di poter afferrare i concetti soltanto quando qualcuno glieli riduce alla forma orale. Può essere un amico o un tizio incontrato per caso durante una gita in motocicletta: un matto o un profeta. Quando a vent'anni comincia a farsi delle domande sulla Guerra Civile, trova indispensabile chiedere un parere a Van Ronk - il quale non fa che ribadire un'ovvietà da sussidiario. Dylan era perfettamente in grado di leggere un sussidiario, ma aveva bisogno di sentirsi dire certe cose da un Van Ronk. Dylan in realtà legge più di quanto sembri, ma anche quando si tuffa nella libreria del suo padrone di casa, descrive la sua esperienza come un incontro con scrittori in carne e ossa: Balzac sembra un suo amico, beve litri di caffè, perde un dente e si domanda: "cosa significa?" ("Balzac is hilarious").

Hattie Carroll, che era cameriera in cucina, 
con 51 anni e dieci bambini,
che serviva portate e gettava immondizie
e che in vita non sedette mai a capotavola
e che non rivolgeva mai parola ai clienti,
e che raccoglieva gli avanzi dai tavoli,
e su un altro piano svuotava i portacenere,
fu uccisa da un colpo inferto da un bastone
che girando nell'aria piombò in quella stanza,
determinato a uccidere ogni gentilezza,
e non aveva mai fatto niente a Zanzinger!
Ma voi che filosofate di disgrazie, e criticate tutte le paure, tenete ancora a posto i fazzoletti. Questo non è il momento delle lacrime.


lotte lenyaQuanto all'incontro con Brecht, esso non passa nemmeno dalla pagina scritta: Dylan ascolta Jenny dei pirati in un teatro di Christopher Street, mentre aspetta Suze Rotolo che lavora dietro le quinte. Forse non c'è modo peggiore di accostarsi al teatro epico brechtiano, quello che a uno spettatore disincantato non dovrebbe offrire allo spettatore "suggestioni", ma "argomenti". Il Dylan ventenne è lo spettatore meno brechtiano che si possa immaginare. Quando nel buio della sala ascolta la storia della Fregata Nera, "tutta vele e cannoni", che arriva in città per raderla al suolo e salvare una sola persona, la suggestione è potentissima, gli argomenti scompaiono. È il ricordo dell'infanzia a Duluth, Minnesota, porto internazionale sul Lago Superiore, dove le navi andavano e venivano in continuazione e "l'intenso fischio delle sirene ti prendeva per il collo e ti toglieva il senno... sembrava sempre annunciare qualcosa di grande".

Jenny dei pirati è una canzone bastarda (continua sul Post). 
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Mr Dylan va a Washington

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Live at Carnegie Hall 1963 (2005)

(L'album precedente: Brandeis University 1963
L'album successivo: The Times They Are A-Changin').

Qualcuno qui magari si ricorda di Placanica. Quel ragazzo che sparò a Giuliani a Genova - in realtà dagli atti del processo risulta che sparò in aria ma la pallottola incontrò un sasso, e vabbe'. Qualcuno rammenta che aria tirava nei mesi successivi? Ecco, immaginate che a un'enorme manifestazione, convocata in quei mesi per chiedere verità e giustizia sui fatti di Genova, un giovane cantautore prendesse la chitarra in mano e davanti a tutti cantasse: lasciate stare Placanica, non è mica colpa sua. È solo una pedina nel loro gioco. No, non mi pare che sia successo. Ci sarebbe voluta una certa incoscienza, una certa faccia tosta, una certa miscela di entrambe che è merce rarissima.

Una pallottola da un cespuglio si prese il sangue di Medgar Evers...

Tra il festival alla Brandeis University e il concerto alla Carnegie Hall ci sono appena cinque mesi, ma i tempi stanno decisamente cambiando, non solo per Dylan. Il ragazzo ha iniziato a vendere dischi - non tanto i suoi, all'inizio: è la versione di Blowin' in the Wind di Peter, Paul and Mary a essere entrata in top ten. Ma è Joan Baez soprattutto che lo ha preso sotto la sua ala. Con già tre dischi d'oro all'attivo, la Baez non è soltanto una cantante folk: lei è popolare davvero. Il suo pubblico è molto più esteso di quello del folk festival di Newport (dove comunque chiama sul palco Dylan in luglio); più trasversale della piccola comunità di studenti e hipster metropolitani che cercano nel folk una connessione sentimentale con l'America vera (il Paese reale, lo chiameremmo oggi). Lo si vede chiaramente appena un mese dopo.

Il 28 agosto centinaia di migliaia di manifestanti marciano su Washington per chiedere pace, lavoro e diritti civili. Se guardate le foto, è uno di quei casi in cui in Italia si parla di un milione, un milione e mezzo (centomila per la questura). L'80% erano afroamericani e probabilmente non avevano mai assistito a concerti folk. Ma Joan Baez aveva le carte in regola per prendere il microfono - qualche ora prima che il reverendo Martin Luther King annunciasse "I had a dream" - e intonare Freedom, intonare We Shall Overcome. La Baez però si era portata anche Dylan. Che occasione storica per cantare Blowing in the Wind davanti a centinaia di migliaia di persone, no? Pensate che Dylan la coglierà?

E poi vi stupite che non vada a Stoccolma. A un pubblico così diverso dal solito, il giovane cantautore bianco non propone il suo primo (e fin qui unico) successo, l'unico brano che avrebbero potuto sentire in radio; l'unico di cui qualcuno avrebbe potuto canticchiare un ritornello - è vero che da qualche parte del corteo lo avevano già intonato Peter Paul e Mary, ma nessuno se la sarebbe presa per un bis. A un pubblico tanto affamato di cori da chiesa e/o da stadio, Dylan propone un pezzo che ha appena scritto e non ancora registrato, una canzone che conosce solo lui, ispirata un po' alla Bibbia un po' alla Jenny dei Pirati di Bertolt Brecht, When the Ship Comes In. Nel filmato si vede la Baez arrivare in un secondo momento, un po' a sorpresa, quasi come se avesse capito solo in quel momento che c'era bisogno di dare una mano - ma neanche lei sa le parole, e allora che fa? Canta la melodia. Con l'acustica approssimativa che doveva esserci, con quel benedetto ragazzo che si ostina a masticare parole nuove davanti al microfono, l'unico modo di salvare l'esibizione è far sentire la melodia. Lei se ne rende conto subito, e interviene. Una professionista, lei.

(Non tutti quelli che amano Dylan sono obbligati ad amare la Baez. Ma di solito più conosci lui, più scopri di stimare lei).

Gli sceriffi, i soldati, i governatori sono pagati, e i federali e i poliziotti; ma il povero bianco è nelle loro mani come uno strumento. Nelle scuole gli insegnano dall'inizio che le regole e le leggi sono dalla sua parte, per proteggere la sua pelle bianca e conservare il suo odio perché non veda mai le cose come stanno, e il ruolo che gli è capitato; ma non va incolpato. È solo una pedina nel loro gioco...

"Ma cosa sta dicendo?"
Come autosabotaggio When the Ship non era sufficiente. Quando lo richiamano sul palco centrale, Dylan aggiunge un altro inedito, Only a Pawn in Their Game, che oltre a essere una delle melodie più brutte mai trovate da Dylan in 50 anni di altalenante carriera, è anche il brano che cerca di contestualizzare, se non di minimizzare, le responsabilità individuali di Byron De La Beckwith, l'assassino dell'attivista per i diritti umani Medgar Evers appena due mesi prima. Andrà ancora in giro per molti anni a vantarsi di aver mirato al negro che tornava a casa da una riunione; due giurie di soli bianchi lo proclameranno innocente. Ma è solo una pedina nel loro gioco, dice Dylan. Ha ancora i capelli molto corti, l'inquadratura stringe sul suo bel viso imberbe, la chitarra non si vede e quasi non si sente, non è mai stato così poco cantante e così predicatore. Qualche manifestante sembra sbigottito, ma forse sta solo cercando di capire le parole: l'acustica era pessima. Oggi la definiremmo una provocazione, ma non tanti si accorsero di quello che Dylan stava facendo - lui stesso non era così consapevole: non ancora abituato a essere interpretato e sviscerato per ogni parola e ogni silenzio. E davvero, quel giorno tutti avevano ben altro a cui pensare. Chi c'è stato, ricorda che sulle corriere lo stato d'animo prevalente era l'ansia. Non andavano a una festa, sapevano di potersi prendere gas o pallottole. La marcia su Washington è solo l'inizio: poi ci saranno altre battaglie, e Joan Baez ci sarà quasi sempre. Dylan invece è già a disagio - o è un'impressione?

Due mesi l'artista emergente fa una data al Carnegie Hall. La registrazione è così buona che alla Columbia pensano di farne un disco; hanno già mandato in stampa la copertina quando cambiano idea, non si è mai capito il perché. Live at Carnegie Hall 1963è il disco che ha rischiato di essere il primo live ufficiale di Dylan, dieci anni prima di Before the Flood. I brani hanno circolato per trent'anni su bootleg abusivi prima di entrare, un po' alla spicciolata, nel catalogo ufficiale: una nuova versione di Talkin' John Birch Paranoid Blues e un inedito, Who Killed Davey Moore?, escono nel primo volume della Bootleg Series nel 1991; una Hard Rain e When the Ship Comes In usciranno nel settimo volume, la colonna sonora del documentario No Direction Home di Scorsese. Allo stesso volume viene allegato un minialbum con sei canzoni, che è quello a cui stiamo facendo riferimento adesso, perché Dylan senz'altro ci interessa ma non siamo fanatici. Se fossimo fanatici, potremmo recuperare tutte le canzoni del concerto dall'edizione limitatissima in sette 33giri di tutti le incisioni di Dylan del 63, che la Columbia ha stampato per evitare che dopo 50 anni scadano i diritti (ne esistono soltanto cento copie in vinile).

Restiamo sui brani del miniLP, che ci sarebbe già tanto da dire. Il concerto comincia con quella che dovrebbe essere la prima versione mai incisa di The Times They Are A-Changin', un brano che attualmente su Spotify risulta ascoltato 48 milioni di volte - il doppio di Blowing in the Wind. Tra le canzoni di Dylan, solo Like a Rolling Stone la sorpassa. Io quando l'ho risentita in tutto il suo nudo splendore, sui titoli di apertura di Watchmen, non la ascoltavo probabilmente da 15 anni. È chiaro che quando chiede ai genitori di dont't criticize what you can't understand non mi fa più l'effetto che mi faceva alle scuole medie. È chiaro che se dovessi ridurre tutto Dylan a un verso solo probabilmente sceglierei proprio "don't criticize what you can't understand", che è poi quello che ha ripetuto ai critici per mezzo secolo, invano. (In effetti, cosa stiamo facendo in questo esatto momento?) Ma se ora l'ascolto nella sua prima versione live è perché sto cercando di toglierla dal suo involucro di canzone-famosissima-di-BD e cercare di calarla in un contesto storico, sociale - in realtà qualsiasi contesto andrebbe bene, pur di riuscire ad ascoltarla con orecchie nuove. Per me è sempre stata un buffo ossimoro, una canzone vecchia che parlava di rivoluzione, di cose nuovissime che sarebbero arrivate. Lasciamo perdere.

Restiamo all'ottobre '63; quell'estate Dylan ha visto i manifestanti sul mall di Washington, ha ascoltato il reverendo King; gli hanno chiesto di cantare una canzone ma forse lui non aveva quella giusta da cantare. Pochi giorni dopo il suo amico bluesman e scrittore Tony Glover lo va a trovare nel suo appartamento sulla Quarta Strada. Sul tavolo di lavoro i soliti scartafacci. Glover intravede un paio di versi che già nel '63 sembrano i meno dylaniani in assoluto: "come senators, congressmen, please heed the call". Venite senatori e deputati, per favore, ascoltate l'appello. A quel punto Tony racconta di aver detto: "ehi, ma che roba è?" (What is this shit, man?), per sentirsi rispondere; beh, sai, sembra che sia la roba che alla gente piace ascoltare. Seguirà un mezzo secolo di ritrattazioni, in cui Dylan negherà di aver mai cercato coscientemente di cambiare il mondo con le canzoni, o di aver mai ambito a un ruolo da portavoce di un movimento o di una generazione. Forse l'unico modo di riascoltare The Times con orecchie vergini è tentare un po' di sano revisionismo: c'è stato un momento in cui ci ha davvero provato, in cui si è messo a tavolino e ha tentato di costruire la canzone adatta per la prossima Grande Marcia. La sua We Shall Overcome. E c'è riuscito?

Oso rispondere di no (continua sul Post).
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Dylan è un rapper?

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Bob Dylan In Concert – Brandeis University 1963 (2010).

(L'album precedente: The Freewheelin' Bob Dylan,
L'album successivo: Carnegie Hall 1963).

Questa qua è a proposito del Picnic sul Monte Orso, che non c'è mai stato... era previsto che ci fosse, ma non è andata così. È stato due anni fa a New York City, quando organizzarono un picnic sul Monte Orso per la gente che era stata in casa lungo tutto l'inverno... vendevano biglietti per il picnic, ma un gruppo di persone si mise d'accordo e cominciò a stampare biglietti falsi per il picnic, e li vendevano anche loro. Così sulla nave alla fine c'era il doppio di persone di quelle che avrebbero potuto starci, sulla stessa nave, cioè... la nave era per tremila persone e ci salirono seimila persone. 
E il picnic non ci fu, perché la nave colò a picco (risate).

The Freewheelin' Bob Dylan esce ufficialmente il 27 maggio del 1963. Due settimane prima Dylan ha partecipato a un festival folk in Massachussetts, presso la Brandeis University. Se nella scena hip del Village era già un personaggio di un certo rilievo, a dieci miglia da Boston è ancora un signor nessuno: non è così scontato che qualcuno si dia la pena di registrarne la performance. Il nastro di Brandeis University (l'originale?) fu ritrovato nell'archivio di Ralph Gleason, critico musicale e cofondatore del Rolling Stone, dopo la sua morte. Siccome non erano ancora passati 50 anni, la Columbia aveva ancora il diritto esclusivo di ripubblicarlo, cosa che fece nel 2010.

Per i dylaniti di stretta osservanza si tratta di un documento importante: c'è la prima registrazione pubblica di The Ballad of Hollis Brown, un blues degli Appalachi secco e gelido, la storia di un contadino affamato del Sud Dakota che col suo ultimo dollaro compra sette cartucce per far fuori moglie, figli e sé stesso. Ispirato da un fatto di cronaca, scartato dalla scaletta dell'album del '63, Hollis Brown diventerà uno dei nuclei emotivi dell'album successivo, The Times They Are A-Changin', il disco più serio, più politico del primo Dylan. L'unico pezzo di The Freewheelin' che suggeriva un'evoluzione del genere era Masters of War, che in questo nastro segue immediatamente Hollis Brown.

L'unica foto che abbiamo. Respect.
In seguito Dylan affermerà e ribadirà ovunque di non aver mai voluto fare politica con le canzoni, ma in questa registrazione c'è almeno un quarto d'ora in cui ascoltiamo un folksinger indignato sobillare gli studenti universitari con slogan pacifisti e bozzetti di denuncia sociale. Se anche a quest'altezza l'immagine di un Dylan barricadero non prevale, è perché un altro quarto d'ora lo passa a intrattenere gli stessi studenti con le sue buffonate preferite - i talking blues. Ne esegue addirittura tre, in poco più di mezz'ora, e malgrado da un punto di vista melodico e ritmico siano in sostanza la stessa canzone ripetuta tre volte, il pubblico mostra di gradire. Ridono. I talking blues sono divertenti. Vale la pena di guardarli un po' più da vicino: In Brandeis dopotutto è il più parlato degli album di Dylan.

Tanto per cominciare, non sono blues. Né da un punto di vista musicale (la progressione degli accordi è diversa) né storico: non nascono in seno alla comunità afroamericana, ma sono la bizzarra invenzione di un mandolinista del South Carolina, Christopher Allen Bouchillon, che aveva un sacco di cose da cantare ma - dicono le cronache - era orribilmente stonato, sicché il produttore che lo snidò a metà anni Venti gli suggerì di limitarsi a declamare i suoi testi mentre strimpellava. Erano comunque versi concepiti per essere cantati, con un pattern abbastanza regolare: quattro tetrametri giambici, accoppiati con rime baciate. C'è già la possibilità di raddoppiare le sillabe accelerando il flow, come faranno i rapper decenni dopo. Un primo effetto comico nasce proprio nel contrasto tra la musica - che sembra assolutamente cantabile - e l'ostinazione della voce solista a ignorare la melodia. Un secondo effetto nasce dall'aggiunta alle strofe di un commento finale senza più vincoli metrici.

Il primo Talking blues Bouchillon lo registrò nel 1927, con un discreto successo. Se volete considerarlo l'inventore del rap, perché no: nella mia lunga vita ho visto consegnare il titolo ad artisti bianchi meno antichi e meritori, da Steve Tyler a Debbie Harry a Joe Strummer a.. a... Celentano. Non c'è dubbio che Bouchillon abbia iniziato a declamare su una nota sola molto prima di loro. Il fatto che la sua tecnica nasca dalla necessità di superare un handicap lo accosta senz'altro a molti rapper di oggi che danno l'impressione di non riuscire a passare dal do al sol senza autotune. Ma Bouchillon non è senz'altro il primo ad aver parlato su un accompagnamento musicale. Altri bluesmen stavano già inserendo recitativi tra i ritornelli cantati, il che si avvicina già più all'idea del rap moderno (Dylan ruberà qualcosa anche da loro, vedi le varie versioni di I Shall Be Free). Malgrado il nome, invece, il talking blues di Bouchillon avrà più successo presso le comunità folk e country. Woody Guthrie si impossesserà della formula aggiungendo soltanto quella sua verve particolare che aveva conquistato il giovane Dylan sin dal primo ascolto ("Era poetico e duro e ritmico. Aveva una tale intensità e la sua voce era come un pugnale [...] Buttava dentro il suono dell'ultima lettera di una parola ogni volta che ne aveva voglia e l'effetto era quello di un pugno"). Dopo Dylan, e grazie a lui, si cimenteranno col talking blues Jonny Cash, Phil Ochs, e in Italia, con devozione quasi filologica, Francesco Guccini.

Il talking blues è il primo tipo di canzone folk che Dylan ha provato a scrivere. Come sappiamo uno dei due brani originali del suo disco di esordio era già un talking affinato e tagliente, Talkin' New York, in confronto al quale A Song to Woody sembra molto più ingenua. Dylan sembra un po' più maturo, più esperto delle cose della vita, quando si esprime coi talking blues: dopo averne scritti un paio può pure raccontare in giro di aver viaggiato in treno merci per il Delta in compagnia di questo o quel bluesemen e aspettarsi che qualcuno gli creda. Ancor prima di Talkin' New York, Dylan dovrebbe aver scritto uno dei pezzi eseguiti alla Brandeis, Talkin' Bear Mountain Picnic Massacre Blues. Noel Stookey (il Paul del trio Paul, Peter and Mary) racconta di aver incontrato Dylan al Gaslight, e di avergli allungato una copia dell'Herald Tribune con un articolo sul tragicomico naufragio di un battello nel fiume Hudson. Il giorno dopo Dylan gli avrebbe fatto sentire la prima versione del suo Talkin'. Curiosamente Stookey rammenta con precisione la data: 19 giugno del 1961. Quando Dylan lo usa per chiudere il suo set alla Brandeis, il brano ha ormai due anni e Dylan lo indossa come un pantalone sformato: ormai ha imparato come allungare il recitativo a fine strofa a suo piacimento. In generale alla Brandeis Dylan dà l'impressione di appoggiarsi sui talking come se li considerasse i brani più sicuri del suo repertorio: anche chi non conosce la nuova promessa del folk newyorchese ascoltando Talkin' Bear Mountain almeno si fa una risata. Di Talkin' World War III abbiamo già parlato: si tratta di uno dei brani più interessanti e personali di The Freewheelin'. 

Beh mi sentivo davvero giù
Non sapevo proprio che fare più.
I comunisti son pronti alla guerra
Arrivan dal cielo, arrivan da terra
(Non mi daranno pace...)

Un discorso a parte lo merita Talkin' John Birch Paranoid Blues, che fu levato dalla scaletta di The Freewheelin' all'ultimo momento (esistono rarissime copie del 33 giri che lo contengono). Non solo: era il brano che Dylan intendeva cantare in tv, all'Ed Sullivan Show, il 12 maggio. È un brano divertente che si prendeva gioco dei membri di un'associazione anticomunista radicata in particolare nel Midwest. La JBS esiste ancora, tra i suoi fondatori ci sono quei fratelli Koch che hanno dato una grande mano anche al movimento del Tea Party. Al tempo accusavano Martin Luther King di essere un pupazzo nelle mani dei sovietici, e Kennedy un traditore della Repubblica. E tuttavia nella primavera del '63 i tempi sembrava che stessero cambiando. Che i giorni della caccia alle streghe di McCarthy fossero alle spalle lo si capisce anche solo dal fatto che lo stesso Ed Sullivan fosse ben contento di presentare il brano: fu il primo a protestare quando gli avvocati della CBS si opposero alla messa in onda. Ma come - chiese il presentatore - possiamo fare sketch sul presidente Kennedy e non su un'associazione di qualche decina di migliaia di membri?

A quel punto, piuttosto di cambiare canzone, Dylan rifiutò di partecipare al programma (continua sul Post)
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Il Bob a ruota libera

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The Freewheelin' Bob Dylan (1963).

(L'album precedente: Live at the Gaslight 1962:
L'album successivo: Brandeis University 1963).

Nel 1963 Tom Wilson era un promettente produttore trentenne. Non aveva ancora avuto l'idea di fornire a The Sound of Silence un accompagnamento elettrico, il gesto che di fatto rimise assieme i misconosciuti Paul Simon e Art Garfunkel e li proiettò verso la fama mondiale; non aveva ancora scoperto Zappa, né prodotto i Velvet Underground. Ma aveva già lavorato coi giganti del free jazz, Sun Ra e Coltrane. Quando alla Columbia gli chiedono di aiutare un nuovo folksinger a completare il suo album, non sembra molto convinto: "pensavo che il folk fosse roba da scemi (dumb guys). Lui suonava come quegli scemi, ma quando quelle parole saltarono fuori, restai sbalordito". Si tratta ovviamente del nostro Bob Dylan, che in quei mesi è già diventato uno degli artisti più cool in città. Anche se il suo primo disco ha venduto soltanto 5000 copie; anche se continua a suonare in seminterrati come il Gaslight (però Furio Colombo quando passa nota una fila di ragazzine che cerca di entrare). Anche se le nuove canzoni per ora è più facile leggerle che ascoltarle: gli spartiti di Blowin' In The Wing Oxford Town escono su rivista prima ancora che le canzoni siano incise.

(Persino io ho vissuto qualche anno in cui non sapevo chi fosse Dylan, ma già conoscevo una canzone che faceva Risposta non c'è, o forse chi lo sa, la luna nel vento sarà. La cantavano gli scout più grandi con le chitarre, rintanati sul fondo delle corriere; leggevano testo e accordi su fotocopie di ciclostili che circolavano liberamente, senza più indicazioni di autori e coi titoli sbagliati. Che in fondo era esattamente quel tipo di fama a cui aspirava Dylan prima del '63: spargere le sue note anonime nel mondo, come Woody Guthrie e tutti gli altri bardi più o meno sconosciuti di cui si sognava erede).

Il 1963 cambia tutto, o almeno in seguito ci siamo convinti di questo. In primavera escono due album che in teoria fanno tabula rasa dell'immaginario giovanile e della storia della musica: uno è proprio The Freewheelin' Bob Dylan, il primo capolavoro di Dylan; l'altro è il 33giri di questo nuovo gruppo inglese, i Beatles. Anche loro all'apparenza non fanno nulla di nuovo e neanche di troppo intelligente. Anche i loro brani possono essere smontati pezzo per pezzo, e rivelare gli antecedenti, anche meno clamorosi: c'è ancora molto rock'n'roll (un genere che da qualche anno era passato di moda), qualche ballata, qualche incursione spericolata nel rhythm and blues... nulla di eccezionale. Anche loro un po' scemi, un po' poser, con un'agguerrita fanbase di ragazzine. Quello che fa la differenza, nota Bob (o almeno così racconta 40 anni dopo), è un imponderabile elemento di simpatia. Istintivamente, Lennon e McCartney azzeccano la tonalità della nuova generazione: pur muovendo da radici più complesse, più contorte, Dylan fa la stessa cosa. Più delle parole conta il personaggio che stai costruendo, o meglio: il personaggio che riesci a costruirti, con quelle parole.

Sono mesi intensi. Dylan è diventato maggiorenne (al tempo succedeva a 21 anni) il che ha fornito al suo nuovo manager una scusa per rinegoziare il contratto con la Columbia; è stato addirittura in Europa in una balorda tournée - un regista inglese dopo averlo visto e ascoltato aveva deciso di scritturarlo per un dramma televisivo alla BBC; lui per l'occasione aveva dimostrato quell'inettitudine alla recitazione che tante frustrazioni arrecherà a lui e ai suoi fan più affezionati. Ma insomma, in città i giornalisti cominciano a parlarne bene. Pete Seeger e Dave Van Ronk, l'aristocrazia folk, lo invitano sui palchi, ai festival, sul divano quando c'è bisogno. Il nuovo disco sta crescendo, non è che il ragazzo si trovi sempre a suo agio in sala di registrazione: diversi esperimenti andranno buttati via - però quel che resta sembra proprio roba buona. Più originale del solito. Quasi ogni pezzo ha una sua storia, un suo pedigree, un paio di ballate hanno progressioni armoniche che puoi far risalire al Settecento. Ma basta attraversare la strada, anzi, un corridoio alla Columbia, e c'è già chi la pensa in un modo completamente diverso: il folk? Roba da scemi.

Sono quelle percezioni che ad alcuni dylaniti sfuggono. Oggi dissezionare le radici è fin troppo facile. Woody Guthrie, il blues del Delta, il folklore inglese, sono a portata di clic. È facile rendersi conto che il cantautore ventenne era una spugna imbevuta di antichità europee e americane; le fonti dirette e indirette sono lì apposta per autorizzare qualsiasi deriva erudita: lo stesso Dylan ci tiene a farci sapere che in lui convergono il blues di Robert Johnson, il simbolismo di Rimbaud, l'espressionismo di Jenny dei Pirati. E allo stesso tempo, tutta questa roba è un po' da scemi. Tutto il revival folk, questa sottocultura del Village che tiene in piedi qualche caffè, che se ti sbatti ti può far vendere qualche migliaio di dischi. Roba da studenti. Specchietti per le allodole. È un sospetto che sfiora lo stesso Bob, quando all'inizio del suo blues omonimo avverte: le canzoni folk di oggi le scrivono a Tin Pan Alley (il quartiere degli editori di musica commerciale).

È fin troppo facile oggi prendere The Freewheelin' e smontarlo nei suoi fattori primi - per scoprire che su 13 pezzi Dylan è responsabile sì e no di un paio di melodie (c'è di nuovo un ragtime sparato a cento all'ora Honey, Just Allow Me One More Chance, e a ben vedere anche Don't Think Twice è un ragtime), e che certe invenzioni (la progressione di Girl of the North Country) sono fortuite, magari causate dal fatto che non conosceva gli esatti accordi di Scarborough Fair, o magari l'aveva ascoltata una volta sola e se la ricordava in una scala diversa. È fin troppo facile perdersi nell'enciclopedia dei rimandi, ed è il modo migliore per non capire l'impatto del disco nel 1963. Persino Blowin' in The Wind non era un'aria originale, ma nel '63 chi poteva saperlo? Solo Pete Seeger ricordava di aver sentito il canto degli schiavi ribelli, No More Auction Block, da cui Dylan aveva preso la strofa. Quel che crea veramente la tabula rasa non è Dylan, ma l'ignoranza del pubblico a cui si rivolge. Questi ventenni suoi coetanei, o di poco più giovani, che Guthrie non lo ascoltano e non lo ascolteranno mai. Di Robert Johnson deve ancora uscire un LP. Per loro The Freewheelin' suona assolutamente nuovo e fresco. E Dylan non fa nessuno sforzo per suggerire il contrario: il folk, dice, ormai si fa a Tin Pan Alley. Forse ce l'ha col folk commerciale, quello che sta per riempirgli le tasche appena gli artisti più affermati di lui cominceranno a incidere le sue canzoni. Forse ce l'ha col suo pubblico di finti poveri e hipster (il termine esisteva già, anche se indicava più spesso i bohemién bianchi che ascoltavano il jazz). Forse non ce l'ha con nessuno: sta solo suggerendo di non essere preso sul serio.

Per fare un esempio: una prestigiosa rivista studentesca ha indetto un concorso: scrivete una canzone sui fatti di Oxford. A Oxford, Mississippi, il presidente Kennedy ha dovuto mandare la Guardia Nazionale per tenere aperta l'università - altrimenti i bravi cittadini del posto avrebbero sparato a James Meredith, primo studente universitario afroamericano. Dylan partecipa al concorso con questa canzoncina che sembra incaricarsi di deludere qualsiasi aspettativa: racconta di essere stato a Oxford (non è vero) e di avere incontrato la sua ragazza - e il figlio della sua ragazza - in mezzo ai fumogeni. Nel frattempo è morto qualcuno e bisognerebbe investigare. Fine.

È difficile capire come l'autore di bozzetti del genere possa essere stato identificato come portavoce politico di una generazione (continua sul Post).
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Scrivere Hard Rain a vent'anni (e sopravvivere altri 50)

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Live at the Gaslight 1962 (2005).

(L'album precedente: Bob Dylan
L'album successivo: The Freewhelin' Bob Dylan)

Come sapete Dylan non è andato a Stoccolma, pare avesse un impegno. Come avete forse sentito ha mandato una discepola, Patti Smith - una tra quel migliaio di artisti importanti che senza l'esempio di Dylan sarebbero cresciuti in un modo molto diverso, o non sarebbero cresciuti. Magari avete anche visto la clip in cui Patti Smith canta A Hard Rain's A-Gonna Fall ma a un certo punto si blocca per l'emozione. Patti Smith che avrà fatto più di un migliaio di concerti in vita sua - ma è pur sempre all'Accademia di Svezia, e Hard Rain è veramente un testo difficile. È pieno zeppo di numeri, di simboli, di immagini apocalittiche - un giorno Dylan disse che l'aveva scritto durante la crisi dei missili di Cuba, nell'imminenza della terza guerra mondiale e delle piogge radioattive che ne sarebbero seguite, e che in ogni verso era condensato l'argomento di una canzone che non credeva avrebbe più avuto tempo per scrivere.

C'è un problema: la crisi scoppiò nell'ottobre del '62 (quando un aereo spia U2 americano scoprì una base missilistica a Cuba), e noi sappiamo che Dylan la stava già cantando nel settembre di quell'anno, quando partecipò a una specie di festival folk alla Carnegie Hall. Presentava il leggendario cantautore Pete Seeger, che prima di cominciare avvisò gli artisti: solo tre pezzi a testa, non più di dieci minuti. Al che il giovane Bob alzò la mano: ehi, ma io come faccio? Una delle mie canzoni ne dura proprio dieci. Seeger non fu l'unico a innamorarsi di Hard Rain al primo colpo. Quando Allen Ginsberg la ascoltò, appena tornato dall'India, racconta di essersi messo a piangere: di colpo la sua generazione sembrava superata. Insomma se devi scegliere quale canzone portare alla cerimonia del Nobel, Hard Rain sembra una scelta da intenditori. Non è famosa come Blowin' in the Wind, non è acclamata come Like a Rolling Stone, perfino Hurricane è più ascoltata su Spotify, però tutte queste canzoni Dylan le avrebbe potute scrivere soltanto in un determinato periodo della sua carriera. Invece canzoni apocalittiche e immaginose come Hard Rain ne ha sempre scritte, e ne scriverà finché campa.

Resta una terribile evidenza, a cui nessuno fa molto caso (ma forse Dylan sì): di tutte le canzoni apocalittiche e immaginose, quella che merita di essere scelta per il Nobel l'ha scritta a ventun anni. Pensateci. Non è così strano che un ventunenne scriva grandi poesie - Shelley, Rimbaud, eccetera. Sì, ma Shelley è annegato a trent'anni, e Rimbaud ha smesso di scrivere a venti. Dylan ne ha 75 e scrive ancora, ma quando si tratta di mandare una canzone a Stoccolma, ce ne manda una del 1961. Voi che rapporto avete con le cose che scrivevate a vent'anni? Se avete vent'anni adesso non potete capire (ma tanto non state nemmeno leggendo). Io di solito comincio ad avere problemi dopo undici anni: attualmente mi sto dissociando dalle cose che ho scritto nel 2005. Non significa che le trovi disgustose - ok, sono disgustose - ma ogni tanto c'è persino roba buona, però è come se l'avesse scritta qualcun altro, un parente, un tizio con cui ho avuto una relazione che m'imbarazza un po'. Non riesco nemmeno più a correggere, a cambiare qualcosa, sarebbe come produrre un falso. In sostanza non sono più quella persona: persino le cellule delle ossa credo che nel frattempo si siano rigenerate. Quel che voglio dire è che sì, forse Dylan davvero quella sera aveva un impegno. O forse non è voluto andare a Stoccolma perché sapeva che il premio era per il sé stesso di cinquant'anni prima, e lui semplicemente non si sente più quel Dylan lì. Sarebbe come mentire - non che a Dylan ripugni mentire, ma forse non gli andava (continua sul Post)
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Bob Dylan, fantasma

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Bob Dylan (Bob Dylan, 1962).

(L'album successivo: Live at the Gaslight).

Well, I don't know why I love you like I do
Nobody in the world can get along with you

Cos'è questo rumore. C'è un tizio che strimpella in un caffè del village. È bianchissimo ma cerca di cantare come un nero. È un ragazzino ma vuole sembrare un vecchio. Ha preso uno di quei vecchi ragtime da 78 giri e lo canta come se girasse a 45 - forse è un modo per scaldarsi, forse nei giorni di magra va a suonare sopra le grate della metropolitana, col berretto sul marciapiede. A modo suo è anche bravo. Pare che sia in giro da un anno, pare che abbia già trovato un tizio alla Columbia che gli vuol far firmare un contratto. C'è un piccolo revival del folk, in città, il rock'n'roll ha un po' stancato e non ci sono novità all'orizzonte. E va bene, ma quanto può andare avanti un movimento del genere, voglio dire, chi ha davvero voglia di ascoltare ancora quelle vecchie canzoni? Siamo nel futuro, perdio, siamo nel 1962.

In occasione del conferimento a Bob Dylan del premio Nobel per la letteratura, mi sono deciso a un passo che accarezzavo da anni - si possano accarezzare i passi? vabbe' - ho ascoltato tutti gli album del premio Nobel in ordine cronologico. Sono ancora vivo per raccontarlo, credo (ma se accostate il cuore al mio petto, sentirete il vibrare metallico di un'armonica).

Bob Dylan è il disco di Dylan che nessuno conosceva. Tanti anni fa, quando non esistevano i servizi streaming e non c'era abbastanza banda per scambiarsi intere discografie p2p, se volevi fare il dylanologo c'era un solo complicato sistema: ti dovevi far prestare i dischi dai vecchi. Erano brutti dischi in vinile, segnati - molti che li comprano oggi in libreria non hanno idea di quanto facilmente si rovinassero quegli affari di plastica; e anche le copertine, bellissime, ma compresse l'una contro l'altra perdevano il lucido abbastanza presto e si sgualcivano più in fretta dei libri.

Questi vecchi che conservavano i dischi di Dylan a loro volta li avevano presi in prestito da altri ancora più vecchi, che a volte li avevano addirittura comprati nei negozi, perché sì, a quei tempi esistevano negozi che quel tipo di dischi te li vendevano - il prezzo al chilo era esorbitante. Questo li costringeva a fare scelte abbastanza ciniche. Perciò anche i dylaniti più strettamente osservanti, quelli che avevano diecine di suoi dischi in casa e ci avevano investito centinaia di migliaia di lire, Bob Dylan no, non lo avevano mai comprato. E adesso tenetevi forte: siccome non lo avevano comprato, non lo avevano nemmeno mai ascoltato.

Carnegie Hall, settembre '62.
Proprio così. Non c'era modo di farselo prestare, né di telefonare a una radio per chiedere You're No Good. Bob Dylan era già famosissimo, forse lo era un po' più di adesso, ma il suo primo disco non lo aveva nessuno. Dimenticato. I due pezzi originali erano stati ristampati in qualche compilation più o meno ufficiale, e tanto bastava. Nel frattempo uscivano già ristampe assurde, prove di prove di prove, ci fu un periodo in cui la Columbia ricattava Dylan, se non torni con noi pubblichiamo certe canzoni orribili che hai registrato per scherzo qualche anno fa - lo fecero davvero. E poi ci fu quel momento in cui Dylan disse, vaffanculo, volete ascoltare tutto? Proprio tutto? Volete che apriamo gli scaffali e vi facciamo ascoltare venticinque take diverse di Like a Rolling Stone? Tenete, beccatevi questo ennesimo disco di roba che qualsiasi altro artista butterebbe via. E i vecchi compravano, i vecchi avevano accesso a misteriose fonti di liquidità - però il primo disco no, niente da fare. Non era considerato interessante. Perché non l'aveva scritto lui, sapete. Dylan era considerato soprattutto un cantautore a quei tempi. L'idea che avesse iniziato come interprete suonava fastidiosa.

Così ho deciso di scrivere un commento a tutti i dischi ufficiali di Bob Dylan, dal primo all'ultimo. Compresi i live? Nei limiti del possibile, sì. Compresa la bootleg series? Se ce la faccio, sì. Compreso quel disco con venticinque prove diverse di Like a Rolling Stone? No. 

Non è che fosse una rarità. Tecnicamente non credo che lo sia mai diventato, veniva ristampato meno degli altri ma con regolarità. Ma era considerato una falsa partenza. Questo ci dice tanto sul modo in cui è cambiata la nostra immagine di Dylan col tempo, perché se oggi decidi di ascoltare quel primo disco - su Spotify ci metti due minuti a trovarlo - assolutamente no, tutto ti sembra tranne una falsa partenza. Quel ventunenne spavaldo sulla copertina è già Bob Dylan. Ha già idee tutte sue su come si stravolge una canzone. Quel modo di trasformarle nella parodia di loro stesse - ma senza tradirle mai davvero - lo sta già applicando. Sta già trasformando vecchi blues dolenti in cose diverse, cose moderne, di un genere ancora inascoltato e inascoltabile (non credo di avere il diritto di usare la parola protopunk). Suona folk e sta già prendendo in giro il genere folk (Pretty Peggy-O). Suona blues e sta già giocando a cambiare un accordo per vedere se per caso non gli capita di inventare qualcosa di nuovo (Baby, Let Me Follow You Down). Soprattutto, suona già la chitarra e l'armonica come Bob Dylan. In certi pezzi viene il sospetto che le suoni molto meglio qui che altrove. Dylan non è ancora un poeta - ha già scritto diversa roba ma perlopiù l'ha buttata via, come fanno gli adolescenti. Non è ancora un compositore. Ma come musicista è già maturo. Temprato da mesi di gavetta in strade gelide e tutto il resto.

Old New York City is a friendly old town,
From Washington Heights to Harlem on down.
There's a-mighty many people all millin' all around,
They'll kick you when you're up and knock you when you're down.
It's hard times in the city,
Livin' down in New York town.

Foto di Joe Alper: Dylan con Suze Rotolo.
(Ne risentiremo parlare).
Dylan viene dal passato. Non dal suo personale, di cui non ci parla mai (continua sul Post)
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